Lungo il Tratturo del Re: l’antica fontana Varatizzo di Policoro. L’acqua a Siris-Herakleia e il culto di Demetra
di Pandosia (Aprile 2023) – Creative Commons Attribuzione – Non commerciale citando la fonte
I musei sono oggi in gran parte muti
ma potrebbero diventare trasmettitori di conoscenza…

Fontana Varatizzo in un’incisione del volume Voyage pittoresque, ou description des royaumes de Naples et de Sicile (1781-1786) dell’Abbé de Saint-Non

Jean-Claude Richard de Saint-Non, noto come Abate di Saint-Non, o Abbé de Saint-Non (Parigi, 1727 – 25 novembre 1791)

Fontana Varatizzo (Foto di Ottavio Chiaradia © 2023)

Mascherone boccaglio Fontana Varatizzo (Foto di Ottavio Chiaradia © 2023)

Resti di affreschi murari – Fontana Varatizzo (Foto di Ottavio Chiaradia © 2023)

Fontana Varatizzo (Foto di Ottavio Chiaradia © 2023)

Fontana Varatizzo. A.D. 1750. In alto a destra, visibili le lettere “P” e “I”. A destra e sinistra della data due fregi scolpiti a forma di “S” ribaltata (Foto di Ottavio Chiaradia © 2023)

Sistema del troppo pieno della vasca interna della Fontana Varatizzo (Foto di Ottavio Chiaradia © 2023)

Ipotesi pitture murarie decorative della parte inferiore della Fontana Varatizzo

Prospetto dell’edificio che ospita la vasca di decantazione del sistema idrico della Fontana Varatizzo (Foto di Ottavio Chiaradia © 2023)

Tratturo del Re (in rosso) e Tratturo Regio Policoro – Anglona – Tursi (in blu) su cartografia Rizzi Zannoni (1807). Elaborazione grafica Pandosia © 2023

Cartina tratta dal testo di Gabriel Zuchtriegel “Colonisation and hybridity in Herakleia and its hinterland (southern Italy), 5th-3rd centuries BC”

Area sacra – Tempio di Demetra (Gabriel Zuchtriegel, op.cit.)

Cartina tratta da Ceraudo (2003) che mostra l’impianto urbano con le tre città di Siris Herakleia che si sono sviluppate con successioni cronologiche stratificate (l’attuale Policoro nella parte della città bassa ha inglobato il primo insediamento di Siris). Nel riquadro l’area sacra con i templi di Demetra e Dionisio)

Santuario arcaico di Demetra (VI sec a.C.). Decarazione e ex voto di età arcaica e classica (da Gertl 2012). Visibili nella cartina i “pozzi sacri” nei cui pressi venivano deposte le offerte alla dea

Demetra con lo scettro e il porcellino (area del tempio). A destra, corridori durante il “dromos”, il rituale della corsa durante i misteri eleusìni

Ex voto Demetra: dall’alto in basso (lamina in bronzo con la dedica a Demetra (IV-III sec a.C.); ceppi di schiavo in ferro(IV sec. a.C.). Orolo di vasi denominati hydria (contenitori di acqua) (Gabriel Zuchtriegel, op.cit.)usati per il rituale di libagione per la Terra (tratti da B.Otto, Op.cit)

Moneta di Metaponto con Demetra, e sul retro il possibile “ergot” sulla spiga del cereale

