L’Arco di Ladislao a Tricarico. Pellegrini giubilari e scisma d’Occidente nel XV sec.
di Antonio Bavusi (Febbraio 2023) – Creative Commons Attribuzione – Non commerciale citando la fonte

L’abito del pellegrino in una stampa antica

Monaco fabbricante di “paternoster” (da una stampa dell’epoca)

I papi protagonisti dello scisma d’Occidente. A sinistra, papa Bonifacio IX (nativo di Casarano – LE); a destra l’Antipapa avignonese, Clemente VII

I regnanti pretendenti al trono del regno di Napoli durante lo scisma d’Occidente: da sinistra a destra, Luigi I d’Angiò, Luigi II d’Angiò, Ladislao Durazzo

6) Grifone; 5) Toro; 4) Gru; 3) Fauno

2) Putto alato; 1) Uomo barbuto; D)Leone alato – S.Marco; C) Toro – Bove – S. Luca

B) Aquila – S.Giovanni; A) Angelo – S.Matteo; 1) Ippocampo; 2) Gerione

Il demone “Gerione”. Similitudine del Gerione rappresentato sull’Arco di Ladislao di Tricarico (a sinistra) e la miniatura tratta da manoscritto della Commedia di Dante Alighieri del XV secolo (a destra). Per l’iconografia leggere la descrizione nel testo

3) Rosa a cinque petali; 4) Donna rannicchiata; 5) Cane levriero; 6) Drago alato

7) Rana; 8) Toro
Cenni sulle strutture fortificate e commerciali a Tricarico
Tricarico faceva parte del gastaldato longobardo di Salerno. Divenne successivamente castrum fortificato bizantino. Con l’arrivo dei Normanni, la città venne dotata di una possente torre, rafforzando la difesa con torri minori, mura e porte perimetrali. Con Roberto il Guiscardo, Tricarico faceva parte della Contea di Montescaglioso, divenendo feudo autonomo nel 1143 con sede di comestabilia, ovvero di un comando militare a salvaguardia del territorio. Il suo primo conte fu Gosfrido, seguito da Ruggiero, poi da suo figlio Giacomo di Sanseverino, nobili di Tricarico fino all’inizio del XIV secolo, allorquando con lo scisma di occidente i Sanseverino divennero nemici del pretendente al trono del regno di Napoli, re Ladislao. La rocca longobarda, situata nella parte più alta dei tre monti, è raffigurata della stampa del 1618 da F. Braun e G. Hogemberg. Costituiva, insieme alle mura, alle torrette minori, ai camminamenti, un sistema difensivo che mantenne la sua funzione difensiva fino a metà Seicento. L’impianto urbanistico di Tricarico è stato fortemente condizionato nel suo sviluppo dall’architettura militare con un sistema difensivo dotato di porte: Porta Fontana, con archi a sesto acuto e a tutto sesto, risalirebbe al XIII secolo. E’ ubicata sulla via che conduceva alle fontane pubbliche. Porta Monte o delle “Burzarìe” (forse si trattava della via delle bracerie ove si preparava carne per gli avventori). Era ubicata nei pressi dell’antica dogana della città, attraversata da commercianti e pellegrini che si recavano in Terra Santa dai porti pugliesi. Porta Saracena, databile intorno al sec. X, è costituita da un arco a tutto sesto, affiancato, nei secoli successivi, da un’altra apertura più piccola, sempre con arco a tutto sesto. Essa dava accesso al fortilizio che comprendeva strutture di difesa e mura perimetrali. Attiva durante il periodo bizantino, perse importanza nei secoli successivi. Porta della Ràbata è databile al X sec. Consentiva l’accesso all’omonimo quartiere popolare, abitato da diverse etnie dedite ad attività di allevamento, concia, commercio e vendita. Era protetta da una piccola torre. Porta delle Beccarie (XIII – XIX sec) è ubicata in piazza Garibaldi lungo i resti del muro di cinta. La Porta delle Beccarie permetteva l’accesso alla piazza e alle botteghe, la potega della beccaria, la spetiaria delli Aulari, le botteghe di bardai e dei cauzolari, le ferrarie o forge, i fondaci per forastieri vandarellari, i forni e le osterie, la taverna di basso (o taverna grande), la taverna di sopra con stalla e pagliera per i cavalli con ingresso proprio di fronte alla porta cittadina. Porta Vecchia, indicata sulla stampa di Tricarico del 1605, è individuabile nell’attuale arco di re Ladislao. Il sito ha sicuramente subìto modifiche durante la metà del Cinquecento e la seconda metà del Seicento con la realizzazione, lungo il perimetro, di immobili di proprietà. Avevano sede alcune importanti industrie. Oltre all’allevamento e alle produzioni cerealicole, esistevano industrie per la lavorazione delle pelli (fabbrica di Coserie e Corami, particolari pelli lavorate a scopi decorativi), dei cuoi, della lana, della lavorazione dell’argilla, etc.
