La Carrera della Regina, nell’antico bosco sacro di Banzi
di Antonio Bavusi (Ottobre 2022) – Creative Commons Attribuzione – Non commerciale citando la fonte

La Carrera della Regina nei pressi dell’ex Lago Intagliata (oggi non più esistente), un tempo all’interno del bosco sacro di Banzi (Foto A.Bavusi)
“…me fabulosae Volture in appulo nutricis extra limen apuliae ludo fatigatumque somno fronde nova puerum palumbes texere, mirum quod foret omnibus, quicumque celsae nidum acherontiae saltusque Bantinos et arvum pingue tenent humilis Forenti, ut tuto ab atris corpore viperis dormirem et ursis, ut premerer sacra lauroque conlataque myrto, non sine dis animosus infans. vester, camenae, vester in arduos tollor sabinos [Orazio, 3.4.9-19] (Me fanciullo, sfuggito alla custodia della nutrice Pullia, che mi narrava le fiabe, vinto sull’apulo Vulture dal giuoco e dal sonno, le colombe ricoprirono di fronde novelle; sì da fare meraviglia a tutti, quanti abitano il ritiro dell’alpestre Acerenza e le balze bantine e i fertili terreni della bassa Forenza: che io dormissi con le membra sicure dalle velenose vipere e dagli orsi, e fossi coperto del sacro alloro e del mirto insieme raccolto, bambino coraggioso, non senza la protezione degli dèi. A voi caro, o Camene, a voi caro io mi reco fra i Sabini abitatori dei monti)
Il diritto dei poveri di Banzi ad avere una parte delle terre dell’abbazia è evidente. È evidente il titolo, perché gli usi civici nascono dalla natura delle cose e da speciali disposizioni dei sovrani precedenti [concordanza del diritto naturale e di quello storico]. Nascono dalla natura delle cose, perché la popolazione ha preesistito alla concessione: è possibile che la popolazione esistesse senza beni di sussistenza?… I Comuni fra noi sono nati col fatto, e senza carte di concessione” (Giuseppe Zurlo, 1846)
Il bosco sacro agli antichi popoli che abitavano il territorio di Banzi è stato distrutto nei secoli per profitto. La formazione di una nuova coscienza civile è imprescindibile dal riconoscimento dei diritti negati alla comunità e dal rispetto per i luoghi naturali originari.

Bosco di Banzi, nel vallone nei pressi di un sito ritenuto la Fons Bandusiae di Orazio (Foto M.P.Martinelli)

Fons Bandusiae. A sinistra come si presenta oggi; a destra (riquadri piccoli, come si presentava nel secolo scorso e in un disegno dell’incisore Carl Frommel nell’opera “Horazens Werken” (Le Opere di Orazio – anno 1829) “O fons Bandusiae, splendidior vitro,/dulci digne mero, non sine floribus,/cras donaberis haedo,/cui frons turgida cornibus/ 5primis et Venerem et proelia destinat./Frustra: nam gelidos inficiet tibi/ rubro sanguine rivos lascivi suboles gregis./Te flagrantis atrox hora Caniculae/10nescit tangere, tu frigus amabile/
fessis vomere tauris/praebes et pecori vago./Fies nobilium tu quoque fontium,/me dicente cavis impositam ilicem/15saxis, unde loquaces”
lymphae desiliunt tuae. Traduzione: “O fonte Bandusia, più trasparente del cristallo, degna di dolce vino puro, non senza fiori, domani riceverai in dono un capretto, al quale la fronte turgida per le prime corna preannuncia e Venere e battaglie. Invano: infatti ti macchierà i gelidi rivoli di rosso sangue, prole del gregge che gioca. Te l’ora insopportabile della Canicola infuocata non riesce a toccare, tu amabile frescura ai tori stanchi per l’aratro offri e al gregge vagante. Diventerai anche tu (una) delle fonti famose, visto che io canto il leccio che sta sopra incavati roccioni, donde mormoranti balzano le tue acque.”

Fontana rurale lungo la Carrera della Regina (anni Settanta)

Banzi, Grotte di Notargiacomo (nei pressi del sito ritenuto la Fons Bandusiae). Anticamente erano utilizzate come abitazioni e successivamente come ricovero per animali (Foto A.Bavusi)

Mappa dell’antico bosco di Banzi (anno 1624, tratta da Relazione Ricci, in M.Feo, Op.cit). Al centro, con la lettera A, è indicata l’Abbazia di Banzi; B – Territorio seminato; C – Fontana pel servizio del palazzo; D – Vigne di Genzano; E – Bosco bellissimo da vedere di circuito di 30 miglia; F – Massaria dell’Abbazia; G – Pascolo per pecore; H -Fontana murata ove si è perduta l’acqua; I – Fontana di Noia con abeveratoio; L – Strada che viene da Gensano di 6 miglia; M – Strada da Gensano a Spinazzola di 6 miglia; N – Strada che viene da Cirenza di 6 miglia; O – Strada da Forenza di 10 miglia; P – Strada da Castellotto o Casale di Palazzo va a Gensano di 7 miglia; Q – Strada da Palazzo a Monte Serico di miglia 6; R – Strada privata per la Massaria; S – fiume Basentello; T – non decifrabile; V – fiume Banzullo (Vanzullo). (Tratto da P. De Leo, Op.cit)

Carta Rizzi Zannoni (1807) indicante il “Bosco dell’Abadia”

Cartina rielaborata dall’autore sulla deforestazione del bosco di Banzi, avvenuta principalmente in tre fasi: nel medioevo, dopo il 1860 (aree colorate giallo/arancio) e negli anni compresi tra il 1900 – 1970 circa (in verde). Il bosco relitto dell’antico bosco sacro (il saltus bantino definito da Orazio) è indicato in celeste.

Area archeologica Monte Lupino (Banzi). Testimonianze della domus romana

Bosco di Banzi nel Vallone nei pressi delle Grotte Notargiacomo

Regio III Brutium et Lucania

Da sinistra a destra, dall’alto in basso: riproduzione del testo di uno dei tre frammenti della Tavola Bantina; i cippi centrali dell’auguraculum di Banzi con Solei (sole), Flus (dea Flus) e Iovi (Giove); un cippo dedicato a Giove (Zove in osco) con la probabile presenza di un santuario, reca l’indicazione del Tribuno della Plebe (TR PL) incaricato della divisione fondiaria delle terre pubbliche. Venne rinvenuto presso l’Abbazia di Banzi (Torelli, 1968) ed era forse destinato ad essere infisso nel terreno (II – I sec. a.C.).

La somiglianza decorativa del mosaico pavimentale della cattedrale di Brindisi (XII sec. – a sinistra) con quello rinvenuto a Banzi (disegno a destra)

Abbazia di Banzi

Croce Abbazia di Banzi con il simbolo dell’Ordine Francescano

Bassorilievo di marmo datato anno 1331. Ingresso chiesa dell’Abbazia S,Maria di Banzi. L’iscrizione latina”Hoc opus est in anno MCCCXXXI sub dominio fratris Dominici de Cervaricio Abbatis huius coenobii” (Quest’opera fu eseguita nell’anno 1331 sotto il governo di frate Domenico de Cervaricio o Cervaricium, casale medievale tra Banzi e Monteserico, abate del monastero di S.Maria di Banzi)

Abbazia di Banzi

Quadri di Unione catastale. Sviluppo della Carrera della Regina nei territori comunali di Palazzo San Gervasio, Banzi e Genzano di Lucania

Carrera della Regina (nel primo tratto). Anticamente attraversava l’esteso bosco di Banzi, completamente distrutto nel secolo scorso per far posto a campi coltivati.

L’agro bantino ricalcherebbe la suddivisione geometrica in jugeri per ciscun appezzamento, misura in uso nel medioevo (6-7 mila metri quadrati circa), il doppio quindi anche dello jugero romano. In rosso è indicato il tracciato della la “Carrera della Regina”

Carrera della Regina

Bosco di Banzi. Parte residuale del bosco verso occidente al margine di campi coltivati

