L’anima del tempo e i primi orologi meccanici pubblici a VI ore in Basilicata
di Antonio Bavusi
(Ottobre 2022) – Creative Commons Attribuzione – Non commerciale citando la fonte

 

Appresso del tempo il Nulla risiede infra ‘l preterito e ‘l futuro, e niente possiede del presente, e apresso di natura e’ s’accompagna infra le cose impossibili. Onde per quel ch’è detto e’ non ha l’essere, imperò che, dove fusse il nulla, sarebbe dato il vacuo” (Leonardo da Vinci)
Tieniti sempre saldamente legato al presente. Ogni situazione, anzi ogni attimo, ha un valore infinito perché rappresenta l’eternità nella sua interezza” (Wolfgang Goethe)
Indi, come orologio che ne chiamine l’ora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perché l’ami, che l’una parte e l’altra tira e urge, tintin sonando con sì dolce nota” (la preghiera delle lodi del mattino. In Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, canto X, 139-143)

Carta di Montepeloso tratta dall’apera dell’Abate Pacichelli sul finire del XVII secolo (pubblicata nel 1705). Indicata con la lettera B è indicato l’Orologio, probabilmente inglobato nella torretta visibile sulla carta.

Carta di Montescaglioso tratta dall’apera dell’Abate Pacichelli sul finire del XVII secolo (pubblicata nel 1705). Visibile la Torre di San Giovanni con l’Orologio sormontato da campana e dallo stendardo.


Orologio a VI ore – Chiesa di San Rocco a Cancellara (PZ)
Facciata della torre campanaria. Da notare lo spostamento della lancetta verso l’ora Seconda a testimoniare il funzionamento dell’orologio.
Meccanismo dell’orologio recante la data di costruzione (1772)

Cancellara: panoramica del castello con la chiesa parrocchiale sullo sfondo


Particolare del portale della chiesa di San Rocco

Il quadrante a VI ore di Acerenza (a sinistra) e quello della facciata della chiesa S.Filippo Neri a Napoli. Da notare sulla torre longobarda di Acerenza l’attacco della vela che sorreggeva in origine la campana dei rintocchi delle ore.

Orologio a VI ore di Acerenza, visto da Via G.Albini. Meridiana “Casa Nolè” e meridiana nei pressi della cattedrale di Acerenza

Epigrafe Galeazzo Pinelli, banchiere genovese che nel 1563 acquistò dai Ferrillo-Orsini il feudo di Acerenza e il castello, assumendo il titolo di marchese di Tursi e Duca di Acerenza.

Orologio a VI ore del Vescovado di Melfi (non più esistente), abbattuto dopo il terremoto del 1930

In alto, il castello di Melfi come si presenta oggi, senza la vela che sorreggeva la campana dei rintocchi. In basso, il principe di Melfi, Andrea V Doria Phamhilj – Landi, che restaurò l’orologio dopo il terremoto del 1851, e la processione del Corpus Domini

La tendopoli realizzata presso il castello di Melfi, dopo il terremoto del 1930. Da notare la vela crollata che sorregeva la campana dell’orologio, probabilmente ancora funzionante, nonostante il sisma (l’orologio è stato restaurato nel 2016, dopo 86 anni dal sisma del 1930)

 

[Foto in fase di inserimento. Le foto sono dell’autore dell’articolo. Per le foto storiche e le cartoline, leggere nel testo a fianco]