Articolo in fase di inserimento
L’Arco di Ladislao a Tricarico
L’Arco di Ladislao, così denominato, secondo alcuni autori è stato realizzato nel XVI secolo e corona una delle porte più antiche di Tricarico denominata “Porta Vecchia”, così indicata sulla carta di pubblicata all’inizio del 600. Ingiustamente trascurato e destinato oggi a strada per i veicoli a motore, un tempo costituiva uno degli ingressi principali per viandanti, pellegrini, mercatori e cavalieri diretti alla parte alta della città. Testimonia come Tricarico costituisse uno snodo viario strategico per il commercio e per gli eserciti, situata tra le valli del Bradano e Basento. Passava il braccio di collegamento tra le vie Appia e degli Stranieri che metteva in collegamento l’Adriatico, lo Jonio e il Tirreno. Secondo Concetto Valente, direttore del Museo Archeologico di Potenza, l’arco denominato “trionfale” venne realizzato nel 1383, in occasione della visita di Ludovico d’Ungheria in Italia (Cfr scheda Catalogo Generale Beni Culturali, 1975). Ma la cronologia, le vicende storiche e l’iconografia ricollocherebbero la realizzazione al ventennio successivo, forse alla prima metà del XV secolo. L’arco di “Ladislao” riporta 18 conci in pietra con immagini simboliche ispirate al bestiario medievale scolpite sull’intradosso con mostri alati e volti, con l’intento di proporre l’eterna lotta tra il bene e il male, indicando la via della salvezza nella professione della fede in Cristo, nella lettura delle sacre scritture e con la preghiera. Sui conci è visibile una fascia di larghezza discontinua sull’intradosso. Questa discontinuità indurrebbe ad ipotizzare una ricollocazione dei vari pezzi che componevano l’arco non secondo la successione originaria. Forse avvenne durante i lavori del seminario e dell’attiguo vescovado avvenuti nel XVI secolo, riposizionando in una nicchia che sormonta l’arco la statua della Madonna col bambino che, secondo alcuni studi, è databile al XIV secolo e, secondo altri autori, databile tra il XIII e il XIV secolo (Cfr In scheda Catalogo Generale Beni Culturali, 1975) . L’arco in pietra era limitrofo all’ospedale gerosolomitano di San Giovanni, che sorgeva attiguo alla Porta Vecchia e al “castello del Principe”. L’ospedale accoglieva viandanti e pellegrini palmieri (verso la Terra Santa) e Romei (diretti a Roma). L’ospedale è indicato sulla carta seicentesca situato lungo la piazza o Strada del Campanaro (forse la torre campanaria dell’originaria struttura della cattedrale), con la cappella SS. Pietro e Paolo (sec. XII) che divenne chiesa del monastero delle Clarisse, fondato nel 1333 dal re di Napoli Roberto d’Angiò e da Sveva de Bethsan, contessa di Tricarico e moglie di Tommaso Sanseverino, conte di Marsico. Sull’arco di Ladislao non esistono al momento fonti documentarie che attestino il committente e l’esecutore lapicida dell’opera. Ma un particolare situato sul piedritto destro dell’arco, potrebbe far ipotizzare l’epoca di costruzione tra il XIV e il XV secolo, forse in occasione del giubileo tenutosi per disposizione di papa Bonifacio IX nel 1400, durante lo scisma d’occidente. La successione al trono di re Carlo III, vide Ladislao, in opposizione a Luigi II d’Angiò incoronato re di Napoli nel 1389 dall’antipapa Clemente VII. Ladislao venne incoronato re di Napoli da papa Bonifacio IX il 29 maggio 1390, per ribadire l’autorità dei papi Roma su quelli di Avignone. Ma l’incoronazione inaugurò invece un travagliato periodo di guerre seguite da pestilenze, con le opposte fazioni angioine contendersi il regno, tra le quali la famiglia Sanseverino, signori di Tricarico. La tradizione orale che attribuisce la denominazione arco di Ladislao potrebbe avere dunque fondamento, in attesa che documenti e fonti storiche attestino questa ipotesi.
