Il Concio della liquirizia a Policoro (XVIII sec.). Archeologia industriale lungo il Tratturo del Re
di Pandosia (testi A.Bavusi – Agosto 2023) – Creative Commons Attribuzione – Non commerciale citando la fonte
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“Povera vita mia, chi campi a fare mo
chi s’chiusa dintra quattro mura?
De mani e piedi mi feci ligari a na nivura fossa funna scura
Sula a speranza nun mi fa schiattari.
E tu, rilogiu,chi mi cunta l’ura, tannu mi crijiu de mi liberari.
Quannu mi dici, su vintiquatttrr’uri”.

“Povera vita mia che vivi a fare,
adesso che sto chiusa dentro a quattro mura?
Mi feci legare dalle mani ai piedi ad una nera fossa profonda e scura.
Solo la speranza non mi fa crepare.
E tu, orologio, che mi conti le ore, allora, veramente mi sento libera
quando segni le ventriquattresima ora”.

(canto delle concatrici e impastatrici della liquirizia calabresi. Vincenzo Padula, concatrici e impastatrici di liquirizia. Sul periodico Bruzio, rubrica “stato delle persone in Calabria”, 1865)

Lo sfruttamento della natura e quello sull’uomo
rappresentano le due facce impresse sulla stessa moneta del profitto

Si deve probabilmente ai Greci l’introduzione della coltivazione della pianta
in Magna Grecia e in Occidente. Dioscoride di Anazarbo e Plinio ci tramandano alcune preparazioni
medicamentose a base di liquirizia
utili per combattere mal di fegato, gastriti, coliche e tossi convulse.Una pomata, veniva applicata sulle ferite e sugli eczemi.

Interno del concio della liquirizia. Tratto da “Voyage Pittoresque de Naples et de Sicile”, pubblicato nel 1783, dall’abbate Jean Claude Richard de Saint Non

Pianta di liquirizia. Si utilizzano le radici prelevate scavando nel terreno a termine del ciclo vegetativo (caduta delle foglie)

Luigi Granata ( 1778-1841).Agli inizi del XIX secolo la liquirizia venne rilanciata dalla pubblicità del produttore della “pasticca del re sole”, Arturo Gazzoni, come rimedio contro la tosse

Ubicazione del Concio lungo il Tratturo del re. In basso strutture in pietra del pyrgos-granaio greco e siroi (nell’area del concio, G.Zuchtriegel, Op.cit)

Concio della Liquirizia di Policoro, sulla strada del Concio, derivazione dal Tratturo del Re. Visibili l’Acquaro del Concio e il vecchio cimitero (elaborazioni Pandosia su Quadro di Unione Catastale – Policoro)

Il “Portellone” indicato sulla mappa IGM, antica chiusa dell’Acquaro del Concio indicato nella tavola catastale

Concio della Liquirizia di Policoro, visto dalla sottostante “Strada del Concio”

A sinistra particolare pianta del Concio della Liquirizia. A destra il “pyrgos-granaio” costruito in blocchi di pietra  del IV-inizi del III secolo a.C., situato nella stessa zona (G.Zuchtriegel, Op.cit)

I tre tipi di torchi: in alto a sinistra, torchio ad acqua; torchio alla genovese e in basso il torchio idraulico

A destra, controversia sui diritti feudali del feudo di Anglona. Vincenzo Padula (Acri,1819 – 1893). Condusse inchieste sulle condizioni delle classi povere e sullo sfruttamento del lavoro, tra i quali presso il concio della liquirizia

Il barone Giuseppe Compagna gestore del Concio di Bernalda e il Concio di Corigliano di sua proprietà, situato lungo l’ex strada nazionale Jonica sul Torrente Coglianito

Barone Gennaro Ferrara che aprì un concio a Scanzano. A destra lettera di un contratto per la fornitura della radice di liquirizia della famiglia Battifarano di Nova Siri

In alto a sinistra, base in pietra per pressa di torchio (area ex castello del barone Berlingieri). A destra lapide dedicata dai principi Serra Gerace all’amministratore Vincenzo Bajona (all’interno della chiesa Madonna del Ponte). Marchio costruttore recipiente in rame del concio, Raffaele Von Arx – Napoli

Palazzo Bajona a Montalbano Jonico

Ruderi Magazzini Federici

Magazzini di Rocca Imperiale

Sede della società americana MacAndrews e Forbes a Smirne (Turchia). In basso accrescimento della radice di liquirizia a 14 mesi in un raro disegno della compagnia (1904)