La misura del tempo

Kronos (in greco, tempo), divora i figli, muta cioè le cose e gli esseri viventi, Li fa prima nascere e crescere e poi li fa decadere. Un “uroboro” cosmico, un serpente che divora se stesso, per poi rinascere. La comprensione del tempo oscilla tra due concezioni opposte: dalla concezione di un “presente” astratto (il nulla), un passato noto e un futuro incerto, ad un tempo inteso come “presente – istante infinito”. Ma i filosofi lo riconducono sempre ad una dimensione dell’animo umano. Per Dio invece il tempo non esiste, come non esiste l’Iperuranio platonico. Sono solo archetipi spazio-temporali generati dalla nostra mente. Ma l’uomo, che vide ruotare la sfera celeste dalla sua comparsa sulla terra, dovette constatare che la terra stessa ruotava nell’universo assieme agli uomini, agli animali, alle piante e alle cose. Volendo comprendere i segreti di questo moto perpetuo creò artifizi visivi e meccanici che ne mostrassero i segreti. Dai menhir naturali crearono le prime meridiane, con segni incisi e disegni per le ore del giorno e le fasi lunari. Affinando le osservazioni ed estendendole anche alla notte, crearono gli orologi meccanici basati sul movimento e l’energia accumulata da molle, pesi e pendoli che imprimevano, secondo la legge di gravità, un disciplinato ordine al movimento di ruote dentate e lancette che scandivano il tempo dell’uomo e quello di Dio. Misurare il tempo significava sfuggire al caos irrazionale che circondava tutte le cose e rischiava di penetrare anche nella mente umana. La successione ordinata del tempo attraverso secoli, anni, mesi, settimane, ore, minuti e secondi (con valori e denominazioni diverse nel tempo) ancora oggi costituisce un teorema irrisolto e ci fa riflettere sul senso delle esistenze.

“ab occasu solis”. L’orologio meccanico all’italiana a VI ore

A partire dal XV secolo era uso comune far iniziare la giornata dal tramonto del sole. L’orologio meccanico all’italiana a VI (sei) ore nasce, infatti, come evoluzione della meridiana. Misurava le ore a partire dal tramonto del sole (in latino ab occasu solis). Gli orologi meccanici a VI ore sono ancora presenti in Basilicata, funzionanti a Cancellara e Melfi (riattivato nel 2016 dopo un lungo periodo di inattività dal terremoto del 1930, non sappiamo se con la macchina originaria) ed Acerenza (non più funzionante, appartenente alla tipologia dei quadranti in pietra, come quello di Melfi). Nasceva dall’esigenza di scandire prevalentemente le ore dedicate al lavoro e alle preghiere recitate a partire dalla mezz’ora dopo il tramonto, quando termina il crepuscolo, fino al tramonto successivo. Il tempo si articolava in sei ore ripetute per quattro volte. Il sistema, già noto nel XIV secolo, rimase in uso in Italia sino all’arrivo di Napoleone, che introdusse le 12 ore alla francese, non senza resistenze, dispute tra studiosi e opposizioni .“L’orologio meccanico alla francese battendo le ore dalla mezzanotte a quella successiva, quando suonava le 17 o le 18 pomeridiane, non poteva dare alcuna indicazione di quanto tempo si aveva di luce prima del tramonto del sole. Per sapere questo, infatti, i lavoratori avrebbero dovuto conoscere almeno ogni settimana più o meno a che ora tramontava il sole!(in proposito leggasi il saggio dell’eminente studioso Nicola Severino, la misteriosa storia degli orologi a sei ore. L’affascinante avventura di un orologio che ha segnato il tempo agli Italiani per due secoli. Prima edizione, Roccasecca, 2011). Le preghiere invece venivano scandite dai rintocchi delle campane dell’orologio a VI ore ed erano accompagnate “ad usum campanae” , ogni sei, dodici e ventiquattro rintocchi della campana delle ore nel quadrante della cosiddetta ora italica. Il viandante durante il suo peregrinare, il mercante con le sue vendite, l’artigiano nella sua bottega, il contadino lontano al lavoro nelle sue terre, quando sentivano l’orologio Italico che batteva sulla campana 18, 19 o 20 rintocchi, oppure il loro equivalente nelle frazioni di due volte 12 ore o in frazioni di 4 colpi ogni sei ore (questi ultimi sono i quadranti a VI ore), potevano subito conoscere quanto tempo mancava al tramonto del Sole, cioè quante ore di luce avevano ancora per svolgere le loro attività lavorative. Una informazione di estrema importanza in una epoca in cui i rapporti sociali e di lavoro erano condizionati dalla presenza della luce solareSentire le campane, anziché leggere l’ora sul quadrante, era una comodità non da poco. E l’ora francese non dava alcuna indicazione sonora da cui si poteva conoscere quante ore mancavano alla fine della giornata. (N. Severino, Op cit).  