Il pellegrino dell’arco di Ladislao
Il particolare situato sul piedritto destro della facciata dell’arco mostra la figura di un pellegrino che sovrasta una testina e un fiore (a destra è presente invece solo una testina e un fiore). I pellegrini erano riconoscibili per il loro particolare abbigliamento, oggetto di benedizione prima della partenza. Se osserviamo questa immagine, paragonandola ad una miniatura del XIV secolo tratta dalle Cronache di Giovanni Sercambi, è possibile distinguere la veste chiamata appunto “pellegrina”, legata in vita dal “cingulum”, una cintura o un semplice cordone da frate. Sopra la veste erano cuciti ritagli di stoffa che coprivano petto e spalle, chiamati “scapolari”. In testa è visibile il cappello a larghe falde, chiamato “petaso”. I pellegrini durante il cammino portavano un lungo bastone con punta in metallo, chiamato “bordone”, per difendersi dai cani, dai lupi e dai malfattori. Al bordone era solitamente appesa una zucca vuota o una sacca. Il pellegrino raffigurato a Tricarico mostra la “zucca” indossata a tracolla. Aveva la funzione di borraccia per l’acqua, mentre una piccola sacca chiamata “scarsella” era appesa al bordone, dove veniva chiuso il cibo utile per una giornata di cammino. Il pellegrino stringe nella mano sinistra il “paternoster” così chiamato il rosario nel medioevo, usato per contare con le dita le palline in legno infilate lungo una cordicella in gruppo di quindici (Ave Maria) seguita da una pallina più grande (Pater Noster” terminante con la croce. Il rosario veniva recitato lungo il viaggio in onore della Madonna (centocinquanta Ave Maria intercalate da un Pater Noster ogni quindici). Il pellegrino porta ai piedi particolari calzature chiamate “alpargata” (erano sandali aperti con suola in corda o in più costoso cuoio, tenute ferme alla caviglia da lacci). E’ visibile il copri calzamaglia, dal ginocchio alla caviglia, per proteggersi da ferite procurate dalle spine, dalle pietre appuntite e dalle morsicature dei cani randagi. Il bassorilievo dell’Arco di Ladislao confermerebbe l’ipotesi che possa essere stato realizzato in occasione del giubileo indetto per celebrare il pellegrinaggio a Roma dei “giubilari”, durante il breve regno di Ladislao (1386-1414), successo al padre Re Carlo III assassinato a Buda. Forse fu proprio Venceslao Sanseverino a volerlo realizzare, con l’intenzione di riappacificare un regno diviso in fazioni e conteso tra i pretendenti al trono, Ladislao e Luigi II d’Angiò, quest’ultimo appoggiato dalla potente famiglia Sanseverino e dallo stesso Venceslao, conte di Tricarico dal 1348 al 1405, epoca della sua uccisione per ordine del re, nonostante Ladislao avesse sangue dei Sanseverino (sua nonna era Margherita Sanseverino, madre di Carlo III). Prima del giubileo del 1400, dall’Europa e dal Nord Italia venne promossa una grande marcia per la pace. I cosiddetti “Penitenti Bianchi” nel 1399 mossero in pellegrinaggio alla volta di Roma dove ad attenderli era papa Bonifacio IX che, seppur diffidente nei loro confronti, si rese conto del sincero desidero di pace e fratellanza invocato. Anche dal sud, passando per Tricarico, migliaia di pellegrini giunsero a Roma invocando la pace nel regno, nonostante l’Italia fosse divisa in signorie perdendo il predominio nel Mediterraneo, con gli interessi commerciali spostatisi in Francia, Spagna, Germania e Inghilterra. Il movimento dei bianchi nacque in un clima europeo travagliato, dove si sviluppò la lotta interna al papato che aveva portato dal 1307 al 1377 alla cosiddetta “Cattività Avignonese” e allo Scisma di Occidente. I Penitenti Bianchi invocavano “misericordia e pace” con processioni penitenziali, fustigandosi e portando il crocifisso. Il miracolo della Madonna dell’oliva (o dell’ulivo), avvenuto nel settembre-ottobre 1399 ad Assisi, rievocava il primo passaggio del corteo di Bianchi nella città di San Francesco. La Madonna sarebbe apparsa a un bambino, indicandogli di esortare tutta la popolazione a seguire il movimento e unirsi in processione di penitenza verso Roma.
