La Madonna del Ponte a Policoro. Il ponte e la scafa sul fiume Agri lungo il Tratturo del Re
di Pandosia (Giugno 2023) – Creative Commons Attribuzione – Non commerciale citando la fonte
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Madonna del Ponte patrona di Policoro (Foto O.Chiaradia 2023)

Policoro, 19 maggio 1985. S.E. il Cardinale Giuseppe Caprio incorona la statua della Madonna del Ponte (Foto O.Chiaradia)

Cartografia Regno di Napoli 1821 – 1826. Visibile il toponimo “scaffa” sul fiume Agri. Da notare il toponimo “fabrica di liquirizia”, coltivazione introdotta dai Senseverino principi Bisignano e lavorata nell’Ottocento presso la fabbrica del “Concio” di Policoro

Il territorio conteso al Monastero di Carbone sulla costa Jonica (da una ricostruzione di una mappa di epoca Medievale)

Il Castello di Policoro e il Tratturo del Re nell’immagine del 1778. Tratta dalla spedizione Saint-Non guidata da Dominique Vivant Denon in “Voyage pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et Sicile”. Cerchiata, la chiesa della Madonna del Ponte

Chiesa Madonna del Ponte (Foto O.Chiaradia 2023)

Particolari della Chiesa Madonna del Ponte. Campanile a vela e al centro, parete esterna del sacello con riquadro – mostra (poco visibile, la data di probabile costruzione del saccello). Foto O.Chiaradia 2023

Sulla parete esterna del saccello di sinistra, poco visibile, è stata rinvenuta (O.Chiaradia, 2023 – vedi foto) la probabile data della costruzione (1899). All’interno della mostra era forse presente una pittura murale, non più visibile

In alto immagine della chiesa Madonna del Ponte risalente agli anni 50. In basso, gli stemmi all’interno della chiesa, da sinistra dei gesuiti, della famiglia Grimaldi e famiglia Serra principi Gerace

Ingresso castello di Policoro. A destra, in alto stemma famiglia Serra – ramo di Cassano. In basso, stemma partito delle famiglie Grimaldi Oliva e Serra. Foto O.Chiaradia 2023

La costa ionica storicamente veniva colpita dalla malaria trasmessa dalla zanzara Anopheles che proliferava dei terreni paludosi. Nell’area, dopo l’Unità d’Italia, si registrava una mortalità tra le più alte in Italia, compresi alcuni comuni dell’immediato entroterra che fornivano braccianti agricoli ai latifondi della costa ionica. Anche durante i lavori della ferrovia negli anni compresi tra il 1860-69 si registrarono molti casi di malaria tra gli operai delle ferrovie

In seguito all’istituzione dell’Azienda Autonoma Statale della Strada (AASS) e alla contemporanea ridefinizione della rete stradale nazionale, il nuovo tracciato della strada Ionica sostituì la vecchia viabilità con la costruzione di ponti in cemento armato ad arco sui fiumi lucani. Nel 1869 venne completata la Ferrovia dello Stato – tratto lucano (nel riquadro a destra in basso la stazione ferroviaria Policoro-Tursi)
Il ponte e la scafa sul fiume Agri lungo il Tratturo del Re
La leggenda sul miracoloso ritrovamento statua lignea della Madonna del Ponte di Policoro (Santa Maria Hospitalis Ponti), patrona della città Jonica, narra come a trovarla in una grotta su un isolotto del fiume Agri – secondo alcune testimonianze tramandate oralmente e raccolte da Vincenzo Crispino, autore di un testo sull’effige sacra (Cfr V.Crispino, La Madonna del Ponte: Patrona di Policoro. Ed. Arti grafiche Galasso, 1989) – furono alcuni pastori. Questi però nascosero la statua in una caverna nelle vicinanze del fiume. L’autore del volumetto, da altre testimonianze orali tramandare da anziani, deduce che fu un pastorello a riscoprire secoli più tardi il luogo, facendo in modo che la statua venisse portata a Policoro presso il Podere 23 Loc.Madonnella e di qui presso il castello di Policoro (sono numerose in Italia i luoghi con questa denominazione spesso con ambienti fluviali con chiese nelle immediate vicinanze). Ma il ritrovamento miracoloso della statua potrebbe effettivamente essere in prossimità del tratto di fiume Agri, tra il ponte della strada Jonica realizzato nel 1932 e il ponte della Ferrovia Metaponto Sibari realizzato nel 1869, così come ipotizza l’autore del volumetto sulla Madonna del Ponte, dove anticamente passava il “Tratturo del Re” .