Area di interesse paesaggistico-ambientale delimitata dalla Carrera della Regina; dal 1986 costituisce un territorio “dichiarato di notevole interesse pubblico ai sensi della Legge 29/6/1939, n. 1497 (G.U. n. 151 del 2/7/1986)
[Foto e cartografie in fase di inserimento]
La Carrera della Regina
La storia della distruzione dell’antico bosco sacro di Banzi
Con l’arrivo dei romani nel territorio dell’antica Lucania, i boschi ed i pascoli vennero sottratti l’uso che ne facevano le popolazioni native, prevalentemente dedite all’allevamento e alla transumanza. Bantia romana era situata lungo un itinerario mediano strategico tra importanti strade di comunicazione, quali la Via Appia ad est e la Via Herculia ad ovest. L’itinerario intermedio che toccava Banzi fino al XV secolo venne descritto da Guido da Pisa (forse il frate carmelitano Guidone vissuto nella prima metà del XV secolo), con Bantea situata sul tragitto che da Oria (Ories) giungeva ad Acerenza (definita da Guido da Pisa, in antitesi ad Orazio, “nido del corvo”, nidum corvi quae est Acerrentia). Da Oria (Ories), Anxia (forse Gallipoli), Mottola (Mutula), l’abitato scomparso di Minerva presso Castellaneta, l’abitato scomparso di Monte Campo (Mons Campi) tra Laterza e Castellaneta, Ginosa (Genosium), Montescaglioso (Severianum quae nunc Mons Scabiosus dicitur), Matera (Castra Hannibalis quae Materies dicitur), Altamura (Murus), Botrum magno (cioè Gravina), Monteserico (Mesochorum quam Serichorum corrupte dicunt ), Banzi (Bantea), la via giungeva ad Acerenza (nidum corvi quae est Acerrentia), proseguendo per Grumento (Grumentum quae dominio confinata est cum Tarento). Su questa direttrice mossero gli eserciti imperiali per attaccare Acerenza nella guerra goto-bizantina del 535-553, e successivamente durante la guerra contro i Longobardi iniziata nel 663 con l’Imperatore Costante II. Sullo stesso itineratio giungero gli svevi e i Normanni per la conquista dell’Apulia. L’Abbazia benenedettina di Banzi, sorse tra il VII e VIII secolo d.C. lungo quest’asse stradale. Fu prima sotto l’influenza Longobarda e successivamente dipendente dalla potente Abbazia di Montecassino. Si sono succeduti, dall’epoca di fondazione 12 abbati regolari fino al 1391, proseguendo da questa data in poi con ben 20 abbati commendatari, a sottolineare l’interesse per questo territorio, oggetto spesso di contenziosi e usurpazioni. Nel 1536 giunsero presso l’Abbazia di Banzi gli Agostiniani e, successivamente, l’Ordine dei Minori riformati di Potenza dal 1665 (subentrati dopo i fatti conseguenti ad un tumulto con la cacciata degli Agostiniani). La storia del bosco sacro di Banzi (Vansi, in osco), esteso inizialmente oltre novemila ettari, è quella della sua lunga distruzione, con i primi disboscamenti iniziati intorno all’anno mille che, ininterrottamente, proseguirono fino al XVI secolo. Dopo vari passaggi tra ex affittuari dei Beni della Badia di Banzi, con decreto di re Ferdinando II del 21 aprile 1837, gli stessi beni vennero aggregati al Conto dè Maggiorati dè Reali Principi, non senza contenziosi. Ne fu vietata l’alienazione delegando la Real Cassa d’Ammortizzazione e Pubblico Demanio di percepirne le rendite derivanti dal fitto, fin quando non ne fosse stato definito il prezzo per la sua alienazione. In questo periodo il disboscamento riprese vigore, rafforzato dalla mancanza di controlli. La piccola comunità di Banzi segui la stessa sorte del suo antico e vasto bosco, venendo declassata nel 1814 da comune a frazione di Genzano, a seguito di contenziosi e pressioni locali sul governo napoleonico a Napoli (con la legge n. 360 del 1 maggio 1816, avente oggetto “suddivisione politico-amministrativa della Provincia di Basilicata” e con la restaurazione del governo borbonico, la frazione di Banzi, assieme a Genzano, Oppido e Pietragalla faceva riferimento al capoluogo del Circoladario, Acerenza). Dopo l’Unità d’Italia, l’ex bosco ecclesiastico dell’Abbazia di Banzi, divenne demanio dello Stato. Lottizzato e successivamente venduto al miglior offerente, venne completamente distrutto dagli stessi ex affittuari divenuti proprietari, con alcune famiglie che ne sono oggi ancora i possessori. Il corrispettivo in denaro, fu incamerato dalla Società anonima per la vendita dei Beni del Regno d’Italia. La nascita di questa società il 31 ottobre 1864 venne riconosciuta con decreto governativo del 4 novembre dello stesso anno. La società nasceva dall’accordo fra la Società Generale di Credito Mobiliare Italiano e quelle del Banco di Sconto e di Sete e delle Terre italiane. Questo nuovo gruppo avrebbe dovuto anticipare al Regio Governo 50.000.000 di lire e fino a 150.000.000 di lire, in cambio della facoltà di vendere una quantità proporzionata di beni del demanio, o la totalità nel caso che l’anticipazione fosse completata, e di emettere tante obbligazioni equivalenti alle somme anticipate assicurate con ipoteca per beni da vendere il tutto con i vantaggi, condizioni ed obblighi che risultavano dalla convenzione. Attraverso questa società anonima il governo del Regno d’Italia emise obbligazioni a favore della Società Ferrovie Meridionali, esecutrice anche della tratta da Rionero in Vulture a Potenza completata nel 1896. Sorte analoga toccò al grande Bosco di Monticchio, ceduto nel 1871 direttamente ad una società privata composta da banchieri e costruttori delle ferrovie. Le banche straniere, successivamente fallite, anticiparono le somme per la costruzione delle ferrovie ofantine, le cui vicende e i risvolti sono ancora in gran parte inediti (dattiloscritto presso l’autore). Banzi divenne comune autonomo solo con legge n. 277 del 27 giugno 1901 (in realtà qualche anno dopo, nel 1904, solo a seguito della definizione della controversia con il Comune di Genzano), rientrando nel possesso solo di un terzo dell’intera estensione residua del bosco. La legge di elevazione a Comune autonomo venne presentata da Emanuele Gianturco e dal politico, nativo di Melfi, Francesco Saverio Nitti, il cui padre, Vincenzo, fu l’agente demaniale che suddivise per la vendita il bosco ex ecclesiastico di Banzi nel 1885 che si estendeva su 2.700 ettari, avanzo degli iniziali cinquemilaecinquecento esistenti nel periodo borbonico (V.Nitti, relazione sulla quotizzazione del demanio di Banzi dell’agente demaniale signor Vincenzo Nitti, 1885. Ed. La Perseveranza, 1920).
La Carrera della Regina
Le vie “carrere” (o carrare) nacquero come strade pubbliche per consentire il passaggio e per l’esbosco. Assunsero questa denominazione solo nel XVI secolo, ridefinendo la più antica toponomastica locale. Con il termine “carrera”, secondo il toponimo locale riportato anche sulle carte, veniva indicata la via utilizzata per la servitù pubblica di passaggio e di esbosco la cui estensione dei terreni confinanti veniva misurata in “carri”. Altri significati sul termine “carrera” afferirebbero a denominazioni dialettali circa l’operazione di caricare e trasportare sui carri i covoni del grano, detti biche, operazione questa denominata localmente con il termine “carrare” (Cfr M.Battaglino, Genzano di Lucania dal 1333 al 1616. ETS Editrice, Pisa, 2015). La “carra” indicava la misura di superficie adottata localmente dal XVI secolo sino agli anni Cinquanta, soprattutto nei Comuni compresi nella fascia nord orientale della regione. La carrera permetteva di raggiungere le diverse quote demaniali del bosco affittate ai locatari dell’Abbazia di Banzi. Una carra nel Regno di Napoli equivale a 24,7 ettari circa, pari a 20 versure, con 1 versura corrispondente a mq. 12.345, equivalenti a. 1.23.45 ha (sulle misure locali in uso, leggasi: Istituto Centrale di Statistica, Misure locali per le superfici agrarie. Seconda Edizione. Abete Tipografia Editoriale, Roma 1950). Dal reticolo visibile da satellite, delimitato dalla Carrera della Regina, l’agro bantino ricalcherebbe la stessa e più antica suddivisione geometrica in jugeri, misura in uso nel medioevo (6-7 mila metri quadrati circa), il doppio quindi anche dello jugero romano. La vecchia suddivisione venne utilizzata nella lottizzazione del bosco effettuata nel 1887 e la sua trasformazione in terra dissodata. Lo iugero romano equivaleva al terreno arabile in una giornata di lavoro con una coppia di buoi aggiogati (di qui l’etimologia da “iugum”, cioè “giogo”). Lo iugero romano corrispondeva a circa un quarto di ettaro, più precisamente a 2.519,9 m². Lo iugero era idealmente concepito come un rettangolo di 12×24 pertiche di lato, ovvero come l’unione di due actus quadrati (essendo l’actus pari a 12 pertiche lineari). Corrispondeva quindi a 288 scrupula ovvero pertiche quadrate (o tavole, secondo la denominazione assunta nel Medioevo), cioè 28.800 piedi quadrati (essendo la pertica pari a dieci piedi e la pertica quadra uguale a 100 piedi quadri). I Romani avevano altre misure di superficie: l’heredium, o doppio iugero = 5.039,8 m² (circa mezzo ettaro); la centuria (100 heredia ovvero 200 iugeri) = 503.980 m² (circa 50 ettari); il saltus (4 centurie ovvero 800 iugeri) = 2.015.920 m² (circa 200 ettari). Le esigenze di transito dovute alla possibile “centuriatio” dell’agro bantino che riguardava però parti di terreno più vicino al centro abitato dovevano essere soddisfatte dalla condizione “viae duum