Ergot. Il fungo alcaloide allucinogeno (tossico e velenoso in grandi dosi)
Demetra e la bevanda “Cineone”
ciceone (in greco antico: κυκεών, kykeón) è una bevanda rituale in uso nell’antica Grecia, legata, in particolare, al digiuno osservato durante la celebrazione dei misteri eleusini. L’uso rituale del ciceone è associato alla celebrazione dei misteri eleusini, riti religiosi iniziatici dell’antica Grecia relativi al culto di Demetra e Persefone. Questa associazione nasceva dalla tradizione mitologica greca, secondo cui il ciceone sarebbe stata l’unico rifocillamento e ristoro accettato da Demetra durante la ricerca della figlia Persefone, rapita da Ade. Nella tradizione rimanda all’inno omerico, in particolare all’Inno a Demetra, ai versi 200-201 e 208-211. Per questo motivo, il ciceone era la bevanda che veniva assunta da chi si sottoponeva al rito di iniziazione nel Telesterion (ndr nel tempio). In tale occasione, infatti, egli pronunciava la frase iniziatica trasmessa dalla sacerdotessa. Su tale fase preparatoria, appartenente a un percorso iniziatico di un rito misterico, non esistono rivelazioni e testimonianze: a giudicare dall’Inno a Demetra, si potrebbe dedurre che l’assunzione esclusiva del ciceone fosse associata a una pratica preparatoria di digiuno stretto, della durata di nove giorni (secondo altre ipotesi, due giorni senza cibo e acqua). Il significato della parola greca κυκεών è quello di “mistura” e, all’occorrenza, “mescolata con acqua”. Era, infatti formato da ingredienti su una base di acqua: in una coppa riempita venivano aggiunti farina d’orzo e menta (γλήχων). «Allora Metanira colmò una coppa di vino dolce come il miele e gliela offrì; ma la dea rifiutò perché non le era lecito, diceva, bere vino rosso e la invitò a darle da bere acqua e farina di orzo, mista a menta delicata»
(Omero, Inno a Demetra). Ovidio, nel descrivere la bevanda, non nominandola nello spazio dei suoi versi, ne indica la composizione come vino con aggiunta di fiocchi di segale tostati. Poiché gli ingredienti aggiunti non erano in grado di dissolversi nel liquido, vi rimanevano in sospensione, così che era necessario agitare ripetutamente la mistura durante la beva, fino al suo completo consumo. Secondo l’etnologo Gordon Wasson, il chimico Albert Hofmann e altri studiosi, gli stati mistici e rivelatori ottenuti dai partecipanti ai Misteri Eleusini erano ottenuti tramite il ciceone stesso, nella cui preparazione sarebbe rientrata segale cornuta, cioè il cereale (in genere orzo) infestato dal parassita Claviceps purpurea, comunemente detto ergot, di cui sono noti gli effetti psicoattivi e dalla quale si ricava l’LSD.
Conosciuta oggi come “ Fontana del Varatizzo”, l’immagine compare in un’incisione del volume Voyage pittoresque, ou description des royaumes de Naples et de Sicile (1781-1786) dell’Abbé de Saint-Non. Nel 1773, epoca in cui fu realizzata la stampa pare dal pittore Claude-Louis Châtelet che accompagnava l’Abbé de Saint-Non , una didascalia all’immagine descriveva la «veduta ripresa nei pressi di dove si ritiene sorgesse l’antica città di Eraclea, città della Magna Grecia sulle rive del Golfo di Taranto e nei pressi dei piccoli centri di Anglona e Policoro in Basilicata ». In prossimità della “fontana del Varatizzo”, si scorgono due donne, di cui una con un bambino, che riempono vasi di acqua, tre viandanti con i loro cavalli o muli che si abberano presso la fontana, contadini, vaccari, bufalari, pastori con al seguito di cani e addirittura “cammellieri” che conducono due cammelli da soma lungo il tratturo vicino, testimoniando l’uso di questi animali anche in Basilicata alla fine del XVIII secolo (Cfr Jacopo De Grossi Mazzorin, Presenze di cammelli nell’Antichità in Italia e in Europa: aggiornamenti). La fontana monumentale Varatizzo è stata dichiarata di interesse culturale e monumentale di particolare importanza e si trova limitrofa al parco archeologico di Herakleia, tutelata con con decreto n. 70 del 26/9/2011. La sorgente che alimenta la fontana, dove ancora è presente l’acqua, risale all’epoca della fondazione della città di Siris-Herakleia.
La fontana Vatarizzo, realizzata nel 1750, così come testimonia l’iscrizione situata in alto sull’arco centrale (vedi foto realizzata da O.Chiaradia recante l’iscrizione A. D. 1750 con due fregi scolpiti ai lati e, in alto a destra, le lettere “P” e “I” forse le iniziali del nome del lapicida) mostra, in corrispondenza del boccaglio un grande mascherone in pietra (vedi foto realizzata da O.Chiaradia). Sono visibili sulla facciata a tre nicchie, frammenti dell’originario intonaco affrescato di colore rosso – ocra. La struttura a due falde in mattoncini originariamente intonacata, contiene all’interno la vasca di accumulo dell’acqua dotata di un sistema del troppo pieno. Necessita urgenti lavori di restauro conservativo che riportino il manufatto all’aspetto originario, ripristinando anche il limitrofo regio tratturo che collegava Policoro al Santuario di S.Maria d’ Anglona, di cui la fontana Varatizzo costituiva un punto di sosta e ristoro, così come mostra la stampa Settecentesca.
Nella documentazione relativa ai Serra principi Gerace, proprietari di Policoro, si deduce la proprietà della sorgente Varatizzo, confermata anche dalla vaga testimonianza del viaggiatore inglese Keppel Craven in visita a Policoro nella tarda primavera del 1818 il quale scriveva”…mi fu detto che la malaria poteva essere causata da una parte dell’acqua stagnante di una sorgente che con una spesa di pochi ducati si potrebbe far defluire nel mare. Io credo che la vera causa sia la vicinanza dei due fiumi...” mentre Pietro Rondinelli (Cfr P.Rondinelli, Montalbano Jonico, Op.cit.) evidenziava”…vi è una sorgente d’acqua potabile detta Varratizzo condotta sin nella stalla equina, sottoposta al Palazzo…” descrivendo il progetto di riunire tra loro le sorgenti disperse della valle del Varratizzo ed utilizzarle per disparati usi agricolo, per la fontana, il pilone e per alimentare eventuali macchine ad acqua dopo “l’espurgo e la loro canalizzazione”.