Dalla leggenda alla realtà storica
Partendo proprio dalla leggenda sul miracoloso ritrovamento sul fiume Agri , riportiamo alcuni documenti storici sull’esistenza del ponte e della “scafa” medievale, ove sarebbe stata ritrovata la statua lignea risalente al XIII – XIV secolo. In questo luogo esisteva molto probabilmente un edificio gerosolomitano adibito a “hospitalia” dove sostavano pellegrini viandanti. Per poter proseguire il loro cammino, era necessario attraversare il fiume Agri (Aciris, Akiris) imbarcandosi sulla “scafa” o attraversare il ponte in legno, di cui è comprovata storicamente la presenza in alterni periodi storici. A realizzare il ponte fu la “feudataria”, Alberada di Chiaromonte, signora di Colobraro e Policoro. Esso si trovava lungo il Tratturo del Re. Si rese necessario per sottrarre vite umane al sacrificio del fiume Agri, spesso in piena. La statua lignea della Madonna, restaurata nel 2017, tiene in braccio il Bambino dalle veste di color bianco che benedice e stringe nella mano sinistra il globo. La Madonna del Ponte veste l’abito di color rosa con decorazioni in oro e mantello azzurro.
La chiesa Madonna del Ponte
La cappella che in origine ospitava la statua lignea della Madonna del Ponte, si trova limitrofa al palazzo divenuto in seguito convento gesuita e successivamente castello. La costruzione della cappella risalirebbe agli inizi del XVIII secolo. Sulla parete esterna del saccello di sinistra, poco visibile, è stata rinvenuta (O.Chiaradia, 2023 – vedi foto) la probabile data del restauro della chiesa (1899) riaperta al culto dal barone Berlingieri nel 1902. Il feudo di Policoro, nei primi decenni del XVII secolo divenne sede della Casa dei Gesuiti ai quali era pervenuto dalla famiglia Sanseverino di Bisignano che, secondo la tradizione, avrebbero chiesto a Dio e alla Madonna la guarigione di un membro della loro famiglia, sciogliendo il voto con la donazione del feudo ai Gesuiti. Ma la storia, invece, mostrerebbe ben altre motivazioni alla base dell’acquisizione del feudo da parte dei Gesuiti. Il 21 novembre 1772 i Gesuiti furono espulsi dal Regno delle due Sicilie e loro beni incamerati dal Regio Fisco. All’interno della cappella è presente il simbolo dei Gesuiti: il sole al cui interno l’iscrizione HIS “In Hoc Signo” sormontato da una croce, con gli stemmi delle due famiglie proprietarie, i Grimaldi e i Serra principi di Gerace. L’immobile, attualmente di proprietà privata, è sottoposto, assieme al castello ed altri beni, ai vincoli del Ministero dei Beni e Attività Culturali.
Una stampa del 1773, tratta dalla spedizione dell’Abbé de Saint-Non e pubblicata nel 1778 in “Voyage pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et Sicile”, mostra il Tratturo del Re in primo piano, il palazzo di Policoro, i magazzini padronali e la cappella dedicata alla Madonna del Ponte sullo sfondo. ll feudo di Policoro venne venduto all’asta e comprato nel 1791 da donna Maria Antonia Oliva Grimaldi, settima principessa di Gerace, sposata in prime nozze, nel 1777, con Giovan Battista Serra ed in seconde nozze con Pasquale Serra. Nel 1893, Francesco Serra, principe di Gerace, vendette al barone Luigi Berlingieri di Crotone il feudo con il castello con atto del notaio Ruo di Napoli per lire 3.400.000. I Berlingieri furono proprietari del feudo e degli immobili dal 1893 agli anni 50, allorquando i beni degli eredi del barone Berlingieri vennero in parte espropriati dall’Ente Riforma Fondiaria. Nel 1973-1974 alcuni beni furono venduti a privati, così come il castello e l’annessa cappella baronale. La statua della Madonna del Ponte è stata restaurata nel 2017 ad opera della dott.ssa Maria Longo (l’ultimo restauro risalirebbe al 1950), realizzando una copia per l’esposizione durante le cerimonie religiose. La statua originale ha riacquistato i colori che mostrano oggi segni di antiche pitture in oro. Restituita alla comunità, è attualmente custodita presso la chiesa madre di Policoro in piazza Eraclea. La festa della patrona di Policoro si svolge nella terza settimana di maggio.