Carta del 1862 indicante la “fabrica della liquirizia” di Policoro

Il “Concio della Liquirizia” a Policoro (XVIII secolo)

Faceva parte dell’industria di trasformazione della radice della pianta che cresce spontanea nell’alto Jonio indicata in una carta geografica del 1862 come “fabrica della Liquirizia”. A partire dai primi anni del Novecento si affermò l’attività di produzione della pasta da Taranto e presso i centri di Policoro, Bernalda e Scanzano in Basilicata, Cassano, Crotone, Corigliano, Strongoli, Cerchiara, Rossano in Calabria. La produzione della liquirizia prese piede in concomitanza con i consumi cosiddetti “edonistici” con la produzione che veniva effettuata da nobili, borghesi imprenditori e persino ordini religiosi, come i Gesuiti a Policoro. Nel tempo presso i “conci” verranno adottate innovazioni tecnologiche per la produzione della “regolizia” che conquisterà i mercati europei e d’oltre oceano. Le famiglie Saluzzo, Compagna, Gaetani d’Alife a Corigliano, gli Abenante, i Martucci e Amarelli a Rossano, i Serra a Cassano, i Longo a San Lorenzo del Vallo, i Zagarese a Rende, i Gesuiti, i Serra principi di Gerace e i Berlingieri a Policoro, i Solazzi a Taranto intrapresero l’attività che coinvolse migliaia di operai sviluppando una rete commerciale che raggiungerà i mercati mondiali, con quantitativi di pasta e derivati della radice di liquirizia pari a centinaia di migliaia di tonnellate agli inizi del Novecento.

Il cuore della produzione

« Licorice » è il nome dato da sua maestà, la regina d’Inghilterra, al «succus liquoritiae» o “regolizia” che nel Settecento conquistò i palati dei nobili di mezza Europa, come bene d’importazione. Utilizzata anche come medicinale, nei condimenti e come colorante, fu il potere dolcificante determinato dalla glicirrizina (dal greco “glucos” e radice “riza”) a decretarne il successo. Le sostanze che si concentrano nella radice della pianta classificate come droga, “drug”, hanno proprietà antiulcerogeniche, espettoranti, antinfiammatorie. E’ un potente stimolante e curativo del sistema digestivo. Si racconta che la magica “pasticca del Re Sole” (così venne denominata la confezione commercializzata in Italia agli inizi del secolo scorso dalla ditta bolognese Gazzoni) davvero costituisse la ”caramella” preferita anche dal re di Francia. La pasta, ottenuta dopo un elaborato procedimento presso il “concio”, era venduta all’ingrosso in forma di “boglie” o “biglie”, lunghe tavolette lucide di colore marrone scuro-nero. Le “fabbriche della liquirizia”, presenti inizialmente nel XVII secolo solo in Spagna, si diffusero sul finire del XVIII secolo nelle aree costiere calabro-lucane dello Jonio e in Basilicata a Policoro, Scanzano e Bernalda, dove la liquirizia cresceva spontanea e successivamente veniva anche coltivata.

Le fasi di lavorazione della radice di liquirizia

La radice di liquirizia veniva scavata al termine del ciclo vitale della pianta che cresceva spontanea lungo la fascia pianeggiate-collinare del Golfo di Taranto. Da ottobre a novembre, seguendo una complessa procedura di trasformazione, la radice veniva trasformata in pasta chiamata “regolizia” (termine popolare per indicare la liquirizia, cos’ chiamata nel libro “Cuore” di Edmondo De Amicis). Per giungere al prodotto finito era necessario rivolgersi a cavatori, acquirenti, addetti alla bilancia, trasportatori, mediatori commerciali locali e internazionali, concari, impastatori, trinciatori, che spesso speculavano sul prezzo. La “regolizia”  veniva “marchiata” con l’emblema del nobile signore possessore del Concio, che in tal modo certificava la provenienza e la produzione fatta “a regola d’arte” (agli inizi del Novecento cominciarono anche a registrarsi i marchi). Il pagamento della liquirizia veniva effettuato ai grossisti attraverso le fedi, solo dopo la consegna, che avveniva tramite contratti stipulati tra venditore e compratore. Per far fronte alla domanda crescente presso i conci, dal 1792 la liquirizia venne coltivata a Policoro preferibilmente in luoghi in precedenza occupati dal pascolo, dopo il riposo dei terreni (Cfr G.Morese. La proprietà dei Principi Serra di Gerace al Policoro, 1792-1893. In Rassegna Storica Lucana, Bollettino del Centro Studi per la Storia del Mezzogiorno, 2009). Gli stoloni gemmati della pianta venivano raccolti dopo la fase vegetativa per essere ripiantati in luoghi fertilizzati dagli animali al pascolo. Il Principe Serra aveva “piacere nell’apprendere che si stia piantando la radice nel vaccariccio” luogo già idoneo perché naturalmente fertilizzato dalla presenza di animali dove vegetavano rigogliose le piante di liquirizia.