Nicola Severino, il maggior esperto di questi orologi in Italia, citando un raro libro di Pietro Romano sugli orologi a sei ore a Roma (1946), definisce anche l’origine della simbologia utilizzata sui quadranti e quelli della lancia indicante le ore, forse dovuta all’architetto Francesco Borromini che l’applicò per la prima volta all’orologio dell’Oratorio S. Filippo Neri a Roma: “si deve evidenziare che l’immagine del giglio è quella che si ritrova costantemente nelle suddivisioni dei quarti nella quasi totalità dei quadranti a sei ore conosciuti. Cioè, l’uso dell’immagine del giglio per indicare i quarti delle ore del quadrante, divenne una consuetudine, una tradizione. Quindi, l’orologio a sei ore dell’Oratorio di S. Filippo Neri, dovrebbe essere il punto di partenza di questa tradizione…egli pensò (ndr Borromini) di utilizzare gli emblemi araldici scelti dal santo fondatore degli Oratoriani, S. Filippo Neri: il cuore, la stella e il giglio. Così nel centro sopra il fulcro della sfera immaginò un cuore ardente, circondato da lingue di fuoco e attraversato nel mezzo da una lancia dorata indicante le ore e terminata con un giglio”.

Un orologio a VI ore doveva esistere alla fine del Seicento a Montepeloso, attuale Irsina. In una stampa acclusa all’opera “Il Regno di Napoli in prospettiva”di G.B. Pacichelli pubblicata (indicato con la lettera B) è indicato l’Orologio, forse inglobato nella torre visibile sulla carta. Al momento non è stato possibile reperire ulteriori informazioni da documenti e fonti di archivio.

Analogamente a Montescaglioso dove dal dettaglio della veduta del 1703 di Pacichelli è visibile la torre-orologio detta di S. Giovanni con bandiera issata sormotata dalla campana con epigrafe e data del 1581. all’epoca l’orologio ivi collocato era probabilmente quello a VI ore.