communes”, che successivamente e gradatamente persero importanza, costituendo una forma più antica della limitatio romana. Sui fondi agricoli sorsero alcune ville rustiche ed insediamenti come in località Piano Carbone, nei pressi di Banzi, e a Cervarezza o Cervaricio, antico casale esistente fino al 1269, allorquando a causa dell’insalubrità il sito venne abbandonato ( Cfr. T.Pedio. Centri scomparsi in Basilicata. Ed. Osanna, Venosa, 1985). Ma con il termine “carro” si poteva indicare nel XVII secolo anche la misura di peso equivalente (un carro = 1,5 tonnellate attuali) allorquando, per alcuni generi prodotti dai fondi agricoli, quali grano, orzo e fave, ne venivano espressamente indicate le quantità in “carri”, così come è possibile desumerere dalla relazione fatta nell’anno 1609 dall’abate di Banzi, Antonio Blaselli (In “Memorie Bantine”, Op.cit): “…in questo presente anno sono seminali in detti territori versure cinquecento e venti ad istanza del quondam conte Tasone, che a tumula tre per versura sono tumula 1560 di semenza seminata tra grani ed orgi, e sono anco di più seminati altri terreni ad istanza di particolari, quali pagano alle volte per ogni versura tumula tre alla detta abbadia, e se ne ponno cavare da carri quaranta di grano, ed orgio carri altri cinque, ed un carro di fave, dalle quali si suol cavare e avere da tumula duemila di grano, e cinquecento d’orgio in questo presente anno, e per I’altri terreni, quali restano in quelli anni senza esser seminati, si affittano per l’erbaggio dell’inverno e dell’està alli Abruzzesi ed altri per pascolar li animali ducati mille quattrocento in circa ogni anno, e tutto sta affittato questo presente anno”. Dalla relazione si evince come nei pascoli dell’abbazia vi fossero anche animali provenienti dall’Abruzzo, mostrando come la transumanza avvenisse da luoghi anche lontani.
L’area delimitata dalla “Carrera della Regina” costituisce dal 1986 un territorio “dichiarato di notevole interesse pubblico ai sensi della Legge 29/6/1939 n. 1497 (G.U. n. 151 del 2/7/1986) per le sue caratteristiche paesaggistiche e di testimonianza sull’uso antico del territorio forestale e la sua completa trasformazione in territorio agricolo, il cui reticolo testimonia l’antica divisione forestale e agraria (nonostante tale vincolo sono stati realizzati di recente numerosi parchi eolici all’interno e in prossimità dell’area). Oltre alla principale “Carrera della Regina”, lunga 10.400 metri, esistono altre “carrere” secondarie, molte delle quali collegate a quella principale. Di alcune è nota anche la lunghezza, quali quella del Cerasole (3.655 metri), di Cassano (3.700 metri), della Panetteria (2.900 metri), Valle di Lano (1.535 metri), del Merciaio, del Prete, S. Procopio, Grotte della Caprara, Grattelle delle Fratte, del Mercino, Varco Postizzo, Varco delle Cornacchie, Seppantonio, Iazzo Marando, Parisi, Cervarezza (le denominazioni locali delle carrere sono tratte dalla divisione in lotti del Bosco di Banzi – vedi in seguito). Lo sviluppo dei 10,4 chilometri della Carrera della Regina, dal Piano dei Parchi in direzione sud – ovest, lungo “Piano dei Titoli” e fino alle località “Lago dei Conconi” e “Terzo di Banzi”, ripiegando, dopo metà circa del suo sviluppo ad angolo retto in direzione sud-est, per circa 1/3, raggiungendo “Lago Intagliata”, ex laghetto oggi scomparso, un tempo situato all’interno del bosco di Banzi successivamente dissodato, e la località “Cugno la Chiesa” fino all’attuale ex strada statale n.169 (oggi strada provinciale). Lungo il suo sviluppo, numerose sono le località che mostrano toponimi di laghetti e zone umide, oggi prosciugati, ma residui di un complesso e articolato sistema umido all’interno dell’ampia foresta che si sviluppava in gran parte su terreni in piano (i 2/3 secondo le stime degli agrimensori), stravolto dalla deforestazione. Attualmente lembi dell’antica foresta vegetano solo in alcuni valloni, con una flora residuale composta prevalentemente da specie caldo-umide ed essenze vegetali quercine.
Trasformazioni territoriali e amministrative: la decontestualizzazione storica del territorio bantino
La messa in coltura di ampie estensioni boschive costituirono profitto per i grandi proprietari terrieri, che esclusero la piccola comunità bantina dedita al lavoro nei campi che fruiva esclusivamente degli usi civici sui terreni della chiesa. I luoghi primigeni in questa parte della Lucania antica, situata sul confine della Regio III, reclamata dall’Apulia, ma ricadente nell’estremo confine orientale della Lucania, furono interessati dall’introduzione della cerealicotura. L’orientamento dei campi lungo le strade vicinali, venne attuata attraverso la bonifica e la sistemazione del suolo, ed aggregata a possedimenti prediali delle famiglie romane importanti presenti nella valle del Bradano. Il paesaggio agrario venne trasformato in assenza di manodopera locale. Le possibili centuriazioni dell’agro bantino e venosino, ovvero l’affidamendo in conduzione di suoli agricoli, seguì precise regole agronomiche. Le culture arboree e arbustive, pur presenti, si diffusero solo più tardi, fatta eccezione per la coltivazione della vite che si imporrà insieme all’ulivo, con l’introduzione di coltivazioni miste nel tardo medioevo. I cerimoniali presso l’auguraculum di Banzi testimoniano auspici e riti di fondazione basati sulla gnonomica celeste, tentativo di riportare un ordine religioso e civile tra i popoli di matrice osca (sull’arx di Banzi, leggasi specifico articolo su Pandosia). I cippi dell’auguraculum di Banzi, esposti presso il museo di Venosa, impropriamente vengono oggi inquadrati nella “colonia latina di Venusia”, non considerando che Bantia aveva una propria struttura urbana ed amministrativa peculiare già in epoca romana ricadente nella Regio III (Mommsen collocava invece Banzi e Venosa nella Regio II). “L’alto corso del fiume con la sorgente (M. Torretta) restava in territorio Lucano: del suo intero percorso, 114 Km, i primi 25-30 erano in Lucania: solo dalla grande curva tra Oppido e Genzano, sino alla foce, doveva segnare il confine tra le due regiones, la II, Apulia et Calabria, e la III, Lucania et Bruttii. Dunque dopo Compsa, ancora compresa nella II, il confine subiva un profondo spostamento verso oriente: la II regio inglobava la zona di Calitri, il comprensorio del Vulture, ma lasciava fuori l’attuale Pescopagano, Atella, Acerenza e Banzi, e quindi imboccava il letto del Bradano. L’intero bacino fluviale ad est del fiume restava in territorio Apulo, coi torrenti Basentello (51 Km), Gravina e la Gravina di Matera (Cfr V.A. Sirago, il confine Apulo-Lucano al tempo di Augusto. In Studi Storici della Basilicata, Bari, 1987). Assieme alla Tabula bronzea, presso il Museo di Napoli e di Venosa ed altre importanti opere d’arte presso altri musei ed esposizioni (si ricorda anche il mosaico pavimentale rinvenuto durante i lavori di restauro presso il primo edificio dell’Abbazia, traslato presso il Castello di Lagopesole). Questi importanti reperti dovrebbero ritornare a Banzi, ed esposti presso l’edificio dell’Abbazia restaurato nell’ormai lontano 1998 (Delibera Giunta Regionale di Basilicata n. 3502 del 16/11/1998 “Acquisizione e restauro Abbazia Santa Maria di Banzi”) sede naturale di un auspicabile museo archeologico e della storia territoriale sulle trasformazioni fondiarie e forestali per illustrare le importanti peculiarità per lungo tempo svilite assieme all’identità storico-culturale.
Banzi, da bosco sacro a saltus romano
Il nome “FLUS”, l’antica dea italica Flusia (in osco), corrispondente alla dea Flora romana, è indicato sulla sommità di un cippo centrale dell’auguraculum romano di Banzi (in osco Vansi), forse proprio per rievocare nei popoli nativi il ricordo della primavera e la crescita delle spighe di grano attraverso un nuovo culto introdotto dai romani, ricondotto però agli auspici attraverso l’ornitomanzia (interpretazione del volo degli uccelli). Un cippo dedicato a Giove (Zove in osco) con la probabile presenza di un santuario, reca l’indicazione del Tribuno della Plebe (TR PL) incaricato della divisione fondiaria delle terre pubbliche. Venne rinvenuto presso l’Abbazia di Banzi (Torelli, 1968) ed era forse destinato ad essere infisso nel terreno (II – I sec. a.C.). Nel ciclo cosmologico dei popoli nativi originari, importanza rivestiva il bosco sacro, luogo ove si svolgevano i rituali del “ver sacrum” con gli adolescenti denominati “sacrani” che venivano affidati a dio (mamert = marte), condotti al confine del territorio originario con il volto velato e affidati a un animale – guida, verso la loro nuova destinazione. Il bosco sacro, era il “luco” (lucus per i romani), secondo l’originaria definizione di una “radura nel bosco dove la luce del sole penetra attraverso le chione degli alberi”. Gli abitanti dell’osca “Vansi”, i Lucani, denominata Bantia dai romani, era situata al centro del saltus (bosco lasciato al suo stato originario). L’ abbazia benedettina di S.Maria, sorse nel VII-VIII secolo d.C., al centro dell’antico bosco sacro (forse su un tempio pre-cristiano), così come mostra la straordinaria mappa tratta dagli archi vaticani (Cfr. Michele Feo, la relazione bantina di Arcasio Ricci 1634, in Archivio storico per la Calabria e la Lucania, anno LXXXIV, 2018). Non del tutto indagato, dal punto di vista archeologico e pedologico, sono le trasformazioni del territorio bantino, già noto ad Orazio come “saltus”, ovvero terreno coperto da bosco e utilizzato prevalentemente per il pascolo, escluso quindi inizialmente dalle assegnazioni viritane, ovvero ad assegnazione di lotti in agro pubblico. Nei pressi di Bantia vi si svolse la battaglia tra il Console Marcello e Annibale, forse avvenuta in una località prossima a Banzi, che vide la sconfitta e la morte del console romano, con i cartaginesi che rinunciarono alla conquista delle due città vicine, Venusia e Bantia. I vari abbati regolari e commendatari dell’ex badia di S. Maria di Banzi, amministrarono un vasto territorio, fino all’eversione della feudalità, con la confisca dei beni ecclesiastici, dapprima incamerati dalla Cassa Ecclesiastica e poi transitati, dopo il 1861, al Demanio dello Stato, che li pose in vendita.