I simboli dell’arco di Ladislao
Dal divino nell’antichità a creature reali e allegorie nel Medioevo. Durante i secoli XV e XVI, i simboli venivano interpretati come presagi, perlopiù funesti. L’arco di Ladislao ne contiene 18, alcuni marcatamente funesti e di avvertimento contro i falsi profeti e i falsi re. Altri simboli indicano auspici di riconciliazione e di pace sotto il segno di Cristo e del suo insegnamento. L’ignoto lapicida forse è stato ispirato da forme e decorazioni presenti in altri contesti religiosi, come ad esempio presso il cosiddetto zooforo del battistero del duomo di Parma (XI – XII secolo) o alle miniature contenute nei primi manoscritti della Commedia di Dante Alighieri circolanti presso alcune corti. Sulle quattro pietre della volta dell’arco di Ladislao sull’intradosso sono rappresentati i simboli degli Evangelisti. Il cosiddetto “tetramorfo” (dal greco antico τετρα, tetra, “quattro”, e μορφή, morfé, “forma”) raffigura gli Evangelisti: A) Uomo alato o angelo (Matteo), poichè il suo vangelo inizia elencando gli antenati del Messia; B) Leone (Marco), il cui vangelo inizia con la predicazione di Giovanni Battista nel deserto, dove si trovavano le bestie selvatiche; C) Toro o bove (Luca), il cui vangelo inizia con la visione di Zaccaria nel Tempio, ove si sacrificavano tori e pecore; D) Aquila (Giovanni), poiché il vangelo si apre con la contemplazione di Gesù, figlio di Dio. Il tetramorfo contiene la visione veterotestamentaria del profeta Ezechiele e quella neotestamentaria dei “quattro esseri viventi” dell’Apocalisse. In sequenza destra discendente lungo l’arco fino alla base figure zoomorfe, decorative e di animali: 1) Uomo barbuto. Simbolo di protezione dalle sventure e portatore di fortuna; 2) Putto alato. Figura che presiede alla realizzazione dell’opera e l’abbellisce; 3) Fauno – uomo barbuto e con lunghe orecchie a punta. Fauno a guardia della porta; 4) Gru. Uccello che allude al tempo che passa nel segno del divino del vecchio testamento. Nel libro VIII il profeta Geremia descrive il tempo dell’uomo alludendo alle migrazioni degli uccelli: “anche la cicogna conosce nel cielo le sue stagioni; la tortora, la rondine e la gru osservano il tempo quando debbon venire, ma il mio popolo non conosce quel che l’Eterno ha ordinato”; 5) Toro. Nel II secolo d.C. Tertulliano scriveva del toro: “Che cosa è questo animale dalla possente forza. Questo mostro favoloso. Questo toro misterioso è Gesù Cristo, giudice terribile per taluni, redentore pieno di mansuetudine per gli altri. In ambito cristiano, l’animale subisce delle metamorfosi che, a seconda dei casi, o secondo il modo con cui viene rappresentato, diviene il simbolo di Cristo o di Satana. Il toro, ad esempio, messo in relazione con scene apocalittiche, è rappresentato in alcune miniature medievali sotto le forme di Satana con ibridi e tratti zoomorfi: testa di leone, corna di toro, ali di pipistrello e petto di aquila, o con testa di gallo, una variante del basilisco. 6) Grifone. E’ una creatura dal corpo di leone e la testa d’aquila che per i Greci era legato al culto solare. Simboleggiava la custodia e la vigilanza ma anche la perfezione e la potenza. In quanto unione tra animale terrestre e animale dei cieli, simbolo della doppia natura, terrestre e divina, nel Medioevo era associato a Gesù Cristo. ll grifone è l’animale che traina il carro di Dante Alighieri nel Purgatorio (Canto ventinovesimo vv. 88-120). In sequenza sinistra discendente lungo l’arco fino alla base sono rappresentate le seguenti figure ibride zoomorfe, decorative e di animali: 1) Ippocampo. Rappresentava la forza salvifica che porta alla vita eterna secondo la tradizione giudaica; 2) Gerione – chimera alata o manticora coronata. E’ un demone muto, apparentemente inoffensivo, ma dalla natura falsa, ingannatrice e infida, posto a guardia del “burrato” che porta il suo nome. nella “Commedia” di Dante Alighieri accompagna il viaggio del “pellegrino” Dante assieme a Virgilio. Sosta tra l’ingresso della porta del VII Cerchio (dannati omicidi) sull’orlo del burrone dell’VIII Cerchio, il Malebolge. Viene evocato da Dante che fa pendere nel burrone la cintura che gli lega la vita (il simbolismo rievoca i pericoli della corruzione). Presenta il corpo leonino e testa umana, dal volto ingannevole del giusto. Dante ne traccia la caratteristica “…ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti e rompe i muri e l’armi!. Ecco colei che tutto ‘l mondo appuzza”. Le sembianze sono quelle descritte da Giovanni nel terzo libro dell’apocalisse, allorquando il serpente precipita nell’abisso, facendo venir fuori esseri simili a locuste “…queste cavallette avevano l’aspetto di cavalli pronti per la guerra. Sulla testa avevano corone che sembravano d’oro e il loro aspetto era come quello degli uomini. Avevano capelli, come capelli di donne, ma i loro denti erano come quelli dei leoni. Avevano il ventre simile a corazze di ferro e il rombo delle loro ali come rombo di carri trainati da molti cavalli lanciati all’assalto. Avevano code come gli scorpioni, e aculei. Nelle loro code il potere di far soffrire gli uomini per cinque mesi. Il loro re era l’angelo dell’Abisso, che in ebraico si chiama Perdizione, in greco Sterminatore». (Giovanni, Ap 9,7-11). A Tricarico, il lapicida anonimo del XV secolo, potrebbe essersi ispirato ad una rappresentazione di “Gerione” della Divina Commedia di Dante, allegoricamente rappresenta con la testa barbuta e coronata. Nella Divina Commedia Gerione è un mostro caratterizzato da un corpo chimerico costituito da volto di uomo, zampe pelose di leone, corpo di serpente, coda di scorpione e con le ali-branchie a forma di pipistrello. Straordinaria è la similitudine con il disegno fatto da uno degli illustratori della Divina Commedia nel 1491 edita con il commento di Cristoforo Landino (Firenze, 8 febbraio 1424 – Pratovecchio, 24 settembre 1498) eseguite dagli incisori di legni xilografici, Bernardino Benali e Matthio da Parma, forse da questi ripreso dalla figura di un manoscritto trecentesco. Il Gerione rappresentato nell’Arco di Ladislao è segno inequivocabile della committenza colta a Tricarico, forse arricchita dalle letture delle “Historiae Hierosolymitanea” di Fulcherio di Chartres che, nel XII secolo, aggiunge la caratteristica delle ali alla descrizione classica della Manticora, considerata “mangiatrice di uomini” e capace di uccidere con i dardi della sua coda da scorpione; 3) Rosa a cinque petali. Rappresentava la rosa del martirio. Cinque come le piaghe di Cristo. Il numero cinque scomposto in “quattro più uno”, rappresenta un ciclo completo, quindi morte e nuovo inizio, cioè la vita eterna. Il simbolo della rosa a cinque petali rievoca il culto delle Cinque Sante Piaghe, riconosciuto dalla Chiesa (nel Vangelo le Sante Piaghe sono citate da San Giovanni, descritte dall’apostolo San Tommaso e successivamente da Gesù stesso). 4) Donna rannicchiata. La donna rappresentata a Tricarico sembra nascondere il suo sguardo e coprire la sua nudità, quasi un monito alla donna a manifestare interesse sessuale mostrando il proprio corpo e utilizzare in tal senso il proprio sguardo; 5) Cane levriero. ll cane è simbolo di fedeltà, vigilanza, amicizia e attaccamento. Il levriero rappresenta l’eleganza e la velocità nell’inseguire le proprie prede. Per testimoniare in modo più chiaro la fedeltà al suo padrone, l’immagine riprodotta nell’arco mostra il cane con il collare, ben evidenziando la vitalità e l’eccitazione con la coda alzata e gli attributi del suo membro; 6) Drago. Nei testi sacri è identificato con Satana sino a far coincidere il simbolo con il significato; le sue dimensioni sono enormi, il collo lungo, la testa è crestata, la lingua biforcuta è quella del serpente, il fiato è velenoso o infuocato, le due zampe anteriori sono artigliate e la lunga coda è serpentiforme, capace di soffocare la vittima. 7) Rana. Nel Libro dell’Esodo della Bibbia, la seconda piaga che Dio inviò al faraone d’Egitto per avvertirlo di lasciar liberi gli Ebrei, si descrive come dal Nilo imputridito un’orda di rane invase il palazzo del faraone. Quando le rane morirono, la puzza dei loro cadaveri attraversò tutto il paese. La rana del bestiario medievale e rinascimentale, se non velenosa, è un animale diabolico, spesso raffigurata nell’arte come simbolo di eresia, disgusto e dannazione. 8) Toro. Questa immagine è presente due volte nel ciclo dei 18 bassorilievi, quasi a voler rappresentare l’emblema della città di Tricarico. Il toro che campeggia sui tre monti della città fu scelto dalla comunità come stemma nel 1491 in occasione della realizzazione del convento (Cfr in Scheda Catalogo Generale Beni Culturali, 1975).