La  Liquirizia nell’Alto Jonio

Sull’antica arte del concio e la produzione e diffusione della “regolizia” nella regione dello Jonio è dedicato un intero capitolo dall’economista, rivoluzionario illuminista e docente di “applicazioni”, agronomia e scienza silvana presso la Reale Scuola di Ponti e Strade in Napoli nativo di Rionero in Vulture, Luigi Granata (1776-1841) che nel suo “Catechismo Agrario ad uso delle scuole elementari stabilite nelle comuni del Regno di Napoli” scriveva: “…La regolizia nasce spontanea nella Basilicata verso il mare Ionio, cioè ne feudi di Policoro, di S. Basilio, ec. come pure nella Calabria citra, e spezialmente in Cassano in Corigliano, in Rossano e in Altomonte, quei popoli formano scope de’ fusti che s’innalzano come la canape; e tali scope sono contrarie a’pulci. Ma la virtù stà nelle radici. Circa al declinare del mese di novembre si scavano le radici, che tagliate in più pezzi con mannaia, si mettono ne grossi tini di acqua, indi si stritolano sotto alle macine verticali, non dissimili da quelle de’ trappeti: appresso si bollono entro a’ calderoni chiusi nelle fornaci: dopo si mettono nelle gabbie di giunchi, simili a quelle per le olive, e sotto al torchio si spremono, mettendo il succo nelle conche di rame, che sono grandi e larghe, con farlo bollire sino al condensamento. Dopo che il succo è ristretto, sopra tavole consperse di cenere, s’impasta con le mani unte di olio, perchè la pasta non si attacchi alle dita, e a mano a mano si formano delle puglie, come si pratica col cioccolatto: quando le puglie si son ben ristrette, si ripongono nelle casse di legno, alternando i filari con le foglie di alloro. Infine, si vendono in Taranto, e ni quelle vicinanze agl’ Inglesi, ed a’ Francesi fino a ducati 23, ed ancor più il cantaio: i quali popoli si servono della regolizia non solo per uso di medicina, como presso di noi, ma altresì per dare il lastro a panni, e per mangiarne anche porzione, che in Londra specialmente si suole unire al zucchero, formando de pastelli, che messi in bocca, fanno sputacchiare, purgando la voce. In oltre si fa uso della regolizia nella tosse, nella fiocaggine (ndr afonia), nella ritardata espettorazione, nella nefritide (ndr infiammazione renale), nela stranguria (ndr emissione dolorosa di urina), e nella escoriazione delle fauci. Gli scavatori hanno grana 15 a cantaio di radici; ed agli altri lavoranti, che sono tutti calabresi, si danno carlini 2 al giorno, uno stoppello di legumi, ed un rotolo di sale al mese, con altrettanto di olio. Dopo S. Antonio di Padova, o sia dopo i 13 di giugno, finisce l’opera della regolizia. Non prima di anni due si torna a scavare le radici nel fondo medesimo, ed intanto ogni anno si scassa nuovo terreno. Il padrone poi che impiega il suo denaro per simile fattura, guadagna il 100 per 100, ed ancor più, secondo le richieste della regolizia”.

