di Pandosia (Agosto 2022) – Creative Commons Attribuzione – Non commerciale citando la fonte


“Noi siamo  le pecore e i buoi dei macellai e dei proprietari di bestiame” (Rocco Scotellaro, L’Uva puttanella, 1953)
La festa di S.Antonio l’ho osservata in Lucania…andai apposta con Rocco Scotellaro…poi in basso, in paese, si svolgeva una rappresentazione teatrale: un dialogo, in piazza, un incontro tra due contadini a cavallo: uno vestito da bracciante, l’altro da signore feudale: una rivendicazione di liberazione contadina tra i frutti della terra lavorata…” (Carlo Levi, 1974)
“Il possesso dei beni sancito da epigrafi, documenti e carte catastali sono un tentativo da parte dei potenti di legittimare il controllo sociale sulla realtà che è invece in continua trasformazione, secondo codici verbali non scritti”

Tricarico. Statua di Sant’Antuono che indica il Cammino del Santo (Chiesa S.Maria dell’Olivo o di Sant’Antuono- Foto A.Bavusi – 2016)

Dopo aver effettuato i tre giri intorno alla chiesa di S.Maria dell’Ulivo, gli animali ricevevano la benedizione di Sant’Antonio Abate e le maschere delle mucche (con i nastri colorati) e dei tori (con il velo scuro), al suono dei campanacci, sfilano lungo le vie del paese il giorno dedicato a Sant’Antonio Abate (17 gennaio). Fino agli anni 80, il giorno della vigilia della festa, veniva acceso un falò sul pianoro di fronte la chiesa. Il corteo è scortato da capomassari, vaccari e sottomassari. La mandria umana è tenuta dall’occhio vigile del cacciatore (nella foto, con il santino di Antonio Abate appuntato sul cappello) che la richiama all’ordine (foto A.Bavusi – 2008)

Il fuoco nella rappresentazione del Carnevale (Foto A.Bavusi 2006)

Tricarico. Chiesa di S.Maria dell’Olivo (chiusa per restauro da ben 43 anni, epoca del terremoto del 1980) – Foto A.Bavusi 2022

Lapide che si troverebbe all’interno della Chiesa di S.Maria dell’Olivo o di Sant’Antonio Abate

Cartografia di Tricarico del 1618, con il particolare della Chiesa S.Antonio di Viena e limitrofa “Coserie de corami”

Tricarico. Ruderi chiesa extra moenia della Trinità (pianta da quadro di unione catastale e foto – maurilio 183)

Particolare della chiesa diruta della S.S. Trinità nel territorio di Tricarico tratto dal cabreo della Commenda di Grassano (1737 – in N. Montesano, A. Pellettieri, Op.cit)

Viabilità antica di Tricarico (sulla mappa Rizzi Zannoni, a.1807). In nero la Via Appia (così denominata dopo il 1928), nel periodo borbonico denominata invece “Strada Regia di Basilicata” (dal bivio di Auletta, attraverso Potenza fino a Matera) che ripercorreva tratti dell’antica Via degli Stranieri e tratturi regi locali. La Chiesa della Trinità si trovava su un importante itinerario tratturale verso Montepeloso (Irsina) e Grassano, in collegamento con la viabilità lungo il fiume Basento (consentiva di abbreviare le distanze da e verso il Basento). Da notare l’allocazione delle proprietà delle antiche famiglie nobiliari di Tricarico, Ferro e Putignano. Da notare anche gli ingressi principali della città di Tricarico poste lungo l’antica viabilità.

Affresco raffigurante S.Antonio Abate (XIII sec. – cripta chiesa SS Trinità di Venosa – foto A.Bavusi)

Reliquiari di S.Antonio Abate (in alto) e S.Potito (in basso)  – Foto archivio inventario on line Min BB.AA.CC.