L’ultimo dei Sanseverino principi Bisignano e l’arrico a Policoro dei Gesuiti
Paragrafo inedito della storia di Policoro, è la presenza di una Casa dei Gesuiti che produceva rendite derivanti dalla gestione del feudo.La Basilicata non ebbe riconosciuto, assieme al Molise, un proprio Collegio gesuita. Ma il Feudo di Policoro era considerato strategico per l’Ordine istituito da S.Ignazio di Loyola nel 1548. E’ stato scritto che gli aderenti alla Compagnia di Cristo erano giunti a Policoro a seguito della donazione del feudo da parte dei Sanseverino di Bisignano che assieme ai Carafa di Stigliano, i Principi di Venosa, i Guevara di Potenza, Gli Orsini di Gravina e di Muro, erano tra i principali benefattori dell’ordine riconosciuto con due bolle papali nel 1540 da papa Paolo III Farnese e nel 1550 da Giulio III Ciocchi del Monte. Ma la realtà storica evidenzia altri avvenimenti, molto più complessi, legati al trasferimento del feudo. Nel 1548 Ignazio di Loyola aveva fondato a Messina il primo Collegio, facendo dell’insegnamento la “marca” distintiva dell’Ordine che veniva protetto dal papato e dai regnanti spagnoli. Ignazio scrisse le Costituzioni dell’ordine, adottate nel 1554, che creavano un’organizzazione monocratica e disponevano un’abnegazione ed un’obbedienza docile ma assoluta al romano pontefice ed ai superiori. Il fondatore della compagnia morì il 31 luglio 1556, all’età di 65 anni. Nelle “costituzioni”, Ignazio elaborava la “Radio atque institutio studiorum Societatis Iesu” (una sorta di piano di studi), che rimarrà invariata fino al 1832. Nel testo erano esposti i principi fondamentali dell’organizzazione delle scuole, delle classi, dei contenuti, della didattica, dalle secondarie all’ Università, postulando un vero e proprio centro di potere culturale con preferenza rivolto ai figli della nobiltà del sud Italia. A Policoro, la Casa della Compagnia di Gesù aveva sede presso il grande palazzo divenuto in seguito castello. Il passaggio del feudo ai Gesuiti è controverso ed è legato alle vicende nel Regno di Napoli tra il XV e il XVI secolo. Al centro di queste vicende vi fu la casata dei Sanseverino principi Bisignano, con sedi in Calabria e Lucania, che acquistò prestigio sotto il dominio aragonese a Napoli. Questa casata si era arricchita con l’estrazione del sale da alcune saline marine della Calabria e in altri luoghi, con l’arrendamento del sale ottenuto dalla corte aragonese lo smercio in numerose fiere e mercati con la gestione della salina di Altomonte, con il possesso feudale dell’argento nella miniera di Longobucco, con l’introduzione della coltivazione della canna per la produzione di zucchero (cannamele) con la creazione dell’attività dei “zucchari” anche in Calabria attraverso l’utilizzo di personale esperto alla trasformazione giunto dalla Sicilia. Nel settore delle costruzioni navali i Sanseverino Bisignano utilizzavano materiali calabresi e lucani dove si trovavano “grandissimi alberi” necessari per la costruzione di navi, “galere et altri vascelli marittimi”, recisi nei boschi dell’Aspromonte, del Pollino (Sanseverino Lucano) e quelli della Lucania. Molti mercanti stranieri, soprattutto catalani, commerciavano i prodotti tratti dalla fiorente attività “protoindustriale” dei Sanseverino di Bisignano, che possedevano un gran numero di feudi di Calabria Citra e Basilicata dove crearono fiere e mercati, come a Senise ove venne realizzato un grande edificio aperto a “mercatori” e “scambisti” di denaro provenienti da più luoghi del regno in occasione della fiera che si teneva dal 10 al 12 maggio, anche Ebrei, presenti a Senise con una piccola comunità (in Basilicata i Sanseverino possedevano e gestivano per conto della corona aragonese i feudi ecclesiastici contesi di Policoro, Scanzano; Tricarico, Grassano, Albano, Brindisi di Montagna, Calciano, Miglionico, Craco, Senise, Chiaromonte, Francavilla, Teana, Episcopia, Latronico, Sanseverino, Carbone, San Martino, Armento, Montemurro, Rotonda). In campo agricolo introdussero la coltivazione della canna da zucchero, la liquirizia, il baco da seta, il cotone. (Cfr in proposito leggasi di: M.Sirago. I Sanseverino principi di Bisignano nel Cinquecento e le attività commerciali dei feudi marittimi. In Dialoghi Mediterranei, Periodo bimestrale dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo, 2022). Tra il tra il 1600 ed il 1601 ad alcuni mercanti fu concesso di poter acquistare dai Sanseverino Bisignano varie mercanzie, «sartie (canapi, corde,tele per vele, etc), macze (mazze di ferro e asce), pali e pali di ferro, chiodi ecc.» per un totale di 5180 ducati, per