Il Concio di Policoro

Il Concio di Policoro era situato lungo il Tratturo del Re, antichissima via commerciale terrestre che da Taranto, attraverso i centri abitati della costa Jonica lucana, proseguiva fino a Reggio Calabria (vedi articolo su Pandosia “Il Tratturo del Re). La “fabrica della liquirizia” era situata sul “… primo rialzo della collina sulla foce Sinni, a 15 metri sulla valle fluviale” (Cfr L.Quilici, Siris Heraclea. Ed De Luca, Roma 1967). La struttura, di forma rettangolare forse realizzata nella seconda metà del XVIII secolo, è affiancata da un piccolo edificio. Entrambe le strutture sono indicate nel catasto terreni del Comune di Policoro come “Masseria del Concio”.
L’edificio del concio è ancora esistente ed è adibito a deposito edile e idraulico, attualmente non in uso. Nello stesso sito, durante il periodo magno-greco, erano stati realizzati un silos scavato nel terreno (fossa granaria, in greco siroi) utilizzato per la conservazione dei cereali, ancora visibili. Secondo l’archeologo Lorenzo Quilici i siroi variavano di dimensione, da 43,3 e 44,4 metri cubi nell’area della Trisaia, mentre Il silos sotterraneo presso Masseria del Concio è di dimensioni più piccole ed è associato ad “pyrgos-granaio” costruito in blocchi di pietra del IV-inizi del III secolo a.C., situato nella stessa zona, con un diametro interno di 7,6 m (vedi figura), simile alle strutture presenti nella regione dell’Attica. L’archeologo Gabriel Zuchtriegel indica come l’area limitrofa al Concio della Liquirizia“…rappresenterebbe un impianto per la macinazione del grano (myle), con ambedue le strutture databili al IV-III sec. a.C…. Tutto ciò, insieme alla posizione sul ciglio di un pendio, potrebbe far pensare a una costruzione per un’aia, uno spazio dedicato alla trebbiatura, come sono note per esempio nell’Attica d’età classica. Anche lì le aie sono spesso localizzate presso un pendio, cosicché erano esposte al vento, che serviva per ventilare il grano” (Gabriel Zuchtriegel. Potenzialità e sfruttamento agrario della chora di Eraclea. Nuove ricerche su Eraclea e la Siritide, a cura di M. Osanna, G. Zuchtriegel, Venosa 2012). In continuità con la vocazione agricola e di trasformazione dei prodotti della terra, nella seconda metà del XVIII secolo venne realizzato un mulino dotato di una struttura per la trasformazione e conservazione dei cereali e della farina, collegandolo ad un lungo canale per la derivazione delle acque del Sinni in località Acinapura (vedi sviluppo su piante catastali). Il canale ancora segnato sulle carte catastali come “Acquaro del Concio” derivavano le acque del Sinni che, giunte in località Masseria del Concio, muovevano le pale di un mulino i cui meccanismi successivamente vennero convertiti in “mannaia” per il taglio automatico della radice di liquirizia grazie all’ausilio di un meccanismo ideato dal principe Gaetano Serra.  Dopo l’amministrazione dei Gesuiti, il concio fu posseduto da Pasquale, Giambattista e Gaetano Serra principi di Gerace e, successivamente, da Pietro e Giulio Berlingieri che acquistarono la tenuta di Policoro.  Il Concio di Policoro “… risulta risistemato e riportato in attività dal 1785 da parte di un certo Lottinetti che si riforniva di liquirizia da Domenico Federici, conduttore a quella data del feudo di Policoro. Il Lottinetti aveva preso in conduzione direttamente dal governo il concio di Policoro”(Cfr G.Morese. Una struttura produttiva in trasformazione: il concio della liquirizia lungo la fascia jonica (XVIII-XIX secolo). Il caso Policoro. In Bollettino Storico della Basilicata. Ed Osanna, Venosa, anno 2010). Giuseppe Domenico Federici è citato assieme a Pasquale La Greca in una causa intrapresa nel 1790 dalla Regia Curia Vescovile di Anglona e Tursi riguardante l’estrazione della liquirizia “…in ragione del presunto affitto fatto dal Popolo del Comune di Tursi sotto il presunto nome della detta Regia Curia a beneficio di D. Josephus Dominicus Federici e D. Pasquale la Greca, il diritto di estrarre glycyrrhizum, comunemente liquirizia al servizio del Feudo di Anglona per mezzo della detta Regia Curia è il possesso, e lo stesso presunto conduttori non osano, né da sé, né per mezzo di altri estrarre la detta glicirriza, né fare un estratto nel territorio assegnato, incorrendo per l’atto stesso nella pena di mille ducati, con un accantonamento sicuro da effettuare rispetto alle assegnazioni fatte da una parte all’altra” (Cfr Ragionamento IV intorno al pieno dominio della real mensa vescovile di Anglona e Tursi sul feudo di Anglona col codice diplomatico di quella chiesa contra l’università, e alcuni particolari cittadini di Tursi nella curia del cappellano maggiore, In Napoli [s.n.] anno 1793). Nella stessa causa è specificato come “…uno di esso arrogandosi quell’autorità che non aveva, come se fosse stato il diretto Padrone del Feudo, giunse a permettere in un suo terreno di Anglona il concio della stessa liquirizia, che non potè al certo andare esente anche dallo scavamento…” nonostante che a quella data Giuseppe Domenico Federici non fosse più amministratore del feudo di Policoro, condotto fino al 1786 (Cfr. G.Morese.Op.cit).