Tricarico durante le dispute per il trono del regno di Napoli e lo scisma d’occidente
Nel XIV secolo, cominciarono a crearsi conflitti tra i nobili Sanseverino e la Santa Sede sulla titolarità dei beni dell’Ordine Melitense a Tricarico, tra i quali l’ospedale, dipendente dalla Commenda di Grassano. In una lettera del 4 giugno 1368, il papa francese Urbano V aveva chiesto a Tommaso Sanseverino, conte di Tricarico, di restituire la precettoria di Grassano al Priore di Barletta: “4 giugno 1368 – N. V. Thomae de Sanctoseverino, Militi Tricaricensis, mandat ut praeceptoriam de Grassano, Hospitalis Sancti Johannis Jerosolimitanae, restitui faciat Priore Barolo” (Cfr N.Montesano, Grassano Melitense, memoria e territorio. Edizioni CSDSD, novembre 2018). La concessione dell’ospedale di San Giovanni della Croce fu fatta con atto di assegnazione in favore dei canonici nell’anno 1373″ Concessio pro hospitale sancti Joannis de Cruce cum instrumentum assignationis dicti hospitalis ad favorem canonicorum sub anno 1373. Essa attesta nel Medioevo “l’esistenza a Tricarico di uno di quegli ospitia o xenodochia al servizio di pellegrini e crociati, poi anche di ammalati, documentati pure in altre zone lucane, disposti lungo le vie di transito verso l’Oriente e la Terra Santa e per lo più gestiti da quegli ordini cavallereschi che furono presenti pure nel nostro centro tramite le grance della SS. Trinità e di S. Maria Maddalena. “Sul finire del XVI secolo abbiamo notizia di un ospidale presso chiesa di S. Maria dei Martiri, di un hospitium de Marchetta in prossimità del monastero di S. Francesco e di un altro ospedale, ormai diruto nel 1588, forse identificabile col precedente per la sua vicinanza allo stesso convento e alla chiesa dei SS. Sebastiano e Giacomo. Acquista, quindi, importanza nella città il sacro ospitale, denominato poi di S. Giovanni della Croce per un legame col passato, annesso alla confraternita di S. Maria del Lettorio con Bolla di Paolo III del 1543. La sua dislocazione a fianco alla Porta Vecchia avvalora, peraltro, insieme al predetto hospitium de Marchetta che sorgeva nei pressi della Porta Beccarie, il protrarsi di quella consuetudine medievale per cui gli hospitalia sorgevano extra moenia, prope fossatum o comunque presso gli accessi cittadini, per facilitare specie di notte il ricovero e la cura dei viandanti. Il conflitto sui beni dell’Ordine cavalleresco e del sacro ospitale, preposto all’assistenza dei poveri e degli infermi della città, nei periodi di gravi pestilenze sarebbe stato affiancato dai lazzaretti, come i due istituiti dal vescovo Pier Luigi Carafa jr., l’uno nel convento dei Cappuccini e l’altro fuori dell’abitato, dotati di vettovaglie e medicamenti, per isolare gli ammalati durante la grande peste che avrebbe colpito anche Tricarico nel 1657”. (Cfr C.Biscaglia, La confraternita di S.Maria del Lettorio e l’ospedale di San Giovanni della Croce a Tricarico. In rassegna Storica Lucana, n.21. Ed. Osanna, Venosa, 1995).