Lungo questo Tratturo, che ripercorre l’attuale strada provinciale Policoro Tursi “ … sembra ricalcare il tracciato di un tratturo esistente fino a pochi decenni fa. L’ipotesi di una dislocazione delle sepolture ai lati di un tracciato viario antico sembra essere confermata dalla larga fascia priva di sepolture, al centro della quale corre l’asse moderno (Frey 1991, 10). La costruzione della strada non avrebbe comunque comportate alcuna distruzione di eventuali sepolture sottostanti, che, se presenti, dovevano essere situate a quote più profonde. Anche la planimetria generale rivela l’ampiezza della fascia non occupata dalla necropoli, sicuramente più larga del tracciato viario moderno. Come pendant, si possono ricordare i sopracitati assi di Incoronata “indigena” e S. Teodoro ( S.Bianco. La prima Età del ferro nel Metapontino e nella Siritide. In “Siritide e Metapontino”, Publications du Centre Jean Bérard, 1998).”La viabilità in età antica (ma sino anche a tempi recenti) ha da sempre usato la zona di Anglona come principale punto di transito per collegare in modo agevole la polis di Eraclea e la paralìa ionica con i rilievi dell’interno: si tratta di un asse di collegamento che attraversava in senso est-ovest i crinali e i plateaux della chora, sfruttando terreni solidi e compatti, invece dei suoli meno stabili delle valli fluviali di Agri e Sinni. Per la sua favorevole posizione strategica, che consente un controllo visivo a 360° del circondario, per il suo essere punto nodale del principale tracciato viario diretto verso la costa, per i signiicativi e considerevoli rinvenimenti archeologici effettuati soprattutto sulla sommità del rilievo, la collina di Anglona è da tempo ormai identificata con la Πανδοσία di età classica riportata nelle “Tavole di Eraclea”. Nelle stesse Tavole non a caso viene nominata più volte la strada interpoderale di Pandosìa, citata come principale punto di riferimento per la delimitazione dei terreni agricoli e come importante asse di comunicazione tra la polis e – tramite Pandosìa – l’entroterra “. (Cfr D.Roubis. Archeologia dei paesaggi a Πανδοσία (S. Maria d’Anglona): una prospettiva dalla chora di Herakleia verso l’eschatià. In Siris, estratto, Edipuglia, n. 15/2015).
La città arcaica di Siris sullo Jonio era collegata commercialmente con Pissunte (Πυξοῦς, Pyxus, attualmente denominata Policastro Bussentino), sul Golfo omonimo, attraverso la via istimica della Valle del del Sinni, il mitico “passaggio a Nord Ovest” che collegava i mari Jonio al Tirreno, seguito dai popoli Enotri nell’ XI secolo a.C. durante la loro fase di espansione da oriente verso occidente, prima della II colonizzazione greca e la Magna Grecia e dell’arrivo dei romani (su questo itinerario leggasi l’articolo “La Via degli Enotri e il Tratturo delle Montagne”)
Che vi fosse una località denominata “Pandosia” nella Chora della Siritide, è attestato nelle Tavole di Herakleia risalenti al IV – V sec. a.C. che ne citano in greco “Πανδοσία” la presenza con toponimo forse di origine enotra (oggi le tavole originali sono presso il museo archeologico di Napoli ad eccezione di un piccolo frammento rinvenuto in epoche successive). Rinvenute nel 1731 presso il greto del fiume Cavone, in località di Ucio (Montalbano Jonico) o in località Acinapura (poco a nord della vecchia masseria Andriace), esse recano le disposizioni relative ai possedimenti del Tempio di Dioniso il cui culto era praticato nella Siritide, lungo la direttrice per Pandosia (Anglona), dove molte aree erano state usurpate ai legittimi proprietari ai quali veniva ordinato di ristabilire la buona tenuta dei fondi occupati da sterpaglie sui quali un Geometra, chiamato appositamente da Napoli, tramite horistai (funzionari designati per le assegnazioni) fece apporre dei cippi. I terreni abbandonati erano stati rioccupati da boschi, divennero pascolo per le mandrie. Dagli studi di Alessio Simmaco Mazzocchi sulle tavole di Eraclea – parte in greco, emerge un complesso sistema di affidamento agricolo delle terre sacre divise secondo un sistema di appoderamento con misure agrimensorie definite. L’archeologia postuma ha interpretato in modo improprio “enfiteusi” il sistema descritto nelle tavole. In realtà era un tentativo da parte dell’autorità preposta alle terre sacre di rimettere ordine in un sistema di conduzione agricola. Nel pagamento veniva previsto un risarcimento (multa) a favore dei nuovi proprietari, a causa della perdita di valore delle terre stesse per abbandono da parte dei vecchi proprietari. In caso di assenza di nuovi acquirenti delle terre abbandonate, i vecchi proprietari avrebbero dovuto risarcire l’autorità amministrativa delle terre sacre del valore pagato al primo acquisto. Dalle tavole si rileva anche la presenza di una viabilità maggiore (tratturo per Anglona) e una rete minore di vie di accesso ai singoli fondi. Sul lato opposto delle tavole (Corpus Inscriptionum Latinarum), è riportata la lex Iulia Municipalis promulgata da Gaio Giulio Cesare nel 45 a.C., la quale ha un carattere generale sulla riorganizzazione amministrativa delle città con alcune norme a carattere sociale. Con essa molte città e colonie assunsero il rango di municipio (Cfr. su Pandosia – Anglona, leggasi: Domenco Romanelli, Antica topografia istorica del regno di Napoli (parte 1), Napoli, Stamperia Reale, 1815)
La Tavola I, vv.63 -71 reca il decreto nel quale ” “Ponemmo anche cippi di confine intermedi:due sulla via che dalla città e da Pandosia conduce attraverso i terreni sacri,due sulle colline boscose. Tutti questi (ponemmo) allineati e in reciproca corrispondenza: quelli che danno sul lato sacro della strada vicinale recano l’iscrizione Sacri dei Terreni di Dioniso, quelli posti nella terra privata recano l’iscrizione contro cippi. Ponemmo parimenti cippi di confine intermedi anche sulla strada vicinale che fiancheggia la proprietà di Finzia:due sulla via che dalla città città e da Pandosia conduce attraverso i terreni sacri, due sulle colline boscose presso i caseifici”. Nella Tavola I, vv. 72-76 viene specificato: “Tutti questi (ponemmo) allineati e in corrispondenza con quelli sulla via che conduce attraverso la forra lungo il querceto: quelli che danno sul lato sacro recano l’iscrizione Sacri dei Terreni di Dioniso, quelli che danno sulla terra privata l’iscrizione contro cippi; e distano tra loro si da lasciare una strada vicinale di venti piedi.” (Cfr A.Stigliano, Dioniso e la vite nelle tavole bronzee di Eraclea).