La lavorazione della radice di liquirizia presso il Concio di Policoro

 Nel Voyage Pittoresque de Naples et de Sicile, pubblicato nel 1783, L’abbate Jean Claude Richard de Saint Non descriveva sommariamente il procedimento per fabbricare la pasta di liquirizia a Corigliano raffigurato anche in un disegno a corredo del testo. Un procedimento simile a quello che si eseguiva presso il concio di Policoro che desta la curiosità del viaggiatore: “…eravamo curiosi di vedere uno dei Laboratori dove si produce la liquirizia, così come la manna, che è una produzione appartenente a questa Provincia. Scavata la radice di questa pianta in autunno, la si mette sotto pressa dopo averla fatta ammollare un po’ di tempo in acqua per ripristinare la fibra; è posta in un trogolo rotondo, e poi in una macina pesante e seghettata che la schiaccia finché non diventa come stoppa; poi viene gettata in una caldaia di acqua bollente, da cui esce spremuto il succo come l’olio, che viene poi pressato sotto un torchio. Immesso il liquore in una caldaia, è poi fatto bollire fino a far acquisire una consistenza tale da poter essere ridotta in compresse o bastoncini così come lo conosciamo in Francia”. La radice di Glycyrrhiza glabra, più ricercata e adatta per fabbricare la liquirizia della specie “echinata”, veniva scavata ad una profondità di 30-40 centimetri nei messi di ottobre-novembre (comunque alla caduta delle foglie) e fatta essiccare per eliminare i residui di terra (meglio se scavata direttamente in terreni asciutti non intrisi di pioggia). La prima bollitura presso il concio avveniva a marzo. Durava 15 ore ad impasto. Questa prima pasta ottenuta, versata in apposite fascine di giunco, veniva pressata sotto il torchio genovese per estrarne un liquore denso che veniva fatto ribollire in grandi pentole di rame costantemente mescolato fino a raggiungere una densità ottimale. E’ a questo punto che intervenivano le donne adibite a “impastatrici” che, con le mani intrise di olio per non scottarsi, lavoravano l’impasto inizialmente su tavole in legno sostituite in seguito da piastre di marmo, fino a fargli assumere la forma in di pannelli e barrette che, fatte solidificare in un bagno d’acqua fresca corrente, venivano riposte in casse del peso di 1 cantaio ciascuna 89,10 Kg circa). La pasta di liquirizia veniva deposta a strati separati da foglie di alloro, pronte per essere spedite.

L’inferno del concio: lo sfruttamento lavorativo di uomini, donne e bambini

Il prezioso “oro nero” veniva trasportato in casse di legno di imballate via terra e per mare ed acquistato all’ingrosso a poco meno di 10 ducati a cassa. Con un brigantino le casse venivano direttamente portate da Policoro a Napoli. Si ha infatti notizia di un contratto stipulato tra Gaetano Serra e Girolamo Schiavo, proprietario di un brigantino, sottoscritto a Napoli il 15 dicembre 1837 “per caricare in Policoro grani, orzi e pasta di liquirizia” portando a Policoro 12 casse contenenti marmi da utilizzare per la “spianatura de’ panelli invece di usarsi la tavola” (Cfr.  M.Sansone. I Serra a Policoro: storia di un declino?. Arduino Sacco editore, 2007). Il prodotto veniva poi venduto a pezzatura in Italia e nel nord Europa. In un documento di spedizione del XVII secolo del barone Berlingieri, produttore di liquirizia di Crotone, si legge come “la pasta di regulitia in panetti seu a modo di boglie di cecolata nella forma, seu modello in carta che lo stesso acquirente fornirà, dovrà di peso ogni boglia ongie sei in circa (ndr 27 grammi circa), … di buona qualità, ben cotta e non brugiata, di radica lavata, purgata di terra e d’ogni altra lordura”. In una corrispondenza tra l’agente di Napoli e il principe Serra di Policoro, veniva comunicato che l’acquirente aveva pagato 222 ducati per 200 cantara di liquirizia”…credo mi sia riuscito avere questo prezzo avendo il compratore visto uno dè panelli, che mi mandaste pel forese, che nulla lasciavano a decidere sia per la bontà della pasta, che per la bella vista, e per la quale vi raccomando sempre dire agli appaltatori che ci badassero, facendo formare i panelli sempre uguali, non chè la marca farla imprimere nello stesso modo dè panelli rimessimi” (Lettera da Napoli del 6 gennaio 1838 in M.Sansone. Op.cit).  I bambini e i poveri si accontentavano di rosicchiare direttamente la radice secca dalla pianta, chiamata nei vari dialetti locali “mazza dolce”. Essa veniva usata per profumare l’alito, favorire la digestione o per preparare infusi e liquori. La pasta prodotta dai conci calabro-lucani, veniva di gran lunga considerata la migliore al mondo, la «più ricca e dolce di tutte» che cresceva in terreni “ferraci” (produttivi) tra quelle prodotta in altri luoghi (Anatolia, Grecia, Mar Caspio, Cina, etc). Ma alla dolcezza del prodotto e alla ricchezza per il padrone del concio e di quanti controllavano la manodopera necessaria, faceva da contrappunto uno sfruttamento ben descritto agli inizi dell’Ottocento da Vincenzo Padula, intellettuale attuale quanto scomodo ai regimi del suo tempo (Cfr Concatrici e impastatrici di liquirizia. Nel giornale “Bruzio” – rubrica “stato delle persone in Calabria”, 1864-65). Le impastatrici – scriveva Padula – chiamate sull’entrare di marzo a impastare la liquirizia bollette con le mani e a risciacquarla nell’acqua fresca di corrente “non tirano più di 34 centesimi al giorno e non toccano nessuna mancia…” ed aggiungeva “…proseguite pure, miei bei signori calabresi a far così inumano governo della povera gente; e poi gridate che ne avete ben d’onde, che vi siano briganti i quali vi sequestrino”. Presso il concio di Policoro per la fabbricazione della liquirizia funzionante dal 1785, nel 1891 la ditta fratelli Gullo utilizzava “un motore idraulico di 12 cavalli, 4 torchi, 1 frantoio e vi lavoravano per circa sei mesi all’anno 65 operai (25 maschi adulti e 15 fanciulli, 18 femmine adulte e 7 fanciulle…la radice di liquirizia è di produzione locale; il prodotto si smercia principalmente a Napoli e a Reggio Calabria” (Cfr. Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio – Direzione Generale della Statistica. Statistica industriale, notizie sulle condizioni industriali della provincia di Potenza – Basilicata, Tipografia Nazionale di G.Bertero, Roma, 1891).