Le controversie, iniziate con Tommaso Sanseverino, continuarono con Venceslao Sanseverino, nemico di Ladislao, pretendente al trono del regno di Napoli contro la fazione angioina e l’antipapa Clemente VII durante lo scisma d’occidente. L’arco di Ladislao potrebbe risalire a questo periodo, per coronare una pace solo invocata ma mai realizzata tra le opposte fazioni angioine presenti anche a Tricarico. La figura di Venceslao Sanseverino (1355 – 1405) è emblematica per le sorti del regno e per le vicende legate allo scisma d’occidente. Già nel 1383, a 23 anni, il conte di Tricarico venne fatto oggetto di una citazione a comparire assieme ad altri nobili emanato dal gran giustiziere per “crimen lese maiestatis” contro Carlo III, incorso forse nelle vicende legate al controllo del regno durante un periodo turbolento, caratterizzato da aspre divisioni legate alla successione al trono, con Carlo III che fece imprigionare e poi uccidere la regina Giovanna I nel Castello di Muro, ove fu rinchiusa. (Cfr D.Passerini. Gli Angiò-Durazzo: la rappresentazione del potere. Tesi di dottorato, UNINA – Università di Avignone, A.A. 2019-2020). Succeduto al padre Ruggiero, morto nel 1348, con una sede vacante e forse amministrata dallo zio Tommaso, Conte di Montescaglioso, l’adolescente Venceslao sarebbe divenuto conte di Tricarico solo nel 1363, a soli 8 anni (lo attesterebbero due documenti riferiti al Monastero di Santa Chiara di Tricarico del 1372. In Bollettino Storico della Basilicata, di C.Biscaglia, il privilegio di Ludovico re d’Ungheria e di Sicilia e Venceslao Sanseverino conte di Tricarico – 1 Settembre 1383.Edizioni Osanna, Venosa, 1995). Venceslao fu fedele servitore della Curia Avignonese, come i suoi zii Tommaso, conte di Montescaglioso, capitano di ventura in numerose battaglie, e Ugo, Conte di Potenza, condividendone con essi il coinvolgimento in armi e la morte ad opera di Ladislao. Venceslao e Tricarico furono al centro delle più importanti questioni militari con il passaggio di eserciti armati diretti in Puglia a supporto di Luigi di Valois, ricoprendo egli stesso presso la corte importanti ruoli. “Ugo conte di Potenza, esperto diplomatico, infatti, già nominato Gran Protonotario all’epoca di Giovanna, era stato assieme al nipote Venceslao, consigliere collaterale di Luigi I d’Angiò; per la grande fiducia che tale sovrano aveva riposto in loro, Ugo e Venceslao insieme a pochi altri e alla moglie dello stesso re Maria di Blois, furono prescelti come suoi esecutori testamentari allorquando, sentendosi minacciato dalla pestilenza che imperversava, il 20 settembre 1383 aveva pensato di dettare a Taranto le sue ultime volontà. Nei primi tempi dello Scisma, Urbano VI aveva nominato Ugo Sanseverino membro del Consiglio papale e Tommaso senatore di Roma. Quest’ultimo, alla morte di Carlo III Durazzo, detenne il potere a Napoli col titolo di vicario generale in nome di Luigi II d’Angiò, fino al suo ingresso nella capitale, avvenuto nel 1390 col grande contributo dei Sanseverino. Il successivo 15 settembre 1394, lo stesso monarca emanava a Napoli un privilegio con cui ordinava al duca di Venosa, Venceslao Sanseverino, consigliere regio e collaterale, di fare esigere l’imposta sui fuochi per l’anno della III indizione e quella per il pagamento del soldo alla gente d’arme, secondo l’elenco dei debitori e delle somme dovute…” (In Bollettino Storico della Basilicata, di C.Biscaglia, Op.cit.). Grazie all’opera mediatrice di Bonifacio IX si tentò nell’ultimo decennio del XIX secolo di operare una rappacificazione tra le due fazioni, in occasione dell’anno Giubilare del 1400. “Tale iniziativa era anche il segno attraverso cui, con atteggiamento politico più distensivo e di revisione delle posizioni precedentemente assunte durante lo Scisma, sia verso il papa di Roma che verso i Durazzo, Venceslao si proponeva di allontanare da sé e dalla sua famiglia quelle colpevolezze di carattere religioso, denunciate da Urbano VI anche con la scomunica. A tal proposito va ricordato l’intervento di Bonifacio IX del 1 ottobre 1399 presso Nicola, arcivescovo di Rossano, già vescovo di Tricarico, per assolvere Venceslao