Foto tratte dal volume di S. Epifani (Op. cit.) che mostrano la nicchia della reliquia proveniente da Tricarico e il reliquiario con reliquia proveniente da Tricarico

Tricarico

Il paese, a cavallo tra le province di Potenza e Matera, era situato lungo importanti e antiche vie di comunicazione, divenendo snodo politico e commerciale tra le città del sud dell’Italia, unico centro della regione rappresentato con minuziosità di particolari descrittivi in una significativa cartografia edita a colori nel 1618 a Colonia “Theatri praecipuarum totius mundi urbium” (Teatri delle principali teatri del mondo intero) di Georg Braun e Franz Hogenberg. Può esprimere idealmente la complessità dell’identità storica, geografica e culturale della Basilicata. E’ quanto riportato nel saggio del prof. Armando Sichenze, dal titolo “Città Natura in Basilicata, Edizioni Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1999). A Tricarico “… si scopre il mondo sofferto e conflittuale in cui realtà diverse possono diventare id-entità (stessa cosa)”. A Tricarico il limite del bosco che ricopre i monti dell’interno della regione incontra le città contadine del materano con il “…complicarsi storico di questo limite rafforzato dalla coesistenza urbana, nel tempo, di molteplici etnie e culture che si rappresentano sia in senso antropico sia storico che a Tricarico lasciano segni identitari incancellabili”. Non solo nell’urbanistica, aggiungiamo, ma anche nelle differenze tra classi ricche e povere nel paese dalle “cinque anime, che ha stratificato una memoria storica, quasi sospesa nel tempo, in attesa di dare senso ad una coscienza identitaria forte ma allo stesso tempo destinata ad essere divisa, mentre le direttrici di comunicazione si sono spostate a valle, lungo la strada a scorrimento veloce “Basentana”, che ha relegato i centri abitati delle opposte sponde del fiume ad un nuovo isolamento geografico e al rischio di una omologazione consumistica con la conseguente completa cancellazione della diversità e dell’identità.

Sant’Antuono

E’ la denominazione utilizzata ancora oggi nel sud Italia e in Basilicata dalle comunità, per indicare l’eremita Antonio del deserto (Coma, attuale Qumans 251 d.C. – deserto Tebaide, 356 d.C.), la cui lunga vita venne scritta per la prima volta da Atanasio, vescovo di Alessandria, già negli anni successivi alla sua morte avvenuta a 105 anni (per alcuni a 107 anni). Le ragioni della popolarità ed attualità del taumaturgo vissuto nel IV secolo d.C  in Egitto approdano in occidente adattando la religiosità popolare al culto del santo che affondava le proprie radici nella natura del territorio. Così come a Tricarico (Basilicata) durante il carnevale, dove per un giorno gli uomini prendono le sembianze degli animali, e si affidano alla benedizione e protezione del patrono Sant’Antuono. Lo spirito della natura e gli animali sono riproposti nella narrazione di Atanasio che descrive l’incontro di Antonio con Paolo di Tebe sfamati durante l’eremitaggio da un corvo che porta loro un pezzo di pane. Ma Antonio è costretto a peregrinare per poter vivere in solitudine. Dalla Tebaide al Mar Rosso, egli porta il Cristianesimo durante il periodo dell’imperatore Costantino, operando guarigioni miracolose e liberazioni dal demonio. Fonda una comunità di Padri del Deserto, porta conforto ai cristiani perseguitati ad Alessandria dai seguaci dell’arianesimo che li vogliono condannare per eresia. Il testo di Atanasio che narra la vita di S.Antonio Abate ebbe successive trascrizioni in latino che ebbero altrettanto successo anche in occidente. Dopo l’anno mille, i padri del deserto e Sant’Antonio Abate in particolare, preceduti da queste storie miracolose, ricevettero il consenso dalle gerarchie ecclesiastiche in occidente, presso alcuni ordini religiosi, nelle corti feudali costrette ad assecondare il popolo. Ecco allora Antuono prendere sotto la sua protezione anche i nuovi simboli (il maiale, gli animali, il bastone a forma di tau, il campanello, il fuoco sacro). S. Antonio Abate (il primo Abate della Chiesa d’Occidente) è ricordato nel Calendario dei Santi della Chiesa Cattolica e di quella Luterana il 17 Gennaio (giorno in cui sarebbe morto), mentre la Chiesa Ortodossa Copta lo festeggia il 31 Gennaio (ventiduesimo del mese di Tobi)