I profitti del concio di Policoro e i “pilucci” della radice di liquirizia

La radice di liquirizia negli anni 1794-1795 veniva scavata per il concio di Policoro in vari fondi a Policoro, Anglona, Rotondella e nelle contrade Trisaia e Cavone da due squadre, rispettivamente di calabresi e montagnoli. I “pilucci” lucani (così venivano chiamati i cavatori di liquirizia) provenivano da Castelluccio inferiore e Superiore, Lauria, Lagonegro e Latronico e si recavano anche nella piana di Sibari (Cfr. G.Morese, Op.cit.). Interessante è notare il profitto che ne traevano gli amministratori del concio, all’epoca Salvatore Napoli e Nicola Serra, che avevano acquistato 6.140,7 cantari di radici di liquirizia pagandola ai caporali dei pilucci complessivamente 2.584,51 ducati (i pilucci venivano compensati con poche decine di grana al giorno e con modesti quantitativi di grano o farina). Con questa avevano prodotto e venduto 913,39 cantari di pasta di liquirizia presso il concio di Policoro, vendendola a 14,75 ducato al cantaro, con un ricavo complessivo di 13.347,50.3 ducati, al quale sottratte le spese per la gestione del concio e per il costo della radice avevano determinato un utile di oltre seimila ducati.  I cavatori di radici producevano danni ai fondi lasciando profonde buche. Dagli studi effettuati dallo studioso Morese si ha notizia come nel 1842 dovettero essere impiegate 52 giornate di lavoro dagli operai di Lauria appositamente ingaggiati dal principe per “apparare le fosse della radice” in modo da non compromettere la futura raccolta (Cfr. M.Sansone, Op cit.)