servizio della Regia Corte, da utilizzare probabilmente per le costruzioni navali. Essi però dovettero pagare ai Sanseverino il diritto di “scafa” per il passaggio «nelli fiumi de grati (Crati), lo Coscile et Manganello» per trasportare i materiali nel porto di Belvedere e probabilmente anche a Taranto, presso l’arsenale navale attraverso la “scafa dell’Agri”. I Feudi di Policoro e Scanzano nel 1527 avevano perso interesse per i Sanseverino Bisignano, tanto che essi passarono alla Compagnia di Gesù agli inizi del 1600, forse in cambio di privilegi ottenuti dalla corte aragonese. In realtà fu la caduta in disgrazia per debiti nei confronti della corona da parte di Nicolò Berardino Sanseverino, Principe Bisignano, figlio di Pietro Antonio (questi personaggi si macchiarano anche di efferati delitti all’interno della famiglia), tali ad indurre la corona spagnola ad affidare ai Gesuiti l’amministrazione del Feudo di Policoro, forse con l’assenso della moglie di lui, Isabella della Rovere Feltri, gravemente ammalatasi dopo la morte in età adolescenziale dell’unico figlio maschio. Nicolò Berardino Sanseverino venne arrestato per “emendazione a vita” nel castello di Gaeta e successivamente portato nella sua dimora a Chiaia “in luogo di carcere”, riuscendo però a fuggire a Pesaro dove vivevano parenti della moglie, Isabella della Rovere Feltri, figlia del duca di Urbino, Guidobaldo della Rovere, che aveva sposato nel 1566. Nicolò Berardino Sanseverino condusse una vita dispendiosa tra feste, giostre di cavalli e doni costosi, i cui debiti furono causa di dissidi con la moglie, benefattrice dei Gesuiti (aveva donato all’ordine alcuni beni posseduti a Napoli).
Il feudo di Policoro, dai Gesuiti ai nuovi signori
Dalla metà del XVIII secolo la Compagnia di Gesù, divenuta proprietaria del Feudo di Policoro accrebbe potere e reputazione, compiendo operazioni politiche e soprattutto economiche su vasta scala per conto dei regnanti di Spagna a Napoli o per conto dei signori locali graditi alla corte di Napoli. I loro oppositori, anche religiosi (Francescani e Domenicani) li indicavano come essere troppo influenti nelle varie Corti e con forti interessi economici e politici. Molti monarchi europei progressivamente si preoccuparono quindi del loro accresciuto potere ma soprattutto per le interferenze politiche capaci di influenzare scelte politiche. La contemporanea nascita all’interno del mondo cattolico nel ‘600 della corrente giansenista (da Giansenio, vescovo di Ypres in Belgio), che proponeva invece una riforma della Chiesa in senso rigorista, vedendo nei gesuiti i fautori di un cattolicesimo facile e “devozionistico”, di fatto però lassista nella morale, agli albori dell’illuminismo, con il controllo sulla vita della Chiesa (nomina vescovi ecc) spinse il papato a riconsiderare il ruolo della Compagnia di Gesù nella Chiesa, vedendo nell’ordine uno dei principali ostacoli alle riforme, sebbene i regnanti fossero in generale favorevoli ai gesuiti (molti dei quali erano influenti confessori della nobiltà). Le pressioni sul Papa, scaturite anche da alcuni particolari eventi, come l’attentato contro il re Giuseppe II del Portogallo e gli scandali finanziari costrinsero papa Clemente XIV a promulgare il decreto di soppressione dell’ordine. I gesuiti furono espulsi, nell’ordine, dal Portogallo e colonie (1759); Francia (1764); Spagna e colonie, Napoli e Sicilia, Parma e Piacenza, Malta (1767); Monarchia asburgica (1782). Fu il risultato di una serie di esigenze politiche più che di una controversia teologica e il loro “simbolo” venne cancellato dalle chiese e luoghi di culto. A Policoro, la Casa della Compagnia di Gesù nel 1767 aveva un rendita che assommava a 7.268,89 ducati, inferiore solo a quella delle 4 sedi più ricche che erano presenti nella capitale del regno, Napoli (Colli Massimo, S.Francesco Saverio, Probazione, S.Ignazio). Con soli 5 gesuiti presenti, la Casa dei Gesuiti di Policoro risultava essere al quinto posto per rendita sul totale di 33 Case e Collegi censiti dopo la loro soppressione del 1767 (Cfr. A. Tanturri. I gesuiti nel Mezzogiorno: modalità di impiego del personale e fisionomia dell’offerta didattica -1700/1767. In L. Cosi – M. Spedicato (eds). Si deve probabilmente all’opera dei gesuiti la costruzione della cappella per ospitare la statua della Madonna del Ponte (forse iniziata nel 1717). Banditi dal Regno di Napoli dal 1767 sino al 1804, cioè per 37 anni, furono dallo stesso Ferdinando IV richiamati nel regno dopo che li aveva cacciati, applicando la bolla di Pio VII che ristabilì la compagnia abolita dal Papa Clemente XIV.