Secondo la studiosa Annamaria Ciarallo (A.Ciarallo, Il Saltus metapontinus e le tavole di Eraclea. In Rivista di Studi Pompeiani Vol. 17 (2006), pp. 139-142)“…nella II Tavola sembra prevalere la descrizione di un paesaggio agrario di tipo suburbano, caratterizzato dall’infittirsi di orti e vigneti non molto estesi, stretto tra la città e il mare, che qui, a differenza della tavola precedente, veniva citato, ben servito dalle strade, in particolare dalla via Eraclea. Ciascun lotto, inoltre, aveva dell’acqua nell’immediate vicinanze: in particolare, il riferimento al ruscello di abbeveramento del bestiame, che scorre giù dalla città attraverso i campi, induce a localizzare i terreni a valle della città stessa. Dal punto di vista delle colture agrarie, nelle tavole venivano ricordate quelle dell’orzo, delle viti, degli olivi, dei fichi e di generici alberi da frutto“.
Nel XVII secolo, il “borgo agricolo” di Policoro, passato ai Gesuiti, dipendeva per le entrate fiscali da Montalbano Jonico e dal punto di vista territoriale da Tursi. Tra i secoli XVIII e XVII vi si svolgeva una “piccola transumanza” tra i monti dell’Appennino Meridionale e le marine della costa Jonica, intrapresa dalle mandrie dai feudi della potente famiglia Sanseverino tra il Pollino e le spiagge di Policoro e dai feudi di proprietà dei Pignatelli tra le pendici del Pollino e le marine ioniche, lungo le valli dell’Agri e del Sinni, attraverso San Giorgio, luogo di avvistamento e di accoglienza delle mandrie che, scendendo dal Pollino si recavano nelle spiagge ioniche di Policoro per poi risalire dopo avere colà svernato (Cfr. G. Larenza, E.M.S. Roseto, Gli insediamenti del Pollino, in AA. VV., Il Pollino, storia, arte, costume, Roma 1984. Sulle direttrici di questa transumanza, cfr. R. Bergeron, La Basilicate. Changement social et changement spatial dans une région du Mezzogiorno. Ecole française de Rome, 1994). Alla transumanza degli animali, dal XIX secolo si sostituì quella dei braccianti che, dalle medesime aree, si spostavano per i lavori stagionali nei latifondi agricoli della costa jonica.
Il termine “Varatizzo” nella sua forma dialettale Uaratizzo o Varatizzo, significa“piccolo corso d’acqua” e deriverebbe, secondo lo studioso delle lingue antiche Giacomo Devoto, dal termine mediterraneo “vara” oppure dalla voce preromana uaria, secondo l’etnologa Giulia Petracco Sicardi. Il termine ha significato simile in lingua celtica, dove uaria, uera è il “corso d’acqua”, oppure dall’indoeuropeo uer, uor, uar, ur “acqua o fiume”, a seconda della pronuncia.
“La presenza dell’acqua sembra determinare la presenza protocoloniale ellenica e connotare la fondazione della prima Siris alla foce dell’omonimo fiume (attuale Sinni), da cui la “città” riprende l’antico idronimo locale derivato dalla radice indoeuropea “sir”, legata etimologicamente allo scorrere delle acque. L’immagine della città detta «simile a Troia» da Licofrone (Alexandra, 984 sgg.) si riferisce probabilmente alla tradizione di una presenza troiana nella Siritide (Strabone, VI, 1, 14), i cui discendenti sarebbero da identificare nel sottogruppo enotrio dei Chones, ma anche all’idea di un paesaggio “troiano”, che l’acqua doveva fortemente richiamare” (Cfr A. Musti, Una città simile a Troia, città troiane da Siri a Lavinio, Edizioni L’Erma di Bretschneider, Vol. 33, 1981, pp. 1-26 ).
Gli insediamenti umani sulla costa Jonica, a causa della presenza di paludi costiere, si attestò sui pianori alti immediatamente a ridosso dei fiumi a partire già dalla preistoria. Sulla sponda destra del Torrente Varatizzo, che presenta diverse risorgive, è attestato un insediamento risalente alla media età del bronzo, così come in corrispondenza dei terrazzi orientali di Policoro dove la città alta di Herakleia era divisa dal primo insediamento di epoca precedente, da un pianoro ora in massima parte urbanizzato, dove sono presenti i templi di Demetra e Dioniso, con gli insediamenti di origine preistorica situati lungo l’antico un itinerario costiero che collegava tra loro i centri abitati dell’intero arco Jonico. Dopo il periodo pre-ellenistico e quello della Magna Grecia, l’itinerario assunse la denominazione di “Tratturo del Re” (corrispondente a Policoro con l’attuale Via Puglia).
Questo antichissimo itinerario era intersecato da bracci tratturali ortogonali che collegavano gli approdi marini situati alle foci dei fiumi Sinni, Agri, Cavone e Bradano. In direzione di S. Maria di Anglona erano ubicati insediamenti nei quali sono state rinvenute ceramiche “italo-micenee”, come a Tursi-Castello e Tursi-Cozzo San Martino.
La fondazione della prima Siris che alcuni studiosi riferiscono fondata dagli Enotri e successivamente da genti troiane e in seguito dai Choni, collocherebero alla foce dell’omonimo fiume (attuale Sinni), da cui la “città” riprende l’antico idronimo locale derivato dalla radice indoeuropea sir, è legata etimologicamente allo scorrere delle acque. L’immagine della città detta «simile a Troia» da Licofrone (Alexandra, 984 sgg.) si riferisce probabilmente alla tradizione di una presenza troiana nella Siritide (Strabone, VI, 1, 14), i cui discendenti sarebbero da identificare nel sottogruppo enotrio dei Chones, ma anche all’idea di un paesaggio “troiano”, che l’acqua doveva fortemente richiamare” (Cfr Salvatore Bianco, Siris -Herakleia, l’uso dell’acqua nella città e nel territorio. In Archeologia dell’Acqua, monografico del Consiglio Regionale di Basilicata, anno 1999). Ma è probabile, a causa dell’insalubrità del luogo lungo il Sinni, che Siris fosse coincidente con il secondo pianoro (sotto il castello) corrispondente alla parte alta dell’attuale Policoro, lungo le Via Puglia e Fratelli Bandiera, sovrastato dall’area sacra con i templi di Dioniso e Demetra.
Un aspetto importante che già nel 1760 veniva rilevato sulla sparizione di numerose testimonianze archeologiche e monumentali. “L’abate di Saint–Non, che visitò il sito dell’antica città alla fine del Settecento, scriveva: “Héraclée est effectivament la plus détruite de toutes les Villes célèbres de l’antiquité, et une de celles dont il reste le moins de traces” (Eraclea è infatti la più distrutta di tutte le famose città dell’antichità, e una di quelle di cui rimangono poche tracce).

