La regia difesa di Lagopesole e l’aratia di Palazzo San Gervasio
Nell’area del Vulture, durante il periodo svevo – angioino, di grande importanza era l’allevamento brado
dei cavalli e di quelli della regia curia destinati rispettivamente al lavoro nei campi, allo svago (caccia con il falcone e con l’arco) e alla guerra. Federico II di Svevia impegnò grande cura e passione nell’allevamento dei cavalli destinati alla guerra.Il testo di J.L.A. Huillard Breholles, Historia diplomatica Friderici secondi, Paris 1852-1862, è una fonte di informazioni sull’allevamento dei cavalli. Esso veniva praticato su grandi spazi erbosi e nei boschi della Basilicata e nella Valle di Vitalba che, in una antica descrizione del 1231 riportata da F. Tichy, Die Walder der Basilicata und die Entwaldung, im.19 Jharhundert, Heidelberg, Munchen, 1962, erano compresi tra il monte Milievensis oltre il Trepis (Fiumara di Atella), Siricum (Monte Sirico), Ciliam (Toppo Cillis) con gli antichi centri di Caldaie (San Cataldo) e Armigeri (Armaterra) proseguiva per la sorgente Aqua saleria (Pietra del Sale) oltre il Montem de Anglona (Monte Carmine ?) verso Sacti Angeli (Sant’Angelo) e Sacti Nicolai de Castania (S. Nicola) nei territori di Casalis Asperis e Montis Marconi “procedentur de serra ad serram supra Casalis Rivinegri (Rionero in Vulture) per viam Montis Milievensis”.
In quest’area erano state istituite difese regie affidate in cura al “magister forestarum”. Presso il Palatium regium Sancti Gervasii, Carlo d’Angiò (Registro della Cancelleria Angioina – 10 luglio 1279) conferisce al milite Ugone di Beaumont il titolo di “maestro di tutte le difese”. In un documento del 1278, Carlo I dà ordine al suo ufficiale di controllare ed annotare i luoghi sui quali “le giumente delle aratie possono pascolare senza danno per le nostre cacce e i nostri divertimenti”. I Registri della Cancelleria Angioina riportavano gli ordini impartiti da Carlo II e Carlo VIII ai castellani di Lagopesole e San Gervasio che “debbono in quelle difese permettere il “libero pascolo e l’acqua agli animali delle regie razze di Puglia, seguiti da cani mastini” facendo divieto di “vendere abusivamente l’acqua riservata soltanto agli animali di Regia Corte”.
Oltre alla “marescalchia” delle razze della Capitanata, Spinazzola e Laterza era rinomata quella di San Gervasio, ove pascolavano le regie razze pugliesi. A San Gervasio era abbinata la domus di Lagopesole, dove il re, i principi e i feudatari sostavano durante le pause della caccia ai cervi, ai caprioli ed ai cinghiali che abbondavano nei boschi circostanti. Per il suo arrivo a Lagopesole assieme alla regina Beatrice di Provenza, re Carlo I d’Angiò diede ordine di restaurare le scuderie di Lagopesole, forse visitando anche l’aratia di San Gervasio. Il termine “aratia” risale al francese antico “haraz” che indicava l’allevamento dei cavalli formato dalla mandria di giumente e di stalloni destinati alla riproduzione e alle cavalcature. Il termine francese giunse nell’Italia meridionale con i Normanni, ma solo nel periodo svevo venne sostituito con il termine “aratia” che indicava l’allevamento e l’insieme delle attività ad esso connesse, quali l’allevamento brado e stabulante, ove venivano praticate le tecniche riproduttive tramandate dagli studi e dalle osservazioni tra cui è da citare, per il periodo svevo, Hippiatria ovvero De medicina equorum di Giordano Ruffo, nominato da Federico II gran maestro dei cavalieri imperiali. Ruffo elencò le caratteristiche che dovevano avere i cavalli. Enunciò i segreti per l’allevamento, dalla nascita, alla cattura, all’ammaestramento, indicando i metodi per curare le principali malattie equine. Furono forse proprio di Giordano Ruffo le descrizioni del cavallo ideale, adatto alla caccia con il falcone, riportate nel trattato “De arte venandi cum avibus”.