La Tabula Bantina e la problematica del contesto territoriale
La Tabula osco-romana di Banzi costituisce una importante testimonianza del nuovo ordinamento romano applicato in un contesto osco. Anche per la “Tabula Bantina”, oggi presso il museo di Napoli e quello di Venosa, sarebbe stato importante conoscere il luogo esatto del suo primo rinvenimento e di quello dei frammenti successivamente ritrovati. L’approssimazione topografica con la quale i ritrovamenti della lastra in bronzo inciso sui lati in osco e caratteri latini, hanno indotto approssimazione ed incertezze tra gli stessi “addetti ai lavori”, con un mosaico di ipotesi dovute principalmente alla decontestualizzazione che riguarda i luoghi dei rinvenimenti archeologici. Una pratica che sembra permanere, purtroppo, ancora oggi e sulla quale sarebbe utile riflettere circa la finalità dello scavo nell’ottica non solo genericamente produttiva, ma finalizzata a contestualizzare i luoghi e non solo i reperti. Già Mommsen, nel suo C.I.L. (CIL, IX, 415, pag.43) nel 1845 annotava, in modo larvatamente dubitativo, che una parte della lastra fosse stata davvero rinvenuta a Oppido. L’epigrafista nativo di una città vicino ad Amburgo, riferendo quanto comunicatogli dal Soprintendente dell’epoca, Andrea Lombardi, riportava, virgolettandolo, il contesto del ritrovamento, con il tentativo di distaccarla dalle pietre sui quali era ancorata, operato maldestramente da alcuni contadini di Oppido che finirono per romperla prima di finire in loro mani (Mommsen ne riporta i loro nomi). Un frammento finì nel possesso di un “negoziante girovago” barese (ndr forse negoziatore di opere d’arte) e successivamente di un non meglio qualificato “maggiore” di cui non risulta chiaro il ruolo assunto nella vicenda (Mommsen ne indica il nome). I due frammenti vennero acquistati nel 1790 e 1793 e portati presso il museo di Napoli, pagati 400 scudi (S. Tafaro, considerazione della tabula bantina (Osca), conversazione svolta a Banzi nel 2006). Già all’epoca, evidentemente, il commercio di opere d’arte nutriva interesse commerciale. Venditori e acquirenti, poco o per nulla interessati al valore della scoperta, forse coinvolgendo anche studiosi di antichità locali, definiti impropriamente archeologi, alimentavano la disinformazione sulle scoperte (una sorta di archeologia preventiva finalizzata al lucro). L’Abbazia di Banzi, costruita con una pianta quadrata, forse sul foro romano della città, divenne a partire dal VII – VIII secolo d.C. non solo riferimento religioso e punto di aggregazione, ma anche centro geo-politico per le dominazioni e dominanti, non riuscendo però a definire, fino all’XIX secolo, una comunità stabile, così come mostra l’accorata causa sostenuta nel 1814 di fronte al Re Ferdinando II dal giurista ed insigne uomo politico Giuseppe Zurlo (1728 – 1828) nel sostenere le ragioni dell’esistenza dell’Università di Banzi, comune da lui definito pugliese, in relazione alla controversia sui demani contro la loro divisione operata dall’Intendente di Basilicata e contro le pretese della Commissione Feudale. Le tesi di Giuseppe Zurlo, sono state riprese dallo studioso Michele Feo il quale riassume le conclusioni di una relazione di Giuseppe Zurlo del 1813 che meriterebbe – secondo l’autore – di avere l’intestazione di una strada a Banzi: ” Il diritto dei poveri di Banzi ad avere una parte delle terre dell’abbazia è evidente. È evidente il titolo, perché gli usi civici nascono dalla natura delle cose e da speciali disposizioni dei sovrani precedenti [concordanza del diritto naturale e di quello storico]. Nascono dalla natura delle cose, perché la popolazione ha preesistito alla concessione: è possibile che la popolazione esistesse senza beni di sussistenza? Gli attuali banzesi avrebbero avuto il diritto di attaccare nella Commissione feudale o nei tribunali ordinari le prestazioni territoriali che la badia esigeva sull’intero agro, e forse avrebbero avuto successo, perché gli attuali cittadini di Banzi sono un avanzo della popolazione di Bantia; e ne consegue che il territorio concesso o infeudato apparteneva ai banzesi. Ma anche se non si riconoscesse questo diritto, i banzesi sono un piccolo drappello che si sono radunati su una terra, hanno costituito una comunità, e allora «gli usi civici, cioè gli usi necessari all’esistenza, erano loro dovuti». [Cfr M. Feo, Ritorno alle origini, 13 aprile 2019, Op. cit in Academia.Edu).
Il meddix tuticus dei popoli pastori e la Tabula bantina
Con la penetrazione romana, gran parte degli originari percorsi della transumanza vennero riutilizzati, riadattati e resi percorribili da carri ed eserciti. Sugli snodi viari sorsero, durante il primo millennio a.C., i templi dedicati alle divinità protettrici dei campi, dei pascoli, delle acque e degli animali. Alla dea Mefitis (importante quello di Rossano di Vaglio) i popoli nomadi della Lucania rivolsero la loro devozione. Anche il culto di Ercole era legato alle attività pastorali. In questi luoghi vennero predisposti grandi recinti per offrire riparo alle greggi transumanti. Banzi introduce anche quello legato a Flusia (Flora per i romani) e riconosceva quello di Zove – Giove. Nel periodo romano, con la nascita del latifondo e dell’agricoltura, le aree a pascolo si ridussero progressivamente e la transumanza venne regolata attraverso il pagamento di tasse, generando così conflitti con i popoli di lingua osca preesistenti. La Tabula bantina è un documento in bronzo inciso in lingua osca databile tra il 150 a.C. e il 100 a.C. recante sul retro la traduzione in lingua latina (F. Giannone, Memorie Storiche dell’Antica Terra d’Oppido, Ristampa dell’edizione originaria del 1905. Editori Forni, 1971). Da una parte vi è lo statuto bantino, una legge municipale dell’antica città del cui municipio forse faceva parte anche Oppido. Illustra i compiti di un magistrato locale assimilati al ruolo del meddix (autorità osca), in un’epoca in cui erano ancora presenti forti ostilità nei confronti dell’autorità romana, proprio a causa di quello che veniva considerata una vera e propria occupazione militare del territorio. Mentre si conosce la collocazione dei due pezzi rispettivamente presso il museo archeologico di Napoli e quello di Venosa, del terzo se ne sono perse le tracce, originariamente affidato all’Accademia Ercolanense (S. Tafaro, op. cit.) dal Museo borbonico di Napoli. “Il documento ha contribuito da subito – scrive S. Tafaro – al superamento delle teorie che consideravano le lingue italiche tutte derivate o dal latino o dall’etrusco. Ha, infatti, reso chiaro che le lingue italiche erano costituite da due gruppi principali, l’umbro e l’osco, separati da una area detta sabellica … All’interno dell’osco, grande lingua di cultura nell’Italia meridionale, sono sorte inoltre piccole differenze dialettali, che la Tabula Bantina ed altre epigrafi, aiutano a scoprire, rivelando anche l’influenza dell’alfabeto etrusco”. La tabula bantina inoltre definisce la funzione dell’autorità osca del Meddix, ovvero di “colui che rendeva manifesto il diritto, cioè esercitava la giustizia”. Era in sostanza un magistrato giudice- arbitro, che svolgeva un ruolo di mediazione tra le tribù aiutandole a seguire la strada della pacificazione, assicurata dall’applicazione del diritto acquisito (in genere i confini del pascolo, il diritto di sposare donne provenienti da altri gruppi, la divisione degli animali tra gruppi interfamiliari). La sua posizione non era tanto di sovrapposizione o di comando, ma piuttosto di aiuto, offerto al perseguimento della convivenza pacifica, e, certamente aveva poco del carattere militare e di comando “caratterizzante le somme magistrature romane” anche se a fasi alterne i Meddix aderirono e fuoriuscirono dalla Lega Sannita, alleandosi con i romani durante le tre guerre sannite. I tre pezzi della Tabula Bantina andrebbero riunificati in un sol luogo, per offrire la testimonianza della cultura originaria dei popoli di lingua osca (Marsi, Sanniti e Lucani) che abitavano le aree interne dell’Appennino centro meridionale dal I millennio a.C. agli albori della latinizzazione romana. “Sarebbe, forse, opportuno assumere un’ottica differente rispetto al passato – così come afferma il prof. Tafaro – dove si è spesso proceduto alla ricerca degli elementi di romanità della comunità bantina; invece, è forse più opportuno rovesciare l’ottica di approccio e porre come assunto di partenza la scoperta degli elementi osci e bantini, interrogandoci, da un lato su come essi siano stati romanizzati e, dall’altro, se e come (specialmente alle nella fase precivica e di formazione della Civitas) abbiano influito su Roma”. Una rivisitazione della Tabula Bantina può partire dalla conoscenza della cultura dei popoli nativi e riporta a riconsiderare i conflitti tra pastori e agricoltori che ebbero inizio proprio durante la colonizzazione romana e la centuriazione, così come testimoniato nell’Elogium di Polla (Loc. S. Pietro), nel quale è forse lo stesso console Tito Annio Lusco, costruttore della strada Annia o via Popilia per Reggio Calabria, si vantava di aver sloggiato i pastori. “…Fui io che per primo feci in modo che dall’agro pubblico i pastori si allontanassero a vantaggio degli aratori…”. (tratto dal Cammino di Puglia. Il Tratturo Regio Melfi Castellaneta e la Via Appia, di A.Bavusi, V.L’Erario)