Pianta del feudo di Policoro del Principe Sanseverino di Bisignano (1589), Colafrancesco Chiarito, regio compassatore- Archivio di Stato di Foggia). Visibili nel territorio di Policoro tre torri, di cui una lungo la via per Anglona, sul sito della distrutta Eraclea.
“Poche righe prima il Saint–Non aveva individuato la causa di una tale distruzione negli scavi compiuti dai Gesuiti “dans tout le Territoire où étoit l’antique Héraclée” e nel fatto che essi avessero portato via di nascosto quanto di prezioso avevano trovato. Le parole del Saint–Non rappresentano una testimonianza chiara del “saccheggio” subito da Herakleia nei decenni finali del Settecento e della dispersione delle testimonianze archeologiche più rilevanti, verosimilmente provenienti in gran parte dagli edifici monumentali della città, tra i quali un ruolo preminente era certamente ricoperto da quelli religiosi. La consapevolezza di una sottrazione tanto consistente e della mancanza di qualsiasi informazione su quanto disperso va certamente tenuta presente quando ci si appresta a una lettura del numero e della qualità delle testimonianze del culto attualmente disponibili per Herakleia”. (Liliana Giardino.Spazi sacri e impianto urbano a Herakleia di Lucania tra la fine del VII e il I secolo a.C.. In «THIASOS Monografie»a cura di Enzo Lippolis e Giorgio Rocco, Edizioni Quasar, 2011)
Il ciclo antropocosmico dell’acqua a Siris -Herakleia
Secondo il filosofo russo Valerij Nikolaevič Sagatovskij (1933 – 2014) per “antropocosmico” si intende l’essere umano come totalità unitaria nella quale materia, anima e spirito sono sullo stesso piano per dignità e valore. “Le acque simboleggiano la totalità delle virtualità; sono “fons et origo”, la matrice di tutte le possibilità di esistenza… Fin dalla preistoria, il complesso Acqua-Luna-Donna era percepito come il circuito antropocosmico della fecondità. Sui vasi neolitici (civiltà detta di Walternienburg-Bernburg) l’acqua era rappresentata col segno “VVV”, che è anche il più antico geroglifico egiziano dell’acqua corrente. E già nel paleolitico la spirale simboleggiava la fecondità acquatica e lunare; segnata sugli idoli femminili, omologava tutti i centri di vita e di fertilità” (Cfr .Mircea Eliade. Trattato di storia delle religioni “Traité d’histoire des religions”. Payot, Parigi, 1948, Traduzione di Virginia Vacca. Boringhieri, Torino, 1976 Editore).
Il santuario di Demetra ad Eraclea si sviluppa su un leggero pendio, ubicato alla sommità di un piccolo avvallamento limitro al torrente Varatizzo, che presenta numerose sorgenti e risorgive utilizzate in passato mediante pozzi.
La valletta si inserisce tra la collina del Castello di Policoro a nord, ed il pianoro occupato dal moderno centro di Policoro a sud, appartenenti entrambi ad una vasta terrazza dell’era quaternaria (era forse l’antica Siris). La Collina ospitava la “città alta” di Eraclea con l’acropoli, mentre sul pianoro meridionale si estende la città bassa” (Cfr F.Martorella, Tracce di urbanizzazione nella vallata mediana della città di Eraclea, in Fasti on Line, Associazione Internazionale di Archeologia Classica, Roma, s.d.).
Il santuario di Demetra, incorporato nel perimetro urbano di Eraclea e nella parte alta di Siris, “guarda” verso la “città alta” e verso l’acropoli. L’area sacra sorse sui resti di un santuario di epoca arcaica, riferibile all’insediamento di Siris, ed è situato rispetto a questo probabilmente in posizione extraurbana, ma anche qui con un chiaro contatto visivo con l’acropoli arcaica ubicata sulla collina. Sembra essere proprio la presenza di copiose acque sorgive nella zona, a determinare il sorgere di aree destinate al culto.
Il santuario fu scoperto nel 1964 da Felice Gino Lo Porto, indagata dagli archeologi Quilici e Ceraudo, mentre scavi sistematici sono stati condotti in quest’area tra il 1965 e il 1971 da Bernhard Neutsch con i suoi colleghi, affiancati da un’equipe di studenti dell’Università di Heidelberg, di Padova e di Innsbruck. Nel 1985 le indagini sono state condotte da Giampiero Pianu con studenti dell’Università di Perugia. Dal 1995 gli scavi sono ripresi sotto la direzione dedi Benni Otto con i colleghi e gli studenti dell’Università di Innsbruck fino al 2003, mentre dal 2004 gli scavi sono condotti da Michael Tschurtschenthaler con gli studenti dell’Università di Innsbruck.
L’équipe di studenti dell’Università di Innsbruck, diretti dal prof. Michael Tschurtschenthaler, in collaborazione con la prof. Brinna Otto, ha portato ad uno straordinario ritrovamento: nella zona in basso, a nord delle risorgive, è venuto alla luce un edificio di grandi dimensioni, denominato “Oikos H”.(Brinna Otto. Il santuario di Demetra a Policoro (a cura di Marta Golin). Scorpione Editrice, Taranto, 2007).
Il culto di Demetra e l’acqua
Demetra, era figlia di Crono e Rea. Presiedeva la natura, i raccolti e le messi. Associata all’agricoltura, alle stagioni e alla legge sacra, lei e la figlia Persefone (Kore) sono inoltre intimamente connesse con la religione misterica, e in particolare con i misteri eleusini (piccoli e grandi misteri). Secondo Esiodo, Demetra era la secondogenita di Crono e Rea, e come i suoi fratelli fu ingoiata da Crono appena nata, e salvata in seguito da Zeus. L’epiteto con cui la dea viene più frequentemente chiamata rivela l’ampiezza e la portata delle sue funzioni nella vita greca del tempo: lei e Kore (“la fanciulla”) erano solitamente invocate come “le due dee” (τώ θεώ. È assolutamente plausibile che vi sia una connessione con i culti dedicati alle due dee nella civiltà minoica di Creta. Le figure di Demetra e di sua figlia Persefone (Kore) erano centrali nelle celebrazioni dei Misteri eleusini, anch’essi riti di epoca arcaica e antecedente al culto dei dodici dèi dell’Olimpo. Secondo il retore ateniese Isocrate, i più grandi doni di Demetra all’umanità furono i cereali (il cui nome deriva dal nome latino di Demetra, Cerere), che hanno reso l’uomo diverso dagli animali selvatici e i Misteri, che gli hanno consentito di coltivare speranze più elevate per la vita terrena e per ciò che dopo la vita verrà. Nella mitologia romana la sua figura corrisponde a quella di Cerere, e fu anche spesso identificata con la dea di origine anatolica Cibele. Le sue sacerdotesse erano chiamate Melisse (produttrici di miele). Demetra, Madre terra, è la dea della maternità (probabilmente dal nome indoeuropeo della Madre terra dheghom mather), sorella di Zeus, nella mitologia greca, è la dea del grano e dell’agricoltura, nutrice della gioventù e della terra verde, artefice del ciclo delle stagioni, della vita e della morte, protettrice del raccolto e delle leggi sacre. Negli Inni omerici viene invocata come la “portatrice di stagioni.