Di grande interesse furono anche le opere di Bartolomeo da Messina, Mosè da Palermo, Bonifazio da Gerace e le opere successive di Lorenzo Rusio e Pietro dei Crescenzi, che diedero all’allevamento equino il carattere di vera e propria scienza. Presso le aratie, il magister aratiarum aveva il compito di redigere i registri delle regie razze. Carlo I d’Angiò, sconfitto Manfredi nella battaglia di Benevento nel 1266, nominò magister aratiarum di San Gervasio, Pietro d’Arezzo. Egli registrava e trasmetteva i “capitula et quaterni” in cui venivano segnate di volta in volta le commissioni, i mandati, le entrate, le uscite e l’inventario particolareggiato degli animali presenti nelle aratie, distinti per età, qualità, mantello, marchio, balzane, provenienza. Giustino Fortunato ne “il Castello di Lagopesole” annota come un Florio da Venosa (quasi tutti gli atti di San Gervasio si compiono in Venosa) è pronto ad eseguir ordini sovrani mentre Petrus de Aresio, forse lo stesso magister aratiarum di San Gervasio destituito o decapitato per aver congiutato contro il re.
Oltre alle “marescalle” (scuderie), le aratie comprendevano aie, spiazzi per la doma, recinti, iazzi, boschi, prati e luoghi per il maneggio dei cavalli destinati esclusivamente alla guerra o idonei ad essere cavalcati. Le fonti documentarie angioine indicano la tipologia costruttiva delle “marestalla” con i particolari costruttivi necessari per la buona tenuta dei cavalli. All’amministrazione delle “marescalle” presso la Regia Curia era deputato il magister marescalle al quale era affidato la tenuta del quaderno degli animali. Lo Statutum Iumentorum razionalizzava, invece, la produzione equina, stabilendo buone regole per la tenuta degli animali. Ad esempio, veniva pescritto che su ogni centinaio di giumente, di cui il 20 per cento circa partoriva ogni anno, la loro “figliolanza fosse sempre costituita da ¼ di femmine in più dei maschi”. Molta attenzione veniva dedicata alla fisiologia e conoscenza degli animali, all’attitudine alla riproduzione al secondo anno, alla durata della gravidanza (11 mesi), alla capacità riproduttiva (fino al 12° anno), all’inizio della gestazione (mese di marzo), al numero di stalloni per giumente (5 stalloni per 100 giumente), etc.
Il magister aratiarum segnalava annualmente al magister marescalle, un dirigente di grado superiore, probabilmente un militare, il numero delle giumente gravide, quello dei parti riusciti e degli aborti, il sesso e le altre qualità dei puledri nuovi nati, le eventuali vendite e i nuovi arrivi, con tutti gli oggetti pertinenti. L’inventario, compilato in quattro copie, veniva inviato all’ufficiale subalterno dell’aratia, al magister rationales presso la ragioneria centrale e al magister marescalle presso la regia curia. Quest’ultimo teneva una sorta di libro genealogico dei cavalli secondo l’uso in voga sin dal XII secolo, che si rifaceva alla linea paterna dei cavalli, mentre gli arabi registravano il “pedigree” secondo la linea materna.
Negli Statuta Officiorum si delineavano le mansioni del marescalcus, ovvero del fabbro ferraio della maristalla, da non confondere coi “marescalli”, quest’ultimo incaricato anche dell’alto comando delle truppe in caso di guerra. I Registri della Cancelleria Angiona per la “marescalchia” di San Gervasio contengono importanti informazioni quali i restauri compiuti da Vitale Fusco da Venosa, il quale con la spesa di sette once d’oro e nove tarì e mezzo rifece il tetto delle stalle per ospitare le razze equine “divenute rinomatissime ed eccellenti“ per le quali furono redatti appositi statuti.
Le scuderie, di cui sono ancora visibili il porticato per il ricovero dei cavalli presso il castello di Palazzo San Gervasio, vennero affidate alla custodia di Nicola Frezzario di Venosa, ex scudiero di Manfredi, passato poi alle dipendenze degli Angiò, proprio per le grandi capacità degli svevi di allevare cavalli che, a confronto di quelli angioini piccoli e macilenti, erano invece perfetti. Alla marescalchia di San Gervasio, re Carlo impartì ordini circa la buona conduzione dell’allevamento, indicando come per “centocinquanta cavalle”, occorressero due “giumentari” “per ogni coppia di stalloni“ e fosse affidato uno “scudiere”.