L’estensione del bosco di Banzi, la questione demaniale e il disboscamento
il bosco del feudo ecclesiastico di Banzi, per secoli, ha costituito il cuore di un possedimento che funzionava come una vera e propria azienda agro-forestale. Dalla relazione fatta nel 1609 dall’abate Antonio Blaselli se ne stimavano gli utili in ducati e/o in equivalenti in natura in tumola e carri dei prodotti agricoli derivanti dalle varie utilizzazioni del suolo, con una meticolosa disamina della produttività connessa al coinvolgimento di maestanze interne, locatari esterni, animali e cose, amministrate dal centro badiale retto dai monaci e dall’abate.”… v’è il bosco di detta abbadia tutto unito, qual circonda di circuito da venti miglia intorno, arborato con diversi alberi di boschi, con molti torrenti d’acque fresche d’ogni tempo. Detto boscho quando mena ghiande, si suole affittare per la vendita di dette ghiande cinque mila in seimila ducati l’anno, e tanto è stato alle volte affittato, e quando alcuna alcune volte caccia bene di ghianda, si suole affittare anco ducati diecimila, ed in quelli anni che mena ghianda oltre l’affitto predetto, si suole di più affittare l’erba ducati cinquecento in circa in quell’anno: però quando bosco non mena ghianda, in quell’anno si affitta per l’erbaggio dell’inverno ducati duemila quattrocento in circa. Fuori di detto bosco vi sono l’infrascritti quattro terzi di territori seminatori di detta abbadia tutti uniti, il primo è chiamato il Terzo di Cervarezzo; ii secondo Terzo di Valle dell’Angelo; il terzo è chiamato Terzo del Vallone della Pila; il quarto è chiamato il Terzo della Cerasola: quali quattro terzi di territori sono tutti seminatori di tumula settemila e duecento, però ogni anno si dividono, ed una parte si semina, e se ne può seminare in detta metà tumula tremila e seicento di grano ed orgio…nel sopradetto bosco vi è comodità di fare massarie ed industrie di bacche, porci, pecore, capre, giumente, e facendosi dall’abate di detta badia I’industrie di detti animali nel detto bosco, con farsi anco la presente massaria di seminare, potria detta abbadia rendere franchi ogni anno ducati ventimila in circa, che tanto se la faceva rendere Ferrante Monsolini a tempo, che lui era abate di detta bazia. Nel qual bosco vi sono e caselle fatte di tavole per tenerci porci di numero cinquemila, e per imporchiare, seu allevare due volte l’anno comodamente, e comodità di tutti li altri animali. Tutti li detti seminatori, e boschi circondano la detta abbazia, e stann intorniati e circondati dalle terre di Genzano, dal casale di Palazzo, dalla terra di Spinazzola, e dal feudo regio di Monte Serico…. Nel territorio e bosco di detta badia vi è concorso di affittatori per pascolare con loro animali, perché dal contorno soio offesi da cérti animali velenosi dimandati zecche, e come entrano nel territorio di detta badia non sono offesi in modo alcuno i detti animali che pascolano, e più in detto territorio non vi sono stati, né ci vengono gli animali detti brucoli, che si mangiano tutte le biade e vettovaglie quando stanno in erba, ed anco gli uomini, che stanno in detto territorio, mai sono mozzicati da animali velenosi, ed in somma pare evidentemente che sia “terra santa”.
Le sorti dell’ ex feudo ecclesiastico
I beni della Badia di Banzi, vennero affidati con atto del notaio Carlo Ferace di Napoli del 31 luglio 1751 per un triennio per ducati novemila trecento ventisei (2000 ducati in più del precedente contratto) a Pandolfelli e Morena di Solofra (cfr D.Pannelli, Le memorie bantine… A cura di P.De Leo. Comune di Banzi, Edizioni CoperAttiva, Montescaglioso,1995). I Paldolfelli erano una famiglia di Andria trasferitasi a Solofra, il cui membro Francescantonio nel 1588 aveva permesso di “far entrare in Napoli ogni specie di vettovaglie” e venderle “franche di gabelle”. Nel 1751, a seguito dell’atto notarile con cui l’abate di Banzi cedeva in un nuovo affitto dei beni di Banzi, non senza controversie e contrasti con i vecchi affittuari e locatari, con una superficie di 365 carra e 5 e ½ versure ( pari a 9.000 ettari circa, di cui il bosco ne ricopriva 220 carra, pari a circa 5.500 ettari, disboscando 20 carra in pochi anni, pari a 494 ettari in vista del nuovo contratto di affitto). Venne redatta dai nuovi proprietari di Solofra una “delineata in carta reale lunga circa palmi cinque, e larga palmi tre e mezzo dell’originale di detta pianta, che a gran fatica ricuperò l’odierno abate dalle mani de’ passati affittuari e conservasi ora nel nuovo archivio Bantino, è copia fedele la qui annessa, alla qual solo si è aggiunto ciò che in quella si omise, o non chiaramente notossi, come alcune fontane, grotte, laghi etc., ed inoltre certi termini, o sien contrassegni di confini, ché dopo quel tempo si sono opposti in sequela di accessi formali e di concordie colle comunità convicine. Or tutte le tenute adiacenti alla mentionata badia (compresa ancor quella di Monte Formosello, separata e distante da essa circa quattro miglia verso oriente) formano carra trecento sessantacinque, e versure cinque e un quarto; come apparisce dala descrizione, che si legge nella pianta originale, equi sotto si riferisce. A maggior chiarezza della divisata descrizione, si dee sapere, come ogni carro di terreni all’uso di Puglia è composto di 60 tumoli; ogni versura di 3 tumuli, ed ogni tumolo è di 1200 passi geometrici: sicché tutte le suddette carra 365 e versure 51⁄4 descritte nela pianta importano tumola 21915 e misure 18. Inoltre si dee sapere che quantunque nell’anno 1707, quando fu formata la detta pianta, il bosco era di carra 220, tuttavia negli anni susseguenti essendosene ridotto a coltura alcune porzioni, come la Pirazzetta o sia mezzana, e quel tratto ch’è in vicinanza della badia per quasi mezzo miglio dalla parte di mezzogiorno, occidente, e settentrione, ora il detto bosco non può esser di più di circa carra 200. Le terre, che poi si seminano ne’ Piani di Palazzo, e nelle tenute di Pirazzetta, Valle d’Angelo, e Madamagiulia, e ne’ contorni della badia, saranno circa 100 carra. Quanto a Madamagiulia, che si notò contenere 44 carra, solo 30 di esse si seminano, ed il restante si lascia per pascolo degli armenti, ma pascolo riservato, e perciò si chiama Difesa, a distinzione de’ pascoli comuni o demaniali, come son quelli del bosco, in cui confusamente i fidatari di Banzi, ed anche gli stranieri pascolano il lor armenti: il che non è permesso nella Difesa, siccome riservata a colui che al prende in affitto”.
Conflitti e contese sulle speculazioni derivanti dalle terre dell’Abbazia e dal bosco di Banzi ( XVI – XVII secolo)
La relazione redatta dal vescovo Ricci nel 1556 testimonia come gli utili della terra di Banzi fosse contesa fra l’abbazia e un affittuario (omissis). “Un esponente (omissis) si estende sulle terre a macchia d’olio: mentre di altri affittuari o proprietari il nomine appare per lo più una sola volta, i (omissis) sono tanti… Di alcuni è detto esplicitamente che lavorano la terra: si tratta dunque di coltivatori diretti ma altri recano i titoli inquietanti di messer. Questa non è gente che maneggia zappe, aratri e falci, ma la penna o strumenti di bottega. Lo spesso citato messer (omissis) subaffitta le sue terre …così come messer (omissis) le subaffitta”. La stessa situazione permarrà nei secoli, a scapito del bosco, fatto oggetto di speculazione attraverso utilizzi, dissodamenti e tagli con il perdurare di vessazioni nei confronti dei poveri di Banzi che continuavano a fornire braccia da lavoro ai signorotti locali e agli ecclesiastici.. Nella relazione sullo stato della Badia scritta nel marzo del 1728 da monsignor Pietro Antonio Corsignani, vescovo di Venosa indirizzata all’abate commendatario Cardinal Petra, viene descritto addirittura un vero e proprio sistema criminale che vide protagonisti i Gesuiti di Banzi che avevano ricevuto l’amministrazione del feudo ecclesiastico. Questioni che il vescovo riferisce al cardinale Petra di non aver fatto “ legalizzare da notaro” poichè da tener segrete “perché non li succeda (ndr a vassalli) anche questa volta ciò che gli è succeduto, che avendo trasmessi a Vostra Eminenza alcuni memoriali di ricorsi e doglianze, fussero