Oikos è il termine greco che significa casa e indica edifici quadrangolari, nell’antichità era chiamata così la casa di una divinità, il suo tempio.
Nello scavo sono venuti alla luce i resti di un muro che misura 5,30 m. L’Oikos H è orientato verso est. Per quanto concerne la datazione dell’edificio, sopra il muro scoperto è stato individuato un deposito sacro del IV-III secolo a. C a devozione alla dea Demetra. Una piccola statuetta mostra la dea che reca nella mano sinistra la sacra fiaccola a forma di croce, usata nell’oltretomba alla ricerca della figlia Persefone, mentre nella mano destra stringe un maialino, che le veniva sacrificato in suo onore dai fedeli purificandosi successivamente ritualmente nel fiume sottostante.
Dal tempio provengono anche parti di vasi chiamati hydriai, i vasi per l’acqua, con iscrizioni dedicatorie e fiaccole a croce, sacro scettro della dea, dipinte sopra. I vasi venivano spezzati e infissi nel terreno. I devoti alla dea Demetra, usavano questi vasi spezzati come imbuti per riversare nella terra, sede della dea, le offerte di liquidi: vino, latte, miele e acqua.
Le iscrizioni rinvenute ci confermano che a Demetra fossero fatte preghiere così come riportato dalle dediche sull’orlo dei vasi che riportano i nomi di due illustri cittadini di Herakleia, Zopirisco, che troviamo nelle “Tavole di Herakleia” e Sodamo, alto funzionario di Herakleia. Demetra, divinità rappresentante la Grande Madre o la Madre Terra, era protettrice della fertilità e della fecondità naturale. Lo era anche per la salute. In un hidriskos (contenitore rituale per l’acqua) sono stati rinvenuti piccoli vasetti forse contenenti offerte di alimenti e liquidi, mentre un secondo hydriskos a vernice nera, mostra la scena rituale di giovani che si sfidano nella corsa nella specialità del diaulos (misura doppia dello stadio che fu introdotta alle Olimpiadi di Atene), che prevedeva un percorso doppio rispetto alla specialità della corsa veloce che invece si svolgeva nello stadion, riconducibili alla fase di dominio acheo-sibarita nella Siritide. Questo vaso è stato associato sempre all’area del Tempio dedicato a Demetra(Cfr. ). Si ipotizza che presso il santuario di Demetra a Siris-Herakleia, vi si svolgesse una dromos (corsa). Tale ipotesi nasce sulla base di una epigrafe su lamina bronzea rinvenuta a Policoro che elenca i beni di una dea venerata sul fiume Sinni nei pressi di un “dromos”. Gli adepti, nel secondo giorno festivo dei Grandi Misteri eleusini, celebrati tra settembre e ottobre, sacrificavano e consumavano un porcellino, a seguito di un bagno purificatore che avveniva dopo la corsa rituale iniziatica verso il mare.
Nel sito del tempio è stato ritrovato anche un ex voto, un kalathos, un recipiente o cesta in argilla con semi di fave. Demetra proibiva l’uso delle fave considerate impure agli iniziati ed ai sacerdoti del culto. La pianta in grado di comunicare con l’oltretomba e il frutto ricordava il feto. Tale divieto, che costituiva un segreto sacro, potrebbe spiegarsi anche Metaponto con il divieto di Pitagora di consumare fave o semplicemente attraversare campi coltivati con questo frutto. E’ probabile che tale proibizione delle fave risalisse prima dell’introduzione della cerealicoltura, spesso associato all’anemia mediterranea che riguardava molte aree nel sud Italia. Il culto eleusino aveva un suo mito di fondazione, imperniato sulle dee Demetra e sua figlia Persefone. La versione più antica del mito eleusino è cantata nell’Inno Omerico a Demetra che, come tutti gli altri Inni Omerici, non sono da attribuire a Omero, bensì a uno o più poeti-cantori vissuti fra il settimo e il sesto secolo a.C. e si riferiva ad una visione mistica ottenuta sotto l’effetto di droghe (forse l’ergot ricavato dalla segale cornuta, alcune specie di funghi velenosi oppure papavero da oppio) dopo un digiuno di due giorni e la corsa verso il mare il rito aveva termine con l’offerta di un maialino alla dea e con la purificazione nell’acqua del fiume o in una vasca sacra. Il rito si concludeva di sera, alle luce delle fiaccole, con le donne che danzavano e cantavano ricordando la ricerca di Demetra della figlia Persefone agli inferi, offrendo una bevanda depurativa chiamata Kikieon (cineone) composta di acqua, farina d’orzo, miele, formaggio ed erbe, quali menta e frutti aromatici. Non è noto se a Siris-Herakleia vi fossero iniziati al mistero eleusino, attraverso i grandi e piccoli misteri. E’ invece certo che l’oikos sacro venisse in massima parte frequentato da donne per chiedere la fecondità, oppure per guarire dalle malattie, o chiedere la fecondità dei campi e per celebrare riti purificatori attraverso l’acqua sacra così come mostrano il saccello circolare ove veniva accesso il fuoco sacro e l’altare.
Presso i templi dedicatati a Demetra, infatti, vi si svolgevano anche altre feste, legate ad altri rituali. A differenza dei Misteri Eleusini, la festa delle Tesmoforie, che godeva tuttavia dello stesso mito di fondazione, era largamente diffusa anche fuori del luogo di origine, in tutta l’area greca (Cfr. Maria Cristina Vincenti – Alberto Silvestri. Il sacrificio del maialino nel culto di Demetra e Kore.Il caso delle offerte nel santuario delle due dee in Valle Ariccia. In Il Cibo e il sacro – “Religio” Collana di Studi del Museo delle Religioni “Raffaele Pettazzoni”. Edizioni Quasar, Roma, 2020).