Sanseverino, i suoi figli e vassalli ed anche altri feudatari, alcuni chierici secolari, ex abati ed esponenti dell’ordine di S. Basilio, perché erano stati fautori dello pseudo-papa Roberto…”. Nonostante i rapporti distensivi instaurati dal conte di Tricarico anche nei riguardi dei Durazzo divenuti sovrani di Napoli, con alcuni privilegi concessi da re Ladislao a Venceslao, Tommaso e Ugo Sanseverino, Ladislao intraprese nei loro confronti una feroce repressione, dovuta ad un nuovo presunto sostegno della famiglia che segretamente tramava contro di lui. Imprigionati a Napoli, il quarantottenne conte di Tricarico, Venceslao, i suoi zii Ugo, conte di Potenza e Tommaso conte di Montescaglioso, fautori dell’antipapa Clemente VII e sostenitori di Luigi II d’Angiò Valois, furono uccisi. I loro resti furono dispersi e lasciati in pasto ai cani. Per ripagare i propri sostenitori con due lettere Ladislao confermava i privilegi a Tricarico. “La prima lettera emessa a Napoli il 27 febbraio 1408, Ladislao, su petizione rivolta dall’università di Tricarico concesse di poter esigere, fissare e revocare i dazi dei forni e della macelleria. Il re confermava, inoltre, tutti i privilegi concessi in passato alla città dal defunto conte Venceslao Sanseverino, da sua figlia Polissena e dal defunto conte Ruggero, padre di Venceslao; inoltre, che gli abitanti di Tricarico potessero edificare nelle proprie case mulini, centimula e forni per il pane, abolendo un divieto dei precedenti signori; infine rinnovava alcune concessioni già accordate alla città con un suo precedente privilegio emesso a Napoli il 6 giugno 1405 e roborato da Gentile de Merolinis di Sulmona luogotenente del protonotaro del Regno. Ladislao proprio nel 1405 aveva sottomesso Tricarico, ribellatasi ai Durazzo con il suo signore, il conte Venceslao, sostenitore di Luigi II d’Angiò-Valois, grazie all’appoggio degli esponenti di una cospicua fazione locale: di questa, sicuramente, facevano parte coloro i quali, il 15 agosto 1410, furono esentati dal re dal pagamento delle sovvenzioni generali e dei sussidi delle collette sui beni mobili e stabili burgensatici che possedevano in Tricarico: si tratta di Nicola de Ricchardella, Petruccio de Malaclerica detto Russo de Barbiano, Angelillo de Oziano de Iovannella, Leonardo de Carfangiano, Giacomo Bonushomo, Lorenzo de Monczillo, Riccardo Sasso, Tommaso di Petruccio Aquaroli, Matteo di Blasio de Macthia, Antonio detto Catundo, Antonio di Giovannuccio de Bernardo, Raguccio de Spirnechia e Americo di Lorenzo de Topatio, tutti di Tricarico, i quali evidentemente avevano dimostrato fedeltà incondizionata al sovrano opponendosi ai Sanseverino. Nell’anno seguente il sovrano continuò a sostenere la città contro alcuni soprusi degli ufficiali della curia: il 7 novembre del 1411. infatti, con mandato emesso da Tripergole, la tutelava dai giustizieri della provincia di Basilicata, uti e capitoli che la predetta città da molto tempo aveva adottato. La fedeltà ai Durazzeschi, anche dopo la morte di Ladislao, avvenuta il 7 agosto 1414, ebbe effetti positivi per l’università: tutte le disposizioni del sovrano in suo favore furono confermate dal re Giacomo della Marca e dalla regina Giovanna II d’Angiò il 20 febbraio del 1416. Questi documenti, conservati nell’archivio dell’universitas, sono menzionati nel Liber iurium cittadino, compilato nel 1585 dal notaio Ferrante Corsuto e comprendente appunto l’elenco dei beni, delle scritture, dei privilegi, delle consuetudini e delle entrate fiscali della città. Qui, del resto, sono ricordati molti altri documenti emessi dalla cancelleria di Ladislao, come pure i privilegi comitali concessi a Tricarico dal conte Venceslao e dai suoi figli, Polissena e Ruggero”. (Cfr. G.Russo, Le più antiche pergamene del Fondo Putignani della Biblioteca Nazionale di Bari (1303-1429) con l’edizione di quattro documenti della cancelleria angioina. in «Studi di Storia Medievale e di Diplomatica», n.s. III (2019) – Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Milano – Bruno Mondadori. A pagina 283 del saggio di G.Russo è riportata la citazione relativa ai privilegi concessi da Ladislao).