Santa Maria Hospitalis Ponti (la statua della Madonna del Ponte)
Da controversi documenti storici, alcuni giudicati falsi dagli storici, si apprende che Alberada di Chiaromonte, signora di Colobraro e Policoro, con il consenso del secondo marito Riccardo Senescalcus donava nel 1118 all’abbazia della SS. Trinità di Venosa il ponte sull’Agri presso Policoro, unitamente alla chiesa e all’ospedale di S. Maria di Scanzano e relative pertinenze, a condizione che il monaco Tristano potesse dimorarvi fino alla morte (Houben, 1995, n. 96, p. 331). Verosimilmente, la costruzione di un ponte nei pressi di Policoro era iniziata intorno al 1100 per volontà del dominus normanno Ruggero di Pomareda, marito di Alberada. La posizione strategica del ponte e degli istituti ecclesiastici e di assistenza sorti intorno ad esso calamitarono l’attenzione di ben tre monasteri (la Ss. Trinità di Venosa (Houben, 1995), SS. Elia e Anastasio di Carbone (Fonseca – Lerra, 1992) e S. Maria di Pisticci, che se ne contesero per decenni la titolarità, producendo i falsi documenti di cui sopra (Cfr F. Panarelli e D. Gerardi. Fonti per la storia degli ospedali in Basilicata secc. XIII‐XVI: spunti di indagine. RiMe, Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, numero 4, giugno 2019). La studiosa medievalista Vera Von Falkenhausen (Cfr. V. Von Falkenhausen. La diocesi di Tursi – Anglona in epoca normanno-sveva. Terra d’incontro tra Greci e Latini. In Santa Maria d’Anglona, Atti del Convegno internazionale di Studio, 13 15 Giugno 1991. Condedo Editore, Galatina -LE- 1996) ripercorre la storia del luogo sul fiume Agri, situato sulla strada per Taranto nel tratto da noi individuato dal Tratturo del Re caratterizzato da una “costa di una certa importanza strategica in epoca bizantina, anche se in un quadro ambientale completamente diverso da quello attuale, con l’enorme trasformazione del territorio conseguenti la bonifica degli ultimi cento anni. Allora la costa ionica per quasi tutto il tratto lucano e calabrese era piuttosto deserta. Ora è sparita la densa Foresta del Pantano di Policoro che separava Tursi dalla ionica nel secolo scorso «une véritable forét vièrge», descritta nel secolo scorso dal Lenormant, «large de plusieurs kilomèet s’étendant en longueur de la mer aux montagnes, la rive gauche du Sinni»”. I fiumi erano più profondi e ricchi d’acqua: nel Sinni, ad esempio, navigabile nell’antichità secondo Strabone (VI, 264), ancora nel XII le navi entrarono, trovandovi, stando ad Edrisi, eccellente ancoraggio e l’Agri, che ora ha cambiato il percorso, secondo un documento del 1232, almeno nel tratto vicino alla foce, poteva essere percorso da barche capaci di portare anche dieci cavalli“. Secondo un documento giudicato falso dagli storici “Riccardus Siniscalcus magni quondam Rogerii filius una cum domina Albenda uxore” donarono all’abate Nilo ed al monaco Tristano di S. Anastasio di Carbone “tenimentum sanctae Mariae Hospitalis Ponti” con la chiesa San Pietro de Gunna (non esiste il toponimo attuale), eretta dagli stessi fratelli, con tutti i suoi possedimenti siti nei pressi del fiume Agri.dal documento tradotto dall’arcivescovo di Urbino, Santoro (Cfr Paolo Emilio Santoro, Storia del Monastero di Carbone annotata e continuata da Marcello Spena. Napoli, Pellinzoni editore, 1859) si rilevano anche i confini contesi sulla costa Jonioca da parte del Monastero S.Anastasio e S.Elia di