“Si tratta di una festa riservata alle sole donne, da cui quindi gli uomini erano esclusi, che cadeva di norma nel periodo che precede la semina ed era tesa a ottenere la fertilità agraria. Ad Atene le celebrazioni si articolavano in tre giorni, caratterizzati rispettivamente dall’anodos (salita al tempio), nesteìa (astensione dagli alimenti probabilmente associata all’astinenza sessuale), kalligèneia (bella nascita), giorno conclusivo in cui si facevano offerte di dolci, cereali, fichi secchi, papavero, e formaggio e durante il quale, o nella notte precedente, avveniva verosimilmente il sacrificio cruento del porcellino, poiché il digiuno terminava con un ricco banchetto a base di carne. Una particolare prassi sacrificale, segnalata come peculiare delle Tesmoforie, ma forse tipica del culto demetriaco in generale, era quella contraddistinta dal megarìzein, ovvero l’atto del gettare in voragini o anfratti chiamati mégara i porcellini, i cui resti venivano recuperati l’anno dopo, ormai putrefatti, dalle antletrie, le “attingitrici” che scendevano nel sottosuolo, li raccoglievano e li portavano con loro per depositarli, una volta risalite, sugli altari. I resti venivano poi mescolati alle sementi dell’anno prima della semina per propiziare il raccolto. La prassi ripeteva ritualmente il racconto mitico: «Mentre Kore stava raccogliendo fiori fu rapita da Ade e, nello stesso momento, il porcaro Eubuleo, che stava portando al pascolo i porci, sprofondò insieme ad essi nella voragine in cui era precipitata la fanciulla; è per onorare Eubuleo dunque che si gettano i porcellini nelle cavità sotterranee delle due dee».In effetti, tra le offerte sacrificali in contesti tesmoforici, risultano anche quelle di maiali destinati a Zeus Eubuleus, divinità ctonia assimilabile ad Ade e a Liber-Dioniso. Sempre le donne “iniziate” al culto demetriaco erano portatrici dei segreti della guarigione da alcune malattie.Nelle raffigurazioni è strettamemente legata alle messi e al grano, ai semi di papavero da oppio, e serpenti.
Nei Fasti di Ovidio, Cerere – Demetra – Kore, nutrice di Trittolemo presenta numerose analogie con alcune pratiche di medicina e magia popolare ancora in uso. In particolare, nel rito contro la fascinazione dei bambini e degli adulti, esercitato dalle sue sacerdotesse nel ruolo di guaritrici-megere, che sono confluite nelle credenze del sud Italia attraverso il sincretismo magico-religioso nel Cristianesimo, in alcune “isole” dove è conservata l’offerta delle spighe di grano intrecciate in devozione alla Madonna (gregne). Nel mito di Demetra, Ovidio (Ovidio, Fasti, Lib,IV) scrive come Demetra, alla ricerca di sua figlia Kore rapita da Ade, giunse ad Eleusi con le sembianze di una vecchia presso la capanna del vecchio Celeo e di Metanira, prendendosi cura del piccolo Trittolemo che giaceva ammalato nella sua culla. Ne diventa nutrice utilizzando un infuso a base di semi di papavero (in dialetto papagna) per placare il pianto del fanciullo “affascinato”. Questa pratica veniva accompagnata dalla recita di preghiere e formule magiche. Le sacerdotesse celebranti le Thesmophòria di Demetra, denominate anche melissai (produttrici di miele, api), sembra che utilizzassero una bevanda sacra a base di miele mescolato con acqua e capsule di papavero, elemento che ricorda uno dei composti della “papagna” utilizzato nella tradizione locale nel sud Italia (Cfr Gianfranco Mele, I sacri rituali di guarigione: Demetra, “la papagna” e “lu ‘nfascinu”. Echi di antichi culti sopravvissuti nella tradizione contadina della provincia di Taranto e del Salento. In SISSC Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza, Bollettino d’Informazione n. 24/2015). In una moneta rinvenuta a Metaponto, uno Statere, 400-340 a.C. mostra la testa velata di Demetra con una corona di spighe, orecchini e collana; sotto al collo, una spiga. Sul retro una una spiga e un topo (secondo alcune versioni numismatiche), ma potrebbe trattarsi dell’ergot, un alcaloide aviceps purpurea (Fr.) Tul., 1853 è un ascomicete del genere Claviceps parassita delle graminacee. Il suo nome comune è il termine francese ergot, che in italiano significa “sperone. L’ergot si forma nelle piante infette degli sclerozi simili a speroni da cui anche il nome comune di segale cornuta per indicare il cereale affetto da ergotismo. Sono corpi fruttiferi del fungo stesso contenenti diversi alcaloidi velenosi o psicoattivi del gruppo delle ergotine (tra cui l’acido lisergico) che presentano vari tipi di effetti sui soggetti che li assumono. Tali alcaloidi, essendo vasocostrittori, compromettono la circolazione interagendo con il sistema nervoso centrale, agendo in particolare sui recettori della serotonina. L’ergot era noto ai Greci, i quali lo denominavano con il termine erysibe, e non può essere un caso che Demetra stessa portava l’epiteto di Erysibe. Teofrasto riportava che l’orzo era considerato particolarmente soggetto alla sua infezione. “Tra i tipi di ergot prodotti dalle varie specie del genere Claviceps che si trovano su cereali e spighe selvatiche, ne esistono alcuni contenenti alcaloidi allucinogeni… questi alcaloidi – soprattutto ammide dell’acido lisergico, idrossietilamide dell’acido lisergico ed ergonovina – sono idrosolubili, al contrario di quelli non allucinogeni del tipo ergotamina ed ergotossina impiegati in medicina. Grazie alle tecniche e alle strumentazioni di cui disponevano gli antichi era quindi facile preparare un estratto allucinogeno a partire da determinati tipi di ergot” (Hofmann, in Wasson et al., 1978: p.32).
* Pandosia ringrazia Antonio Bavusi, per le notizie storiche sulla fontana, Ottavio Chiaradia, per le significative immagini a corredo dell’articolo, Felice Santarcangelo, per le notizie sui luoghi storici legati alla presenza dell’acqua a Policoro, l’associazione “Enzo Gallitelli” per aver ripulito il percorso di accesso alla fontana rendendola accessibile, Ottavio Frammartino, per le notizie e i cittadini di Policoro che ci hanno segnalato l’importante testimonianza monumentale di Policoro, unitamente al Regio Tratturo del Re