quelli passati alle mani dei Gesuiti, i quali in vendetta di tali ricorsi li hanno strapazzati e maltrattati maggiormente, come non cessano ancora alla giornata…”. Il vescovo Corsignani riferiva nella sua relazione come i Gesuiti, i maltrattamenti attuati attraverso un religioso di cui fa il nome, in combutta con un tal signor (omissis) agente generale del signor Marchese di Genzano avessero “negli anni precedenti disboscato e dislargato il bosco…facendone tagliare alberi fruttiferi ed utili con lasciare all’abate il peso del taglio degli alberi infruttuosi, attraendo a loro utilità il valore degli alberi fruttiferi… parte venduti a Spinazzola che con cinque carri per due settimane continue ne fece fare il trasporto alle sue masserie e parte vendute ai fratelli (omissis) di Foggia…tagliare quattromila alberi dell’istessa specie fruttifera, migliaia di tavole, facendole trasportare nelle massarie di Puglia, una infinità d’altri pezzi più grossi per farne gioghi, ed aratri per interesse delle loro massarie di Puglia… per i cerchiaioli di Genzano e della terra di Palazzo, per farne cerchi, ritraendo da medesima a loro utilità i pagamenti di detta fida che non è stata mai solita darsi dai signori abati pro tempore…nell’istessa maniera hanno fatto ancora dissarborare la piccola difesa chiamata Piazzetta per ridurla coltivabile, affidantoci venticinque e più accette l’anno, con che non è rimasta altro che terreno spinoso, nudo affatto degli alberi di peri selvaggi, dei quali era piena e dava col frutto esca per ogni sorta d’animali…”. La relazione del vescovo Corsignani inoltre rileva come i Gesuiti vessino i “poveri vassalli” “…vi è quello di non farli più godere l’esenzione de pagamenti, goduta ab immemorabili, nel potere ciascuno far ghiandare gratis nel bosco due o tre animali neri, perché essi padri n’hanno voluto violentemente esiggere il pagamento esorbitarte, non facendoli nemmeno passare per l’istessa ragione e prezzo, per la quale sono passati i fidatari esteri, in maniera che se questi ultimi han dato la fida di carlini sette per ogni capo affidato, li padri Gesuiti han voluto da essi poveri vassalli carlini dieci e undici, e se qualche poveraccio nudrisce nella propria capanuola qualche animaluccio nero, siccome è stato sempre solito, li buoni padri glielo fanno ammazzare: ed all’incontro se qualch’uno tiene qualche seminato di legumi, o altro per uso e comodità della sua famiglia, glielo fanno tutto giomo danneggiare da’ loro animali impunemente, senza che i poveracci abbiano ove ricorrere; perché benché vi tengano il governatore per amministrar la giustizia, essendo questi nutrito nella casa d’Orta, ove per tanti e tanti anni ha fatto l’uficio di guardiano di campagna, se non vogliam dire sbirro, essendo vecchio ed inabile più a fatiche, chiamato (omissis), l’hanno ivi collocato in grado di governtore, per trafiggere e martirizzare quei meschini vassalli, che saranno costretti abbandonare quel luogo, e ricovrassi altrove, non bastandoli più l’animo di soffrire tanti torti e maltrattamenti; mentreché in osservanza dell’antico solito potevano i bovi di essi vassalli pascolare gratis nelle restoppie, e nel caso che qualche animale disgraziatamente fosse entrato a pascere nel bosco, non fosse stato soggetto né a pena né a danno; i padri Gesuiti li han gravati di tali prerogative. cacciandoli da dentro le restoppie, ed esiggendo le pene e danni quanti plurimi con tanto discapito, pregiudizio, ed interesse di quei miserabili…sarebbe buon espediente farne formar capi monitoriali di scomunica, perché così ognuno avrebbe la libertà di far Ie denuncie secondo la propria coscienza, e schermissi dalie sedizioni e timore …avvertendo però, che tali denuncie non dovessero riceversi dal vicario (omissis), il quale essendo un prete semplice ed ignorate, che può dirsi prete boscareccio, obbligato al sommo ai Gesuiti per avere più e più anni mangiato ii loro pane, essendo stato cappellano in una delle loro massarie di campagna, non riceverebbe fedelmente tali denucie; oltreché propalarebbe il tutto preventivamente ai medesi Gesuiti, acciò avessero il tempo d’accomodarsi le carte nelle mani, e l’Eminenza Vostra resterebbe del tutto delusa”.
Vecchi e nuovi sfruttatori del bosco
I protagonisti della storia del circondario e del bosco di Banzi tra i secoli XVIII – e XX furono i ricchi proprietari terrieri, siano essi signori feudali e sia latifondisti, ma sovente dai documenti emergono anche ecclesiastici che traevano ingenti benefici dall’affitto del bosco e il suo taglio, con contrasti tra gli stessi coloni, lavoratori della terra e municipi circa i diritti vantati sul possesso ed utilizzo della terra. Tra i maggiori possidenti terrieri dell’area tra Genzano e Banzi, vi furono alcune famiglie locali ma anche ricchi possidenti e facoltosi non residenti in questo territorio, di cui omettiamo in questo articolo il loro cognome, considerando l’esistenza nell’attualità dei loro eredi e il perdurare di interessi che si rivolgono ad altri utilizzi dei suoli, anche non agricoli. Sul finire del XIX secolo entrarono in gioco anche le banche, società private e in modo indiretto quelle ferroviarie. (Cfr sulle questioni demaniali leggasi i saggi di N. Lisanti, Mezzogiorno e Basilicata tra Occupazione e Riforma Agraria (1943-1950), in Basilicata Regione Notizie, Riv.Cons Reg. di Basilicata, 1989; R. Rago, I D’Errico di Palazzo San Gervasio tra Sette e Ottocento. Quaderni del Consiglio Regionale di Basilicata, Tip. Olita, Potenza, 2004). Un ricco proprietario agricolo di Palazzo San Gervasio (omissis), fruttò le terre dell’ex Badia di Banzi e figurava come affittuario di quelle dell’Ordine Costantiniano sul bosco di Monticchio (ndr Ordine Melitense o Cavalieri di Malta). Da un atto notarile (R. Rago, Op.cit) si evince come sul bosco di Banzi lo sfruttamento avvenisse tramite forme di fitto perpetuate del tempo con reiterati ricorsi per contenziosi agli organi giuridici e di governo: “nel 1839 terminò la locazione di Banzi nella persona dell’ex affittuario (omissis) e che alla medesima successe un ricco possidente di Potenza (omissis), per la novella locazione da settembre 1839 a tutto agosto 1848 ”. “L’ex Badia o volgarmente detta ex feudo di Banzi apparteneva alla Cassa d’Ammortizzazione e del demanio pubblico. La Cassa, istituita durante il decennio francese e poi, “nuovamente istituita”, cioè ordinata su nuove basi durante la restaurazione, aveva la finalità dell’estinzione delle rendite iscritte nel “Gran libro” e del debito pubblico. Le entrate della Cassa erano per l’appunto costituite principalmente dalle rendite dei beni demaniali da essa amministrati. Le terre dell’ex feudo di Banzi comprendevano anche le contrade Madamagiulia, Valledangelo e Serritelli, in seguito stralciate dalla vendita demanio pubblico. In qualità di “socio amministratore della Locazione di Banzi, era il rappresentante della società del conduttore, (omissis)”. Il proprietario di Palazzo San Gervasio “compare, negli anni 1839 e 1842, in alcuni atti notarili stipulati dal notaio Nicola Marchione, che concedevano in subaffitto le terre di Banzi, divise in piccoli lotti, a numerosi coloni di Palazzo, di Spinazzola, di Genzano e della stessa Banzi. La durata del subaffitto variava dai nove ai cinque anni. L’annua “terraggiera” pattuita, da corrispondersi il 15 luglio di ciascun anno, era sempre in grano “della migliore qualità che le terre produrranno, a libera scelta” appartenenti allo stesso proprietario di Palazzo San Gervasio” e oscillava, in base alla qualità dei terreni, dai cinque ai tre tomoli circa a versura (sul commercio dei cereali con Napoli, leggasi di A. Bavusi, la Via del Grano. Geoitinerario storico a cura di V. L’Erario. Edizione, Volonnino, Lavello, 2021). I “subaffittuari” erano tenuti a trasportare, a proprie spese, il grano nei magazzini a Palazzo o a Spinazzola, servendosi, a pagamento, anche dei traini noleggiati dallo stesso proprietario (ndr una sorta di monopolio). I coloni, in genere, non avevano diritto a pascolare le loro pecore dopo il raccolto; infatti si specificava che “l’erba e la spiga appartengono” al proprietario, che dunque poteva farvi pascolare le proprie. Nell’archivio di famiglia del citato proprietario erano conservati i “libri delle terraggiere in grano della locazione di Banzi” relativi agli anni 1842-43-44. Da questi apprendiamo si serviva per l’esazione delle “terraggiere” delle terre di Banzi di un agente qualificato come “salariato” nel ruolo di esattore chiamato “servo di dio”. (R. Rago, Op.cit). All’affitto del bosco costituiva una consuetudine, dal momento che si ha notizia dello sfruttamento da parte dei numerosi affittuari del bosco di Banzi nel XVI secolo, allorquando “nel 1522 fu agitata una controversia tra l’università e possessori di Genzano e l’abate commendatario di Banzi, Annibale Mansorio” sopraggiunto alla scadenza del contratto di fitto (In L. Giustiniani, Dizionario Geografico Ragionato del Regno di Napoli, Tomo I, Napoli, 1797). Spesso tra gli affittuari dei beni badiali, nella cause intentate dai vari avvocati incaricati, venivano genericamente indicati coloni o aventi diritto, in realtà erano loro prestanome. Attraverso forme di fitto, pagando poco ottenevano un profitto elevato per