Storia di radici, contrasti e veleni

La domanda crescente del mercato della liquirizia spinse i possessori dei conci a rivolgersi anche fuori dal proprio territorio per accaparrarsi la preziosa radice che spesso era oggetto di dispute, speculazioni sul prezzo e anche contrasti tra i diversi soggetti interessati. E’ il caso ad esempio della radice che, prodotta nel territorio di Bernalda, oltre ad essere utilizzata presso un concio locale, veniva venduta anche al Concio di Policoro, oppure come accadde “… nel 1838 quando nell’effettuare lo scavo della radice nella Trisaia di Rotondella, gli scavatori al soldo del principe  avrebbero potuto incontrare l’opposizione dei locali” oppure per reperire la radice oltre i confini del feudo come dopo l’unità d’Italia l’amministratore Tommaso Bruno si era rivolto “…a un certo Lugi Frappi in relazione alla raccolta della radice realizzata da parte della compagnia di Lauria nel 1863 nelle paglie di Ferrandina per un quantitativo di 114,85 cantara, mentre altre 58,55 cantara erano state raccolte nelle paglie della contrada Terrinanera” (G. Morese, Op.cit). Ma non sempre l’assicurazione della fornitura della radice garantiva un guadagno certo per il proprietario del concio, allorquando si verificavano speculazioni sul prezzo, accordi trasversali tra cavatori, tra cavatori e proprietari dei conci e tra cavatori e incettatori spesso in contrasto con i proprietari dei fondi, che talvolta giunsero a minacciare gli stessi con le armi nel caso si fossero opposti allo scavo della radice e non avessero mantenuto fede ai contratti stipulati. Alcune volte, infatti, i proprietari dei fondi allettati dai guadagni si erano messi in proprio aprendo propri conci e creando così problemi per l’approviggionamento della radice presso il Concio di Policoro. E’ il caso dei Federici di Montalbano Jonico, precedenti conduttori del feudo di Policoro, che aprirono un proprio concio a Recoleta realizzando un magazzino nella loro tenuta di Laccata, nel territorio di Rotondella. i signori Filomarino di Bernalda affidarono agli imprenditori della liquirizia Giuseppe Compagna di Longobucco e Giulio Longo di Corigliano, la gestione del locale concio con la radice prelevata dai loro fondi a partire dal 1812 al 1822, esportando il prodotto dei conci calabresi e lucani in tutta Europa. I due imprenditori utilizzavano il magazzino di Torre Mare sullo Jonio ipotizzando di acquistare una nave per il trasporto delle merci a Napoli e Taranto, mentre il barone Gennaro Ferrara a Scanzano apriva un proprio concio per la produzione di liquirizia che s’interruppe a seguito della sua prematura morte per colera. La concorrenza si era fatta spietata al punto che Gaetano Serra dovette introdurre presso il Concio di Policoro miglioramenti tecnologici per ottimizzare i tempi di produzione e risparmiare denaro per la manodopera, velocizzando la produzione per anticipare i concorrenti sulla stipula dei contratti di vendita della preziosa liquirizia (Cfr sul concio di Bernalda e la strategia dei Compagna-Longo leggasi: C.P. Di Martino, L. Piccioni, liquirizie dell’Alto Ionio – la parabola dei Compagna. UNICAL, 2005). Gaetano Serra intervenne direttamente sulla produzione di liquirizia sperimentando la riproduzione con gli stoloni della pianta di liquirizia nei propri terreni, per rendersi indipendente dalle forniture di radice proveniente da altre zone. Egli introdusse nuove macchine tagliatrici presso il mulino ad acqua, sostituito in seguito dalla forza motrice a vapore, con presse idrauliche commissionate alla ditta francese Pierrè Ravanas (1796-1870) a Modugno, un imprenditore, commerciante e agronomo francese che innovò l’olivicoltura e la produzione di olio nella Provincia di Bari, introducendo in Puglia, tecniche di raccolta e lavorazione delle olive e nuovi macchinari che migliorarono notevolmente la quantità e la qualità dell’olio prodotto nella Terra di Bari.  in alternativa a quelle a mano a forza animale, Serra acquistò nuove “concatrici” in rame dalla ditta Raffaele Von Arx di Napoli. I Serra avevano compreso che la sola politica industriale basata sul miglior prezzo di acquisto della radice nel tempo non sarebbe bastata a vincere la concorrenza di quelli definiti “venduti ai traditori calabresi”nonostante la presenza di pochi fedeli “galantuomini” e la buona amministrazione perseguita dall’amministratore Vincenzo Bajona, ricordato dai Serra in una lapide presso la Chiesa di Santa Maria del Ponte a Policoro che reca la data 1838, lo stesso anno in cui il principe Gaetano Serra di Gerace scriveva in una lettera a lui indirizzata “…la giusta condotta che voi tanto bene sapete praticare ben riuscite nell’intento“. Bajona, infatti, riconosceva per il concio di Policoro il giusto prezzo della radice di liquirizia, divenuta oggetto di speculazioni da parte di cavatori e venditori, migliorando così la quantità e la qualità della produzione ed affittando a Rocca Imperiale il magazzino di proprietà della Banca del Tavoliere di Puglia, ma già del barone Crivelli genovese che l’aveva costruito nel 1731, signori di Rocca Imperiale e Bollita (Nova Siri). Il magazzino di Rocca Imperiale era entrato in possesso della Banca del Tavoliere di Puglia con sede a Foggia che l’affittava per lo stoccaggio delle merci. Bajona vi fece stoccare la liquirizia prodotta per l’esportazione, abbondante nell’annata 1838,poco prima di morire. Vincenzo Bajona era figlio di Francesco Paolo, vecchio agente della Casa Gerace, noto a Montalbano per il suo impegno politico a favore dei Borboni (esiste un palazzo a Montalbano della famiglia che proveniva da Napoli vedi foto). A Vincenzo Bajona seguì per il concio di Policoro l’amministrazione di Pietro e Giulio Gullo che operarono per conto della ditta Padula di Moliterno dal 1877 e fino alla vendita del feudo di Policoro ai Baroni Berlingieri. Essi dovettero affrontare la fase più difficile della gestione del Concio di Policoro, acquistando la radice dai proprietari e cavatori di Tursi nel 1842, con l’ostilità per cavare radice dai fondi dei Crivelli a Nova Siri e Rotondella i quali si erano messi in proprio per la commercializzazione e produzione di liquirizia che, secondo Gaetano Serra, non era della stessa qualità di quella di Policoro (Cfr  M.Sansone, Op.cit) essendo i terreni in Nova Siri divenuti in seguito proprietà della famiglia Battifarano che commerciavano la radice direttamente con acquirenti calabresi già a partire dal 1870 e fino agli anni 50 del secolo scorso. Il Concio di Policoro dovette affrontare un lento ma inesorabile declino dovuto alla concorrenza e alla speculazione in ambito locale sul prezzo, la disponibilità e il trasporto della radice di liquirizia. I Gullo dovettero affrontare anche il problema del banditismo e del brigantaggio post-unitario, con le bande di Monaco, presente nei territori dello Jonio calabrese e  quelle di Gaetano Di Pasquale detto Cozzo, che aveva il suo quartier generale nel bosco di Policoro. Filippo Gullo, co-amministratore del Concio negli anni 1864-65, fu  costretto a chiedere maggiore sicurezza per il Concio mediante la costruzione di torrette o con la presenza di un presidio di “… una dozzina di persone armate per la custodia loro e del Concio…”.