Carbone tratto dal presunto documento sottoscritto da Boemondo ” …Abbiamo ratificato questo nostro privilegio, e confermato tutto quanto predetto, ma anche il ponte del Pollicorio, insieme col venerabile e sacro monastero della Vergine del Ponte, e la sua chiesa, insieme con la chiesa della beatissima Vergine, che è in Scanzana, insieme con i territori per questa confina, cioè da occidente, come discende dalla fonte che si chiama della Cromida, l’insieme di Cepollare, e per la radice del monte che si chiama Marica, quindi discende per una via diritta al fiume che si chiama Chalandra (ndr attuale Cavone), e in come il detto fiume scende al mare e per il lago al mare alla chiesa di “Sancio Giorgio”, e dalla chiesa di San Giorgio saliva alla fonte che si chiama Ducato, e da questa fonte saliva alla suddetta fontana di Tadalius dello Cromida. Tutte le suddette terre, essendo state ingiustamente tolte ed usurpate dalle dette Ecclesiae, gli restituiamo, acciò che d’ora innanzi le possieda dovunque senza alcun impedimento o turbamento, che alla maniera dei predetti monasteri della beata Vergine, che è sul predetto ponte di Pollicorio e Scanzana, tennero e possedettero, e tutti i predetti beni, acciò che il suddetto monastero del Beato Anastasio, e suoi abati, e successori in perpetuo, abbiano e posseggano, senza qualsiasi ostacolo….”
Nel Medioevo, a seguito di eventi alluvionali eccezionali e la distruzione delle foreste a monte, il corso dei fiumi subì drastiche modifiche con l’impaludamento della pianura tra Metaponto e Policoro e il conseguente ampliamento delle aree alluvionali palustri verso il mare con la creazione di dune, stagni salmastri e deviazione delle foci fluviali. Anche il ponte(in legno secondo alcune ipotesi) sul fiume Agri, citato in alcune fonti storiche, dovette essere più volte ricostruito in epoche successive, assicurando il guado attraverso l’uso di “scafe”, ovvero imbarcazioni adibite al passaggio di uomini, animali e merci. Nell’area è ancora presente il toponimo locale “la scafa” a testimoniarne la presenza in passato di questo servizio che avveniva dietro il pagamento allo “scafarario” (addetto alla scafa). Il ponte e la scafa erano ubicati in prossimità del ponte della ferrovia sul fiume Agri realizzata nel 1869 con l’inaugurazione delle stazioni ferroviarie di Scanzano e Policoro (vedi cartine). Sul ponte e sulla scafa dell’Agri esercitavano nel XIV-XV secolo il proprio controllo i Cavalieri dell’Ordine Melitense che gestivano anche i servizi del limitrofo ospedale di cui non sono rimaste tracce visibili, ove è presumibile operasse una piccola comunità di religiosi per offrire assistenza e protezione ai viandanti. Il castello e il controllo del ponte-scafa furono sottratti “da Guglielmo I ai Chiaromonte dopo una rivolta, aggiunto da Guglielmo II all’estesa contea di Andria il cui titolare, Ruggero, alla morte del re fu uno dei candidati al trono normanno” (V. Von Falkenhausen, Op.cit). Federico II si trattenne due volte nel castello di Policoro,nel 1231 e nel 1233, e nel 1234 e provvide al suo restauro… nel 1232 Federico II concedette ai monaci “il diritto di mantenere una barca, capace di trasportare dieci cavalli, per il passaggio libero dell’Agri”. “Cfr. V. Von Falkenhausen, Op.cit.). Tancredi affidò i castelli di Policoro e Colobraro all’ammiraglio Margarito di Brindisi, conte di Malta, che era uno dei suoi generali più fedeli e capaci.