L’orologio a sei ore di Cancellara

A Cancellara il tempo sembra non voler abbandonare il vecchio orologio del Settecento, uno dei più rari esistenti in Italia, appartenente ad una tipologia speciale a “sei ore”. Sono in tutto un centinaio gli orologi di questo tipo in Italia e, di questi, tre si trovano in Basilicata (oltre a Cancellara, ad Acerenza e Melfi). L’orologio è situato in cima alla torre campanaria addossata alla chiesa di San Rocco (XVI secolo). Si accede al meccanismo da una porticina, salendo in alto lungo una ripida scaletta, all’interno della torre. Il cuore dell’orologio è racchiuso da profili metallici uniti e rivettati a forma di parallelepipedo con piedini metallici alla base. Fu commissionato nel 1772, così come mostra la data incisa, da Teodosio Di Martino ad un orologiaio di Potenza di cui non è noto il nome. Il vecchio meccanismo ancora muove ruote dentate, ingranaggi e fili metallici appartenenti ai vari “treni” (treno del tempo che aziona la lancetta e treno della suoneria) con le varie ruote (partitora) e scappamenti che imprimono l’ordinato movimento ciclico all’unica lancetta che gira 4 volte sul quadrante suddiviso in “quarti” e “mezzi” di ora indicati da cerchi (più grandi quelli delle mezze ore) con i numeri da 1 a 6, non indicati con numerazione romana (il quadrante potrebbe non essere quello originario che era invece con numeri romani da I a VI). Ad ore e quarti prestabiliti, muoveva martelletti a molla per il rintocco delle due campane datate 1771, sorrette da archi sovrapposti con una struttura a vela.  Le campane oggi sono inspiegabilmente mute, ma potrebbero ancora far sentire il loro rintocco. Scandivano, fino a qualche decennio fa, l’ora “canonica” o “ora romana”, ovvero il tempo da dedicare alle preghiere: dalle preghiere dei vespri, recitate al tramonto alle lodi mattutine, con quelle delle prima, terza, sesta e nona ora. A Cancellara – secondo testimonianze locali – i rintocchi più acuti della campana piccola dei quarti d’ora (4 rintocchi per un totale di 96 in un giorno), precedevano i rintocchi della campana delle ore (bisognerebbe studiare il meccanismo per confermare tale ipotesi). Suoni che accompagnavano la comunità durante le preghiere, all’interno delle case, nella piazza e durante il lavoro, di giorno e anche di notte. Era la forma più antica di comunicazione non verbale, mossa dalla forza di gravità ma soprattutto da tutta la comunità di Cancellara, che sembra ancora oggi voler sfidare l’elettronica dei semiconduttori con l’utilizzo di pesi e contrappesi che ancora trasmettono il movimento alle ruote dentate dell’orologio, disciplinate dal pendolo a molla che ne scandisce i tempi. E’ però una persona, un custode del tempo, in gergo era chiamato mastro dell’orologio o temperatore, che fa risalire i contrappesi in cima alla torre e carica la molla del pendolo, animando il cuore meccanico dell’orologio. Da fonti orali locali apprendo che il primo fu Mastro Sisto Tamburrino nel 1790 che, per 10 ducati all’anno, se ne occupava, seguito da generazioni di mastri dell’orologio, spesso animati da vera missione comunitaria. Ultimo temperatore di Cancellara è stato Rocco Saracino che, per oltre cinquant’anni, si è preso cura dell’orologio, alternando il suo lavoro di ciabattino e di barbiere a quello di custode del meccanismo, “aggiustando” il ritardo o il ritardo dell’ora. Percorrendo il cammino delle cinte fortificate lucane, da Pietragalla a Vaglio, dal miglio 96 circa dell’ex Strada Regia di Basilicata (dal 1928 denominata Via Appia) verso Serra San Bernardo, oggi disseminata di torri eoliche che ne sfregiano il paesaggio, cuore della Lucania antica e della civiltà dei pastori-guerrieri, si arriva a Cancellara. L’antico “cancello” longobardo, come rievoca il nome, con il suo castello, fu baluardo nelle guerre tra bizantini e longobardi tra le valli del Basento e del Bradano con il gastaldato longobardo di Acerenza. Potenti ordini religiosi furono attivi fino alla rivoluzione di Francia approdata nel Regno di Napoli alla fine del XVIII secolo, alimentata da sete di libertà e fame di giustizia. Ma finì per travolgere gli ordini religiosi e i feudatari locali, promettendo libertà ed eguaglianza per il popolo, ma finendo per mantenere nel tempo gli stessi dominanti e dominati. A parlarmene è Luigi Melarancio, amico e storico, autore di testi che descrivono fatti e avvenimenti civili e religiosi della regione, in visita a parenti della propria consorte a Cancellara. Lo incontro proprio sotto la torre campanaria, in circostanze che, ormai, sono abituato a definire non casuali. Parlo con Melarancio dopo che un anziano mi aveva riferito con mia delusione che l’orologio è ormai fermo. Dopo aver salutato l’amico Melarancio, il mio sguardo ritorna all’orologio. Con mia meraviglia la lancetta si è mossa, raggiungendo il quarto successivo dell’ora seconda che tradotto dall’ora canonica significa che dalle dodici del mattino segna le tredici e un quarto. Una bella sorpresa: un nuovo ma sconosciuto “mastro dell’orologio” ha ereditato il l’anima del tempo a Cancellara.