Le cavalle, marchiate al fuoco “cum merco Curie ad florem de lysa“ (con il marchio del fiordaliso, ovvero il giglio regale di Francia), ordinò che fossero seguite al pascolo brado da cani mastini “ad venationem non apti e soggette ad abortire in asperitate temporis yemalis”. Presso le “aratie“ esistevano rigide divisioni del lavoro, specializzazioni di compiti e funzioni. I “senescalcus“ amministravano il frumento, l’orzo, i ferri ed ogni altro attrezzo necessario alla stalla dell’aratia. Da un documento angioino (Reg. Ang. XIV) si deduce l’esistenza di uffici centrali per gli allevamenti di Calabria, Basilicata e Capitanata retti da “3 prepositi seu magisteri e da tre notari”.
Dai documenti emergono anche le razze regie allevate dai d’Angiò, quali la razza murgese e probabilmente, anche se limitatamente, la razza araba giunta in Italia all’epoca delle crociate. La razza murgese veniva considerata nel periodo svevo la migliore. Il murgese presenta un mantello baio scuro-morello. Veniva allevato allo stato brado in luoghi aridi e pietrosi al fine di conferire durezza ed agilità agli zoccoli. Il cavallo era considerato uno strumento bellico e come tale i sovrani spesso ne vietavano l’esportazione e il commercio. Il Registrum federiciano informa come agli obblighi della levata feudale o “servitium” di Ruggero II, i baroni e i feudatari dovessero aver sempre pronti e efficienti cavalli ed armi. In caso di negligenze potevano perdere i benefici e persino le terre. All’occorrenza dovevano inviare gli animali, se ordinato dal re. Esplicito in proposito è l’ordine impartito il 12 aprile 1240 a Madio e Palmerio di Potenza, i quali inviarono giumente alla razza federiciana nuper facta in Apulia (istituita da poco in Puglia) sotto la cura di Gentile di Castanea.
In tempi diversi sempre Madio di Potenza pagò il corrispondente in denaro, pari a 30 once d’oro per 12 giumente e Palmerio per 11 giumente pagò 28 once d’oro. Durante il periodo angioino il prezzo dei cavalli crebbe di molto, giungendo per un puledro sino a 4-7 once d’oro. Sotto il Regno di Carlo I, i cavalli destinati all’esercito costavano 12 once; diventarono 50 once durante il Regno di Carlo II. Per fare un termine di paragone, ci volevano nel Regno di Carlo I sino a 7 vacche per un cavallo e sino a 15 vacche per un cavallo durante il regno di Carlo II. Del cavallo meridionale, rinomato e richiesto, in Italia e in Europa, veniva fatto commercio durante il periodo angioino a Napoli e il sovrano ne controllava direttamente le destinazioni. Anche la tenuta di un cavallo aveva costi proibitivi. Nelle Costitutiones, Federico II stabilì che il pascolo perimetrale dei cavalli nei campi coltivati non dovesse prevedere alcun risarcimento per il proprietario del campo, mentre per le mandrie era vietato il pascolo nei campi, punibile con la pena di morte.
Tale disciplina restò immutata anche durante il periodo angioino. Solo sul finire del XIV secolo venne introdotto il “corsiero napolitano”, allevato in tutte le province del Regno di Napoli. Questo veniva incrociato con il “salernitano” allevato nella Piana del Sele e nel casertano sino al periodo Aragonese, rispettivamente nelle “cavallerizze” di Persano e Marcianise. Veniva allevato principalmente per la guerra, selezionando gli stalloni dalle “razze” tenute allo stato brado. Un quadro degli allevamenti venne redatto nelle epoche di dominio spagnolo in Italia da Pasquale Caracciolo che nella sua monumentale opera “La gloria del Cavallo” (1566) evidenzia come nella “Basilicata, onde fa Horatio mentione del suo Cavallo da Satriano, sta una perfettissima razza del Signor Principe d’Ostigliano, che produsse quel Baio Corona Balzano della fronte, e del piè della staffa, che fu veramente miracoloso posseduto il Signor Duca di Martina mio fratello, Don Ferrante Gaietano, il Signor Giovan Iacopo Dentice, Il Signor Giovanni Caracciolo di Marsico, il Signor Thesoriere di Grottula, i Monaci di San Lorenzo della Padula, Antonio da Sirino el Signor Conte di Potenza, daonde uscì quel sauro saltatore, che fea spavento a molti cavalcatori, donato al reverendissimo cardinale Farnese: e quel sainato balzante, che solo esso gran siniscalco ardiva cavalcare, consumando sproni lunghi”.
- Articolo e foto di Antonio Bavusi tratte dall’articolo: “Allevamento Equino nel Medioevo in Basilicata“. In Basilicata Regione Notizie, Anno 2010. * © Articolo per Pandosia, 2018
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