il taglio e la vendita del legname da parte di “forestieri” che operavano per conto degli stessi padroni, imponendo il divieto nelle “difese” di pascere e far legna ai semplici cittadini. L’avvocato Francesco Paolo Ambrosini, nella relazione di difesa di Banzi innanzi alla Corte di Appello di Potenza nel 1866 nel giudizio contro il Pubblico Demanio affermò che «a ricordo d’uomo non fu mai causa, nella quale sia così interessata l’esistenza di un popolo, quanto questa dei cittadini di Banzi contro l’Amministrazione del Pubblico Demanio… gli abitatori di Banzi non sono di quei servi che sursero nel rustico podere di un qualche barone…ma uomini liberissimi che reclamano i diritti dei loro padri”. I diritti a cui fa riferimento l’Ambrosini erano quelli già riconosciuti in un’ordinanza del 16 aprile 1812 da parte del Regio Ripartitore Angelo Masci (al quale Banzi dedicherà una delle prime strade del centro storico), che assegnò ai cittadini di Banzi un quarto del bosco e dell’aratorio, che però furono oggetto di lunga controversia. L’ordinanza Masci fu impugnata e si avviò un contenzioso che non cesserà se non quando si porranno le premesse per la istituzione del Comune. Con l’unificazione oltre alla cessazione dei diritti sugli usi civici i beni del Pubblico Demanio riguardanti l’ex-feudo di Banzi fossero infine stati ceduti alla Società per la costruzione delle ferrovie meridionali (M.Marotta, 120 anni di vita amministrativa a Banzi, 1901-2021 e tre millenni di storia. In Talentilucani, rivista on line, cultura, Agosto 2021. Dello stesso autore, Banzi nelle testimonianze storiche e letterarie. BMG, Matera, 1972). Sulla vicenda è illuminante la relazione dell’Agente del Demanio, Vincenzo Nitti, che ne riassumeva le fasi salienti di quello che egli considerava la rivendicazione dei contadini, sullo “scarso pane dalle terre possedute in passato dai ricchi benedettini”.
Il bosco di Banzi descritto da Lenormant nel 1882
Oltre all’approssimativa descrizione dei botanici Tenore e Gussone della Real Accademia Botanica di Napoli in visita nel 1838 nella regione del Vulture, che da Lagopesole annotavano “ … a vista del lago e di prospetto agl’immensi boschi che con quelli della prossima Forenza e di Banzia congiungosi, a cavaliere su amenissimo colle sta edificato il castello del signore della contrada” è invece la descrizione del bosco nell’opera “A travers l’Apulie et la Lucanie, notes de voyage” pubblicato nel 1883 dal viaggiatore francese François Lenormant, scrittore e cultore di antichità, che costituisce l’unica testimonianza non solo sul bosco ma anche sulle condizioni socio-antropologiche – economiche e sociali del sud Italia e della Lucania. Egli percorse la direttrice dell’antica via Herculea che da Venosa giungeva a Grumento nell’autunno del 1882, passando per Potenza. La lettura dal francese del testo di Lenormant rileva particolari sicuramente censurati dalle traduzioni italiane postume che non riportano alcuni brani del testo originario, ad esempio, per il sud e la Lucania il “traffico di schiavi bianchi”, ovvero bambini venduti o rapiti, spesso mutilati delle loro parti intime per farne voci bianche nei cori dei palazzi signorili delle città, oppure sfruttati come schiavi, contro il quale il governo italiano promulgò una legge; l’emigrazione massiccia dai centri lucani verso le Americhe (ndr particolare nascosto dalle autorità governative), il malcostume di molti notabili e signori che standosene nei loro palazzi a Napoli affidavano la gestione dei loro latifondi in Lucania a personaggi locali di poco scrupolo, che sfruttavano la povera gente e raccogliendo ricchezze per se e per i loro padroni. Per Banzi ed Acerenza, Lenormant denunciava il traffico commerciale delle opere d’arte e di quelle archeologiche per collezioni private e musei, spesso da parte di persone istruite. Oppure come osservò a Banzi, il pascolo che veniva proibito nel bosco da “agenti forestali” pagati dai signori locali e l’uso di forti cani per difendere le greggi dai numerosi e particolarmente feroci lupi che popolavano il bosco, oppure il grave stato di abbandono dell’Abbazia di Banzi, abitata da un ex frate cappuccino e dalla sua famiglia, dedita a costumi facili ed angherie nei confronti di poveri contadini ridotti alla fame. Percorrendo la via da Palazzo a Banzi, annota, a differenza di molti esponenti politici locali che tacquero sulle vicende del bosco, anche una testimonianza della sua distruzione allorquando annotava come “…la deforestazione si estende ancora a questo cantone, ma si vedono ad ogni distanza sulla destra le foreste, che nell’antichità arrivavano fin lì.…l’antica via Herculea fu elevata da Diocleziano e Massimiliano Erculeo al rango delle principali vie dell’impero, conduceva direttamente da Venosa a Potenza attraverso Lagopesole, dove è stata rinvenuta una pietra militare. Oggi questa via non esiste più; la strada più breve che collega le due città è la provinciale che passa per Forenza ed Acerenza. Tenevo molto compiere una specie di pellegrinaggio poetico nei luoghi cantati da Orazio. La strada è un continuo saliscendi, un susseguirsi di dossi e valloni che si intersecano a vicenda. Poco dopo Palazzo si trova la bella ed abbondante sorgente della Fontana Grande. Quasi certamente si tratta della fontana cantata da Orazio in una delle sue Odi. Ancora oggi le acque della fontana sono limpide ed abbondanti e di una freschezza deliziosa. A sud di Palazzo si estende la vasta e magnifica foresta di Banzi che per lungo tempo fu il covo dei briganti al confine appulo-lucano. All’epoca era difficile attraversarla senza terrore. Da sei o sette anni ormai le ultime bande di briganti sono state sgominate e la zona può essere percorsa con la massima sicurezza. La foresta che stiamo attraversando da due ore è davvero splendida. Ricorda le foreste della nostra Francia. Rivedo qui nei grandi boschi di Banzi le nostre querce dal portamento maestoso, i nostri faggi, i nostri castagni carichi di ricci, alberi secolari d’alto fusto, le stesse praterie erbose ricoperte di felci e muschi, ciclamini raso tappezzano il terreno sotto gli alberelli. Siamo in autunno è questo l’unico fiore che si trova. Non vi sono più briganti nella foresta, ma si sono moltiplicati i lupi. La foresta di Banzi, ora demanio pubblico, abbonda ancora di caprioli, di cervi, di cinghiali ed in genere di ogni specie di selvaggina. Banzi fu distrutta durante le incursioni dei barbari. Essa era molto importante all’epoca imperiale tanto da aver rango di municipio e da formare una piccola repubblica, come attestano alcune epigrafi. Il villaggio di Banzi conta ora poche centinaia di anime. Il loro aspetto è misero e primitivo e vivono assieme ai porci. Sembra di trovarsi fuori dall’Europa, lontano dal mondo civile. Banzi è celebre nel mondo archeologico per la omonima tavola di bronzo scoperta nel 1790. Questa tavola in frammenti, conservata al Museo di Napoli, è scritta da ambo i lati. La cosiddetta “Tavola di Banzi” è scritta in latino e riportata parzialmente il testo di una legge romana di carattere generale; dall’altro lato l’iscrizione è più antica. Questa tavola benché si riferisca a Banzi, non è stata dissotterrata nel suo suolo, ma è stata trovata ad Oppido. Tale fatto comporta una nozione geografica importante, cioè che la località di Oppido era compresa nel territorio del Municipio dei Bantini, che si estendeva da nord-est a sud-est di Acerenza, con la quale Oppido era confinante. Il bosco veniva utilizzato prevalentamente come pascolo, consedendo il taglio di parti del bosco con alberi di quercia non fruttiferi, essendo le ghiande utilizzate, in autunno, per l’alimentazione degli animali (specialmente maiali). Il pagamento da parte degli allevatori e pastori ai monaci avveniva spesso in natura, sfuggendo ai controlli dell’amministrazione badiale, oppure addirittura in occasione delle feste in occasione della Madonna, come è possibile desumere dalla relazione fatta dall’abate Antonio Blaselli nel 1609: “…in detta badia si fanno due festività l’anno, una nel secondo giomo di Pasqua di Resurrezione, e l’alba nella metà di agosto, ne’ quali giorni si fanno feste bellissime con concorso di molte genti di tiene e castelli convicini, per essere detta Santissima Madonna devotissima e miracolosissima, che ha fatto e fa infiniti miracoli, e vi sono fra l’altre informazioni, d’aver pianto sangue ed in particolare fa miracoli ogni volta che sono portati qualsivoglia animali infetti e malati, e li fanno entrare per la porta del cortiglio del palazzo, e da là li fanno entrare nel cortiglio della chiesa tre volte, restano detti animali sani e liberi: quale porta del cortiglio di detta chiesa si tiene sempre serrata, e s’apre nelle festività predette, e tante volte quanto occorreranno occasioni di far passare e guarire detti animali, e perciò la chiamano Porta Santa e vi è costume, che quando entrano e passano animali assai per guarire, se ne rilascia in beneficio di detta chiesa il primo che entra, o I’ultimo, e quando sono pochi, ti padroni fanno solo l’elemosina a detta chiesa, e non solo li predetti animali, ma uomini e donne, quali sono morsicati da cani arrabbiati, tutti guariscono…“. (cfr, Le Memorie Bantione, op.cit). Nella relazione del segretario