L’orologio della Torre Longobarda a VI ore di Acerenza

Acerenza, situata nella Valle del Bradano, per la sua posizione strategica lungo le più importanti vie di comunicazione del passato (Tratturo dei Greci, Via Appia e Via Herculea), fu colonia romana di Lucio Cornelio Silla, nonché dominio bizantino nel VI secolo d.C. e poi longobardo con sede di castaldato dal 605 d.C., divenendo importante sede vescovile durante il periodo Normanno. Nel 1593 il re di Spagna e di Napoli, per i prestiti ricevuti dal banchiere genovese Cosimo Pinelli, lussuoso personaggio amante d’arte e delle scienze, gli conferì il titolo di duca di Acerenza. Il 23 maggio 1642 il marchese Pinelli donò parte del castello di Acerenza alla locale diocesi per erigere il Seminario. La restante parte del castello continuò ad essere abitata dai discendenti dei Pinelli. Ne 1861 il castello era ancora riconoscibile nelle sue strutture più significative, per essere quasi completamente inglobato successivamente nelle strutture abitative e in parte distrutto. Attualmente del castello resta la torre detta dell’Orologio (tutelata come bene di Interesse culturale ai sensi dell’art.10 comma 1 e comma 3 lettera a del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 . D.D.R. 06/07/2011) mentre le strutture originarie del maniero sono state ampliate e modificate con i locali dell’ex castello occupano attualmente l’Arcivescovado, il Museo dell’arte sacra e altre abitazioni private (in relazione Soprintendenza, a cura dell’arch Michele Spaziante). La torre longobarda con l’antico orologio a VI ore potrebbe avere una storia in comune con l’analogo orologio della Chiesa S.Filippo Neri di Napoli, con il quale – è stato ipotizzato – ha una notevole similitudine. Secondo ipotesi dello studioso locale Angelo Schiavone (Cfr in N.Severino, Op cit) fu la famiglia Pignatelli che assieme ai Pinelli, proprietari del Castello di Acerenza, a poter aver commissionato l’orologio, in considerazione che la splendida dimora in Napoli, nota come Villa Pignatelli di Monteleone, venne completata da Fabrizio Pignatelli (1718-1763) e dall’architetto Ferdinando Fuga, lo stesso architetto che rifece la facciata della Chiesa San Filippo Neri a Napoli, le cui fotografie del quadrante mostrano una significativa similitudine. La duchessa di Acerenza, donna Anna Francesca Pinelli aveva sposato D. Antonio Pignatelli, le cui nozze furono celebrate il 26 maggio 1721 a Napoli. Videro la partecipazione di noti personaggi dell’arte e della cultura dell’epoca, quali Giambattista Vico (filosofo, storico e giurista), Pietro Metastasio (poeta, librettista e drammaturgo), Alessandro Scarlatti (compositore di musica barocca e fondatore della grande Scuola musicale napoletana (Cfr M. Di Pietro, Le nozze della Duchessa di Acerenza Anna Francesca Pinelli, Centro Studi Storici Prignano, in Sursum Corda, rivista on line).E’ però difficile risalire alle maestranze che realizzarono l’orologio e la sua messa in opera, ma indizi potrebbero derivare dall’esame della macchina dell’orologio, che sarebbe ancora presente ad Acerenza, di cui sono state scattate alcune foto dagli autori citati, ipotizzandone un suo restauro e ripristino, così come è avvenuto a Melfi, pur se in modo parziale, oppure da documenti di archivio. Scomparsa è la vela e l’arco che sorreggeva la campana dei rintocchi dell’orologio, di cui sono ancora visibili le basi dell’arco e della vela. In particolare il meccanismo potrebbe riportare la data di costruzione e il nome del costruttore, ricomponendo i frammenti di storia e restituendo alla collettività il bene nell’originario stato di funzionamento.