Demetra con il melograno e la capsula del papavero da oppio
Demetra-Kore e il melograno
Kore, figlia di Demetra, giocava in compagnia delle ninfe e, mentre si era soffermata per cogliere un narciso venne rapita da Ade, segretamente innamorato di lei per la sua bellezza, che la portò con sé nel suo regno: gli Inferi. Demetra, sua madre, preoccupata della scomparsa della figlia, riuscì dopo lunghe ricerche a scoprire il rapimento. Decise di vendicarsi verso gli dei facendo sì che non crescesse più nulla sulla Terra. Gli uomini sarebbero morti di carestia, mentre gli dei non avrebbero più potuto contare sui loro sacrifici. Allora Zeus inviò Ermes a intercedere presso Ade affinché rimandasse indietro Persefone. Ade prima di liberare Kore, fece mangiare alla sua amata sei chicchi di melagrana, di modo che, mangiandone durante il suo ritorno sulla terra, fosse costretta a ritonare nel regno dei morti ogni anno. Fu così che Demetra decise di far tornare la bella stagione sulla Terra per 6 mesi all’anno, il periodo in cui la figlia aveva diritto a stare con lei sulla Terra. Amore e morte spiegano l’avvicendarsi delle stagioni. La melagrana che porta alla morte è anche simbolo della rinascita.
Demetra e il papavero da oppio
Fu Zeus a mettere a disposizione della sorella Demetra il papavero affinchè bevendone l’infuso fatto dalla capsula del papavero ritrovasse forza (quando era esausta per le affannose ricerche della figlia rapita da Ade) e serenità grazie all’oppio contenuto nel cosiddetto Papaver somniferum. E’ noto l’uso medicinale della pianta in Grecia e nelle colonie della Magna Grecia, utilizzata durante i “misteri eleusìni” (in greco antico: Ἐλευσίνια Μυστήρια), riti religiosi misterici che si celebravano ogni anno nel santuario di Demetra.