La scafa e il ponte sul fiume Agri nel XV secolo
Nel 1232 il ponte di Policoro sull’Agri probabilmente, a causa delle continue piene non esisteva più o era diventato inagibile. Continuò però funzionare la “scafa” che dal XIV secolo era divenuta bene dei Sanseverino principi Bisignano che ricavavano ingente denaro per il passaggio di merci, uomini e animali. In un documento risalente al XV secolo un agente dei Sanseverino, venne chiamato a prestare giuramento sulla titolarità della gestione della scafa sull’Agri. La scafa infatti “…venne posseduta da Venceslao Sanseverino, duca di Tricarico e di Venosa, e dal figlio Ruggero Sanseverino. Alla morte di quest’ultimo passò sotto la giurisdizione di Antonio Sanseverino, duca di San Marco, e infine al figlio Luca Sanseverino principe di Bisignano “ (Cfr nota di P. Dalena. Passi, porti e dogane marittime dagli angioini agli aragonesi. Adda editore, Bari, 2007).
Si ha notizia come il 9 gennaio 1404 con Istrumento del notaio Nicola Malizia di Rocca Imperiale la “nomina, da parte dell’università di Policoro, dei sindaci delegati a prestare il giuramento di sicurtà al conte d’Altomonte e Corigliano, Ruggero Sanseverino, e riserva circa i rapporti col duca d’Amalfi, padre del detto conte Ruggero”. Il documento comprova come all’epoca erano i Sanseverino Bisignano proprietari del feudo (Cfr . Archivio di Stato di Napoli – Archivi privati. Inventario Sommario, II Edizione, Roma, Volume I, 1967).
Intorno al 1475 venne ascoltato il giuramento presso la Regia Camera Sommaria fatto da Luca de Donangelo di Policoro, agente incaricato presso la “scafa sul fiume Agri” su istanza del Signore di Bisignano circa la dimostrazione dei diritti della privativa su “una scafa nel territorio di Policoro sul fiume Acri”. Dinanzi “al magnifico uomo, Loysio Capice de Naples, commissario regionale delle province del Principato di Citra e della Basilicata, o suo sostituto, e all’uopo appositamente nominato dalla Regia Camera delle Sommaria, quale contenuto nel suo incarico, dall’illustrissimo dottore signor Giovanni Andreas de Senio, capitano della terra Montis Morri e come capitano legittimo agente in nome e per la parte della serenità del signore Luce de Sancta Severinus (Sanseverino), principe di Bisiniano (Bisignano) e sopra l’informazione per avere i passi concernenti i diritti dei passi di cabellas (vendita al dettaglio), plathea (piatti), ponti, scafa e altre qualunque rendita città, terre, campi e luoghi, dissi al signor principe cosa e dove tiene e possiede nelle dette provincie del Principato e della Basilicata di convenire a coloro che passano per la detta scafa, per i quali il passaggio è realmente e per quale quantità di dieta si percepirà e si dovrà percepire, come era solito essere e mettere congiuntamente o separatamente, ecc. non limitandosi a provare ciascuno e tutti, ecc. In primo luogo, espone, offre e dimostra il modo in cui il suddetto agente intende nutrirsi…”
Luca de Donangelo, esponeva il diritto di esigere il passus nella terra di Policoro e il suo territorio in tutti i suoi diritti e giurisdizioni “…con il potere di esigere il ricordo del passaggio e di tenere le scafe sul fiume Agri dallo stesso territorio”. Egli elencava i precedenti signori possessori in virtù del quale “… manterrà la pace in pace ritirando il detto passaggio dai passanti e tenendo la detta scafa sul detto fiume…il solito richiesto e percepito dai passanti, e che il passaggio era lì pagato e ricevuto, e similmente da coloro che passavano per la detta scafa. …che il suddetto passaggio non solo fu richiesto, ma fu percepito dai predetti progenitori del detto principe di Bisignano, e dal principe stesso, nonchè dagli altri signori sopra menzionati che detenevano e possedevano la detta terra e territorio di Pollicoro, e si esigeva dai passanti nella dieta della terra e territorio di Pollicorio, ma anche per la parte degli affittuari e possessori della detta terra e territorio di Pollicorio, e per mezzo del loro agente e lui stesso fu preteso, percepito ed estorto nella terra di Rocca Imperiale da coloro che erano fuggiti e non pagarono o tra i segni consueti non avevano avuto cura che il detto passaggio non fosse frodato con frode , così era ed è vero, noto e manifesto, chi mette, ecc”.
Luca de Donangelo elencava successivamente nella sua fede quanto da egli venne” …preteso, percepito ed estorto da nostri predetti o loro castellani e supplicanti procuratori, e ai passanti, sia per merce che per quantità, come più particolarmente si legge di seguito.
- Per ogni mulo carico di panni bianchi venivano chiesti dodici grani per il passaggio.