La fine del sogno della liquirizia nell’Alto Jonio e a Policoro

Paradossalmente, la fine dell’industria della liquirizia cominciò a manifestarsi nel momento di massima espansione sul mercato mondiale. Dopo il primo conflitto mondiale e la conseguente riduzione delle produzioni in Turchia e in Cina, le società americane della liquirizia guardarono alle produzioni calabresi. Il picco di produzione di liquirizia si registrò a partire dal 1915 con 15mila quintali. Ma l’ingresso in Calabria di agenti inglesi di commercio per conto della società statunitense MacAndrews & Forbes & Co. fondata nel 1850 da Edward MacAndrews e William Forbes (multinazionale tuttora esistente), grande distributore mondiale di estratto di liquirizia e cioccolato operante negli U.S.A., con l’acquisto e la gestione diretta dei conci fu deleteria per il loro futuro. Dal punto di vista storico-economico non è stata ancora affrontata questa problematica che, tuttavia, emerge negli scritti dello studioso e agronomo calabrese Luigi Alfonso Casella che già agli inizi del Novecento evidenziava l’assenza da parte dei produttori italiani di una visione unitaria e l’errore di aver ceduto per denaro le produzioni sotto il controlo straniero che finì per monopolizzare il settore italiano.Possono considerarsi gli albori della globalizzazione che cominciò a fare terra bruciata della produzione di liquirizia calabro-lucana. I conci della liquirizia cominciarono così a chiudere. Nel 1956 la produzione di liquirizia era quasi del tutto scomparsa riducendosi a pochi quintali l’anno. Coincise con la fine del latifondo agricolo nel Mezzogiorno d’Italia e con l’attuazione della Riforma Fondiaria che relegarono la liquirizia ad un settore di nicchia (Cfr sull’argomento leggasi gli articoli e gli studi di L.A.Casella “La pianta e l’estratto di Liquirizia, Tip Cassone, Monferrato 1908”).

Il Concio di Policoro chiuse definitivamente negli anni 1940-50. I locali furono destinati dai nuovi proprietari per altri usi. Testimonia la presenza di un industria di trasformazione dei prodotti della terra che possono rappresentare la nuova frontiera per il rilancio dell’agricoltura diversificata e di qualità.

* Pandosia ringrazia Antonio Bavusi per le ricerche storiche e documentali, Ottavio Chiaradia per l’iconografia al testo e le foto a corredo