I due orologi a VI ore di Melfi e i terremoti nell’area del Vulture – Irpinia

All’orologio della torre pentagonale del Castello di Melfi, denominata “torre dell’orologio” dal XVIII secolo (nel 1602, epoca di un suo probabile rifacimento, era denominata dai Doria “torre del baluardo”, avente con base pentagonale), di cui si dirà più avanti, bisogna aggiungere l’orologio del Vescovado a VI ore (così come mostrano le rare immagini riprodotte al lato). Quest’ultimo, venne abbattuto dopo il terremoto dell’Irpinia e del Vulture del 23 luglio 1930. L’orologio è visibile in una vecchia foto scattata all’indomani del sisma dell’Irpinia e del Vulture, di magnitudo 6,7 (X grado della Scala Mercalli) con epicentro in Irpinia, tra Lacedonia e Bisaccia e che provocò 1.404 vittime (furono evitate vittime maggiori, solo perché gran parte della popolazione agricola era fuori in campagna per la trebbiatura) con danni rilavanti al patrimonio edilizio e quello storico. La foto mostra le tende dei terremotati posizionate proprio sotto l’orologio che sormontava in origine il portone d’ingresso del Vescovado, che segnava l’ora sesta, ovvero le ore 12 di notte, testimoniando così l’ora in cui avvenne la scossa sismica (le 12,08, per la precisione – fonte: INVG). La foto mostra anche le evidenti lesioni sul muro laterale dell’edificio che ospitava il meccanismo dell’orologio, che era sormontato da tre archetti che sorreggevano le campane dell’orologio, con al centro la banderuola segnavento. Lo stesso orologio a sei cifre è visibile in una seconda cartolina con l’unica lancetta visibile (sempre presso chi scrive). L’orologio dell’Episcopio venne, probabilmente, commissionato dal Vescovo di Melfi, Mons. Pasquale Teodoro Basta, che nel 1756 concluse i lavori di costruzione dell’edificio dell’Episcopio iniziati dai suoi predecessori. Una testimonianza storica di questo orologio viene riportata in occasione nel terremoto del 14 Agosto 1851 che colpi sempre la regione del Vulture e Melfi. Chi riporta la testimonianza specifica volutamente l’ora già ampiamente utilizzata scandita su 24 ore: “…Il dì 15 agosto (ndr 1851) sacro alla beata Vergine Assunta in Cielo, era destinato a celebrare con pompa la festa della protettrice di questa città sotto l’invocazione della Madonna di Nazaret. Eravi accorsa molta gente dai paesi limitrofi, ed una banda musicale appositamente invitata trovavasi in Melfi. Era il giorno 14 di questo mese; l’orologio dell’episcopio segnava le ore 19 ed un quarto italiane quando improvvisamente la terra tremò ed in un attimo tutti gli edifici, case, casupole rovinarono, sotto le macerie ed i frantumi seppellendo al di là di settecento individui fra uomini, donne, ragazzi”. (in G. Araneo, Notizie storiche della città di Melfi nell’antico Reame di Napoli. Firenze 1866). Scampato alla distruzione del terremoto del 1851, l’orologio venne abbattuto dopo il terremoto del 1930.