del vescovo Ricci nel 1634 per conto dell’abbate commendatario, cardinale Carlo Barberini veniva specificato, con riferimento alla mappa redatta dall’agrimensore incaricato come il taglio di parti del bosco potessero favorire maggiori entrate “… alla lettera E sta disignato il bosco bellissimo da videre, la cui grandezza sarà di circuito da trenta miglia in circa, e di longhezza per retta linea dalle Ralle al fiume di Basento (ndr oggi denominato Basentello) sarà da otto miglia, et di larghezza da quattro miglia in circa. Per avantaggiare l’ entrate di quell’ abbatia e consequentemente di Vostra Eminenza, conviene che io dica come una parte di esso boscho verso la Cirenza è commun parere di più prattichi di quei luoghi che fosse ben fatto il tagliarlo per ridurlo in coltura, essendosi osservato che detto bosco non ha mai fatto ghianda, et essendo terreno come mi si dice assai ben fondato, fruttarebbe assai col seminarvi grano, com’ ancora è commun parere, che col disboscare in altri luoghi atti per le semente sarebbe di maggior utile dell’ abbatia per più raggioni. Prima. Perché i terreni renderebbono frutto per ciascadun anno o ogni due anni almeno dove che i boschi stanno alle volte tre e quattro e più anni che non rendono frutto, né arriva il valore della gianda alla rendita del grano. Secondo. Perché l’ istessi boschi pigliando più aria renderebbono maggior frutto, che per essere tanto folti et opachi restano la maggior parte degli arbori infruttuosi. Terzo. Perch’ essendo detti boschi tanto grandi, non si arrisicano li patroni degli animali metterveli dentro, mentre non siano gran quantità, perché i pochi per ampiezza del loco vi si smarriscono et restono in preda di lupi, il che non accade di molti, perché col numero degl’ animali viene ad essere maggiore il numero de’ guardiani. Quarto. Perché, quando si andassero disboscando in qualche luogo et diradanno dove sono le quercie più ombrose et spesse, oltr’ al frutto che maggiore renderebbono de giande, potrebbono servire per pascolo ancora per pecore oltre alle giomente, baccine et porci, che ivi si soglino trattenere, et li terreni che serveno per pascolo di pecore, come si vede alla lettera G, si ridurrebbono a coltura che renderebbono gran quantità di grano per essere quei terreni assai buoni et in quantità, come si dirà appresso”.
La vendita del bosco demaniale di Banzi
Il 21 agosto 1862 i beni immobili devoluti alla Cassa Ecclesiastica, tra i quali il Bosco di Banzi, erano passati al demanio dello Stato e il corrispettivo della futura vendita veniva iscritta sul Gran Libro del debito pubblico, in nome della Cassa Ecclesiastica, con la relativa rendita (Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del regno d’Italia, anno 1862, vol IV, Stamperia Reale, decreto n° 794, art.1, art.2). Il 13 ottobre 1864 il ministro delle finanze, Quintino Sella, per incamerare in tempi brevi il denaro derivante dalla vendita dei beni, tra i quali i boschi alienabili non destinati alla marina, tra i quali quello di Banzi, stipulò una convenzione con i la Società anonima per la vendita dei beni demaniali i cui promotori erano Felice Genero (Banco di Sconto), Giacomo Lacaita (Presidente del Comitato della Società Anonima per le terre italiane), D. Balduino (Società generale di credito mobiliare italiano), Teodoro Alfurno e C. Perrazzi (Cfr Raccolta Ufficiale delle Leggi e dei Decreti del Regno d’Italia, vol. X, anno 1864). In particolare si stabiliva che i promotori della Società anonima, avrebbero dovuto procedere alla “vendita a nome e per conto del Governo dei beni demaniali a partire dal 1 gennaio 1865″. Scopo delle società era anche quello di favorire il credito nelle realtà locali, praticando facilitazioni attraverso le banche locali ai quei possidenti che ne avessero disponibilità per l’acquisto, anche tramite istituti di credito locali, intervenendo localmente con azioni tese a finanziare opere pubbliche e ferrovie che si stavano realizzando nelle regioni meridionali e in Basilicata (su questo aspetto emblematica fu la vicenda del vicino Bosco di Monticchio, con l’intervento di banche straniere interessate alla realizzazione delle Ferrovie Ofantine). L’intricata e per certi misteriosa vicenda della lottizzazione del bosco di Banzi partiva dall’emanazione di due leggi datate 21 agosto 1862, con le quali si autorizzava il Governo ad alienare i beni demaniali che non sono destinati ad uso pubblico o richiesti da pubblico servizio (la n.793) con il contestuale passaggio al Demanio dello Stato dei beni immobili spettanti alla Cassa Ecclesiastica di borbonica memoria, con incanti andati deserti per la proroga dell’affitto del bosco che si susseguirono negli anni, in attesa dell’asta pubblica con la divisione in lotti del bene del Demanio Pubblico con il metodo “dell’estinzione della candela vergine” che furono indette presso le sale dell’Intendenza di Finanza di Potenza a favore “dell’ultimo migliore offerente” (Cfr Raccolta dei Supplementi della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, anni 1875 – 1887). L’articolo 19 della convenzione stipulata tra il Ministro delle Finanze, Quintino Sella e la Società anonima per la vendita dei beni demaniali stabiliva che “qualora la Compagnia Ferrovie Meridionali facesse acquisto dei beni la cui vendita è affidata alla Società Anonima” in base alla legge 21 agosto 1862, n. 763…”il governo affiderà alla società nuovi beni del valore corrispondente”. Per il bosco di Banzi non si è potuto risalire se l’acquisto del bene fu diretto da parte della Società Ferrovie Meridionali, che in base alla convenzione successivamente stipulata nel 1888 ottenne la costruzione della tratta da Rionero a Potenza, anche se vi fu nel 1867 un offerta in tal senso. Il bosco di Banzi che si estendeva in origine, nominalmente solo sulla carta su 5.500 ettari, fatti salvi gli errori di rilievo di inizio Ottocento (La carta di Rizzi Zannoni del 1807 ne indica chiaramente i confini), pari a tomoli 13.200, nel 1985 risultavano essersi quasi dimezzati a 2.700 ettari circa nella perizia effettuata dagli ingegneri Santanello, Troiano e La Vista a causa dei disboscamenti avvenuti durante i secoli precedenti. Il suo sviluppo era per i 2/3 situato “in piano” e per un terzo in pendio con forma “trapezia” confinante a ovest con la strada provinciale Acerenza Palazzo San Gervasio, a nord, con i terreni delle vigne di Palazzo S.G., ad est con le colonie palazzesi e bandine (tenuta Serritelli) ed a sud con le proprietà di alcune ricche famiglie di Spinazzola. E’ quanto emerge dalla relazione pubblicata a firma dell’ing Carlo Santanello (Cfr Ing. Carlo Santanello, Bosco demaniale proveniente dall’Ex Badia di Banzi. Ministero delle Finanze, Potenza, Tipografia Alfonso Santanello, 1887). Le aste pubbliche per il fitto, a partire dal 1840, costituivano il sistema per incrementare le ricchezze fondiarie da parte di alcune ricche famiglie che perseguivano i loro scopi anche attraverso eredità, unioni matrimoniali, usurpazione e occupazione di posti nella gestione e affidamento di pubblici demani e per lo sfruttamento dei boschi, non lesinando di agire illegalmente attraverso l’usura finalizzata ad incrementare beni materiali e denaro. Vincenzo Nitti, agente del Demanio, nella sua relazione (Cfr V. Nitti, Relazione sulla quotizzazione del demanio di Banzi, 1885. La Perseveranza, Potenza, 1920) scrive come nel 1867 si “era dato incarico dal Delegato Ministeriale, ing Arrigoni, di effettuare la stima allorquando il Governo pensava di cedere la tenuta alla società costruttrice delle Ferrovie Meridionali”. Ma da visure eseguite a campione su fogli di mappa che riguardano l’ex Bosco di Banzi si è potuto risalire che l’intestazione originaria del bene presso l’ex Cassa Ecclesiastica è invece pervenuta suddivisa in lotti, dietro il corrispettivo di acquisto, direttamente ai privati. Pertanto, potrebbe ipotizzarsi che la Società Ferrovie Meridionali sia intervenuta solo indirettamente nell’affare, cioè come beneficiaria della vendita e conseguente acquisto dei 37 o 40 lotti (esistono 3 lotti di cui non è chiara l’alienazione) del bosco da parte di privati, attraverso l’emissione di obbligazioni per conto dello Stato che finanziò l’opera (a differenza dell’affaire Monticchio, dove le società ferroviarie intervennero direttamente nell’acquisto del bosco). Non si esclude l’utilizzo del legname potesse aver favorito qualche venditore locale con acquirente facente capo alla Società Ferrovie Meridionali attraverso vendite dirette di legname, anche se nelle stime accluse alla lottizzazione per il bosco di Banzi si indicano solo le utilizzazioni tradizionali del legname come carbone e carbonella, legna da ardere, fascine, legname da lavoro per costruzione (lavorato a Palazzo San Gervasio, Genzano e Spinazzola), legname per attrezzi agricoli, legname per dogheria, etc) e smercio locale nei comuni. Solo indagini più approfondite presso gli archivi privati e pubblici potrebbero confermare o meno le ipotesi sulla vendita di legname per traversine ferroviarie, una merce di cui vi era grande bisogno per le costruzioni ferroviarie. La lottizzazione del bosco avvenne con pubblicazione del relativo avviso d’asta in Gazzetta Ufficiale.
[continua – testo in fase di inserimento]