- Allo stesso modo, per ogni mulo carico di seta o seta, era richiesto è consuetudine chiedere diciotto grani per un passaggio. gr. 18
- Anche da qualsiasi cavallo o bestiame che passa con un bardo è stato chiesto, è stato percepito ed è consuetudine chiedere quattro grani gr. 4
- Allo stesso modo, ogni estate passante con bardi veniva chiesto e ricevuto, ed era consuetudine chiedere due grani 2
- Anche da qualsiasi altra bestia estiva carica di cresta o di nascita si chiedevano, si percepivano, ed era usanza esigere otto grani 8, gr. 8
- Per ogni cavallo e bestia carica di pettine o di lana. gr. 10
- Anche per ogni cento maiali passati attraverso i suddetti si chiedeva il territorio, si percepivano, ed era consuetudine chiedere dieci zizzanie e un maiale per la carneficina. tr. 10.
- Inoltre, per ogni miglio di tutto ciò che è passato attraverso il suddetto terrore
- Il torium di Pollicorius fu chiesto e ricevuto, ed era consuetudine chiedere dieci tareni. tr. 10 TARÌ (il Tareno, Tarì è il nome di una moneta aurea di origine araba coniata da Roberto il Guiscardo ad Amalfi)
- Anche per ogni centinaia di vacche che passa attraverso il suddetto era richiesto il territorio ed era consuetudine esigere venti tareni 20
- Da chiunque passi attraverso la scafa situata presso il fiume Agri “erano richieste ad ogni uomo che passava presso la detta scafa era consuetudine chiedere un grano uno. gr. 1
- Allo stesso modo, per ogni animale che passava attraverso la suddetta scafa, venivano richiesti due grana ed è consuetudine chiedere due grana. (f. 78t.) II
Dal Tratturo del Re alla ferrovia e alla Via Nazionale dello Jonio
Presumibilmente nel mese di marzo dell’anno 1525, Leandro Alberti, umanista, geografo, frate domenicano e inquisitore a Bologna dal 1550 al 1551 (o al 1552, anno della sua morte. Suoi furono processi contro alcuni eretici), che per conto del suo ordine si recò in Basilicata e Calabria. Nella sua opera “Descrittione di tutta Italia” annota il suo arrivo presso il fiume “Acri” (Agri) con l’esistenza del “ponte in legno” che in quell’anno risultava ricostruito: “…scendendo al lito del mare, vedesi la foce del fiume Acri soprannominato, per la quale si scarica nella marina. E’ detto fiume molto cupo, e grosso d’acqua vicino al mare. Onde non si può ivi passare se non per il ponte di legno, dal mar due miglia discosto. Passato detto fiume, et facendo a i monti dodici miglia appare Monte Albano (Montalbano Jonico) e poi le rovine di Petrolla appresso il fiume Salandra (Salandrella – Cavone)…”. Secoli più tardi il ponte in legno non esisteva, continuando ad esserci solo “la scafa”, così come mostra la carta del regno di Napoli del 1821 che ne indica il toponimo. La scafa sul fiume Agri fu descritta dal viaggiatore Keppel Craven che, giungendo a Policoro nel mese di Giugno 1818, annotava le condizioni di salute dei braccianti dovute alle febbri malariche che colpivano anche talvolta i viaggiatori che si avventuravano nelle terre paludose, alimentando quel detto noto anche negli anni 50 del secolo scorso ”A Pllicore chi ci va, ci more. Chi va a Policoro muore” che circolava nei paesi vicini. Si moriva di malaria, di perniciosa, di disagi, oppure annegati nei guadi infimi del Sinni e dell’ Agri, preferendo, fino alla costruzione della linea ferroviaria e per chi se lo poteva permettere, di prendere il treno la cui linea ferroviaria da Taranto a Reggio Calabria venne completata nel 1869 o seguendo la Via Nazionale dello Jonio completata nel 1932 nel tratto lucano fino a Taranto in seguito all’istituzione dell’Azienda Autonoma Statale della Strada (AASS) e alla contemporanea ridefinizione della rete stradale nazionale, il nuovo tracciato della strada Ionica sostituì la vecchia viabilità con la costruzione di ponti in cemento armato ad arco sui fiumi lucani. Nel 1869 era stata completata la Ferrovia dello Stato – tratto lucano.
* Pandosia ringrazia Antonio Bavusi, per le notizie storiche, Ottavio Chiaradia, per le immagini a corredo dell’articolo, Vito L’Erario per le cartografie GIS sul Tratturo del Re, Adriano Castelmezzano, guida naturalistica-ambientale, per le notizie sulla toponomastica di Policoro.