Sempre legato agli stessi terremoti è l’orologio della Torre del Baluardo o “Torre dell’orologio”, che era presente probabilmente già a fine Seicento. Infatti, notizie storiche risalenti al 1674, riportano la presenza a Melfi  il “Maestro dell’Orologio” retribuito dal Principe di Melfi con 8 ducati l’anno, lasciando intendere che si occupasse della “temporizzazione” dell’orologio già presente sulla torre (cfr  P.B. Ardoini, Descrizione dello Stato di Melfi – 1674. Casa Editrice Tre Taverne, Arti Grafiche Finiguerra, Lavello, 1980).   Più certa, invece, la documentazione relativa allo stesso orologio tra il 1851 e 1853, che subì danni assieme al castello e numerosi edifici in Melfi. Dall’archivio Doria – Pamphilj di Roma, in una nota in calce alla lettera dell’amministratore generale della proprietà Doria di Melfi datata 14 agosto 1851, vengono descritti i danni del terremoto nella regione del Vulture. (cfr Archivio Doria – Pamphilj – Catalogo dei Forti Terremoti in Italia e nell’Area del Mediterraneo). Dallo stesso archivio, in una corrispondenza datata 25 Gennaio 1853, l’ingegnere Virginio Marangio indirizzava una lettera al Principe Andrea V Doria Phamhilj – Landi (1813 – 1876), contenente una perizia dettagliata sui danni provocati dal terremoto al castello di Melfi e le azioni da realizzare per mettere in sicurezza e ricostruire le parti danneggiate o distrutte dal terremoto, mentre in una lettera datata 7 Giugno 1853 da parte dell’amministratore all’incaricato del Principe Doria, vengono impartiti ordini di ripristino per i beni dei Doria nei comuni di Lacedonia, Rocchetta, Candela e Melfi dove, oltre agli ordini per il capomastro per la ricostruzione presso il castello “…per corrispondere al desiderio esternato dal signor Sottointendente per la ripristinazione dell’orologio vi ho commesso la perizia della macchina da restaurarsi. Vi aggiungerete l’altra per l’andito onde far la mostra, collocar la macchina ed impiantare la campana e mi rimetterete il tutto in Napoli per provocare la padronale disposizione”. Dall’ordine si deducono i danni provocati dal terremoto anche all’orologio, visibili anche dalle immagini dell’epoca in cartoline presso chi scrive, ed in particolare l’immagine che mostra la tendopoli all’ingresso del castello, con la parte superiore dell’orologio che sorreggeva la campana crollata (in una seconda cartolina di epoca precedente, è ancora visibile la struttura che reggeva la campana), ma con l’orologio forse ancora funzionante, nonostante i danni (segnava infatti, a differenza dell’orologio del Vescovado, un ora diversa da quella della scossa ferma all’ora VI). Sicuramente marcare e comunicare il tempo al popolo attraverso l’orologio non rappresentava solo un servizio di pubblica utilità, ma rappresentava – così come scrive J. Le Goff – uno strumento per ribadire un potere, allorquando “… al tempo del mercante è occasione di guadagno…si contrappone il tempo della Chiesa che appartiene solo a Dio e non può essere oggetto di lucro” (J. Le Goff. Tempo della chiesa e tempo del mercante. Saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo. Einaudi editore, Torino, 1986). In realtà, questo concetto ha subito, a partire dal Medioevo, innumerevoli modifiche dettate dall’epoca storica e dagli equilibri tra poteri, soprattutto in sede locale. E’ emblematica la foto (presso chi scrive) dell’immagine della processione del Corpus Domini a Melfi agli inizi del ‘900 che ritrae la processione dei fedeli e del clero, sotto le mura del castello (visibile anche la Torre dell’Orologio), per poi proseguire il percorso lungo le vie cittadine, quasi a rimarcare un reciproco riconoscimento di condivisione del tempo e dello spazio (o anche di una netta divisione, secondo i punti di vista) tra il potere del feudatario e quello della Chiesa. Per Le Goff, infatti, “proprio questa separazione permette al mercante di pregare Dio per i successi degli affari”.
Il “progetto estimativo dei lavori a farsi nel castello di Melfi di proprietà di Sua Eccellenza il signor principe Doria-Pamphilj ” venne redatto dal capomastro Antonio Pilato di Lagopesole il 23 luglio 1853. In esso si legge: ”la fabbrica di due pilastri che devono cominciare dal sottoposto della covertura e terminare al piano della covertura che devono servire per base alli due pilastri che devono elevarsi per sostegno della campana dell’orologio lunga palmi 4, alta palmi 5, grossa palmi 4. Sono palmi 80 pari a canne unite 1,1/4 a ducati 4,50 la canna. Importa ducati 5,62,6; la fabbrica di mattoni per la costruzione di due pilastri ed archi che ogni pilastro di palmi 3,1/2 lungo ed alto palmi 18 e grosso palmi 3,1/2. Archi di palmi di corda palmi 4,1/2, sesto palmi 2,1/4. Cima palmi 2. Sono palmi 478 pari a canne 3,94/128 a ducati 7,50 la canna compreso l’andito. Importa ducati 28,12,6; la fabbrica della quinta che forma triangolo lunga palmi 11,1/2, alta palmi 1 ragguagliato e grossa palmi 3,1/2, sono palmi 77; la fabbrica di due cosi detti vottanti laterali ai pilastri, lunga palmi 4, alta ragguagliata palmi 7, grossa palmi 3,1/2, sono palmi 196/273, pari a canne due e 16/128 a ducati [come sopra] 15,93,2; per formare il quadrante ossia il cerchio per mano d’opera del muratore, compreso l’andito. [ducati] 4,50; per fare l’indice, ossia la fascia dei numeri del detto quadrante. [ducati] 5; per pesa di falegname, tavole per fare la cassa palmi 14 a ducati 1,20 la canna. [ducati] 2,10; travi di palmi 20 numero 1. [ducati] 2; idem di palmi 12 numero 2 per formare due cascie sottoposte alla prima trave. [ducati] 1,92; idem di palmi 6 numero 8 per fare il piano ove deve poggiare la detta cassa. [ducati] 3,20; Idem di palmi 18 numero 1 per fare lo scalantrone, [ducati] 1,80; tavole palmi 5 per fare i gradini al detto scalantrone. [ducati] 0,75; asconi canne 2,1/2 per fare il piano dell’abballatoio. [ducati] 1,75; altri travetti di palmi 5 numero 4 per siturare la macchina dell’orologio. [ducati] 0,80; chiodi di Siena numero 150 e chiodi barcaiuoli numero 200 [ducati] 0,76,6; una mascatura per la porta della cassa. [ducati] 0,40; per mano d’opera del falegname. [ducati] 6; in uno sono ducati ottanta, grana 67 e carlini 3. [Totale] ducati 80,67,3”.

Cattedrale e Vescovado di Melfi. Visibile l’orologio a VI ore.