Il viaggio delle reliquie contese in occidente

Nel 561 le reliquie vennero traslate ad Alessandria d’Egitto, presso la chiesa di San Giovanni. La leggenda di Teofilo narra che il luogo segreto ove avvenne la sepoltura di S. Antonio d’Egitto avvenne seguendo una stella e le indicazioni dell’Arcangelo Gabriele apparso ai monaci in preghiera. Verso il 635, in seguito all’occupazione araba dell’Egitto, furono portate a Costantinopoli. Nel XI secolo il nobile francese Jocelin de Chateau Neuf le avrebbe ottenute in dono dall’Imperatore di Costantinopoli e le portò in Francia, nel Delfinato. Nel 1070 il nobile Guigues de Didier fece costruire nel villaggio di La Motte presso Vienne una chiesa dove vennero traslate (per il viaggio delle reliquie e la figura del santo taumaturgo leggasi di L. Fenelli, Dall’Eremo alla stalla, Storia di S. Antonio Abate e del suo culto. Editori Laterza, Bari, 2011). Proprio nella città di Vienne, nella cattedrale dedicata a San Maurizio, martire della leggendaria legione romana tebana sterminata da Massiminiano per essersi rifiutata di uccidere la popolazione di fede cristiana, si tenne un Concilio (1311 – 1312) che decise lo scioglimento dell’Ordine Templare, dopo la morte di Bonifacio VIII, con la condanna postuma del papa ad opera di Filippo il Bello e il trasferimento dei beni templari all’Ordine degli Ospidalieri di San Giovanni, compresi i beni in Basilicata. Il grande successo che riscuotevano le reliquie di Sant’Antonio Abate in occidente si tradusse ben presto i Francia in una disputa sul possesso delle reliquie tra i Benedettini e e l’ordine dei cavalieri ospitalieri sorto con il compito di occuparsi dell’assistenza di ammalati e pellegrini che giungevano numerosi in cerca di guarigione, solo in parte risolta con il riconoscimento da parte di Papa Urbano II dell’Ordine Ospedaliero dei Canonici Regolari di Sant’Agostino e Sant’Antonio Abate, denominati “Antoniani” (sull’argomento leggasi l’interessante saggio di A. Foscati, I tre corpi del santo. Le leggende di traslazione delle spoglie di Sant’Antonio Abate in occidente. In Hagiographica, XX, 2013). Ma il successo fu sicuramente devozionale, al punto che le reliquie del santo taumaturgo divennero addirittura tre, ubicate in luoghi diversi, con il moltiplicarsi dei patronati del santo in Europa ed in Italia, a seguito del proliferare dei luoghi di culto dei monaci “Antoniani” anche nel Regno di Napoli e a Tricarico, a partire dal XIII secolo, preceduti dalla fama del taumaturgo degli indemoniati, degli ammalati del fuoco di S. Antonio (herpes zoster) o dall’indigestione della “malerba”, l’ergot prodotto dalla segale cornuta, coltivata in sostituzione del raro e costoso frumento, cibo destinato per produrre la farina e il pane per le classi agiate. Il fungo Claviceps purpurea del genere Cordiceps, capace di sviluppare, se ingerito, un alcaloide che procura allucinazioni, intossicazione e morte. L’ergotismo era un flagello anche nell’antichità nel meridione d’Italia e in Basilicata, anche se non esistono testimonianze sulla sua diffusione, se non attraverso i culti legati a Demetra – Persefone in Magna Grecia, o a Roma nei misteri elusini nei quali si procurava intenzionalmente le allucinazioni utilizzando l’ergot lasciato macerare in una soluzione acquosa per scopi iniziatici, sacerdotali e per la premonizione del futuro. Anche nel Medioevo in Calabria e Basilicata era presente l’ergotismo, una neurotossina legata, dunque, all’alimentazione dei poveri, così come la malaria (il lavoro agricolo condotto in luoghi malsani), di quanti si ammalavano, considerati indemoniati a causa della pazzia e agli effetti del fungo, quali convulsioni e spasmi dolorosi, parestesia, allucinazioni, mania, psicosi (sull’argomento leggasi il saggio di A.Tarsia, Il Pane e il Fuoco, l’ergotismo nel Meridione d’Italia, Aracne Editrice, 2011). Gli Hospitalieri Antoniani curavano gli ammalati, considerati indemoniati o accusati di stregoneria, con la preghiera e l’uso di piante ed unguenti, che utilizzavano il grasso del maiale assieme ad essenze vegetali, come emolliente e lenitivo delle piaghe provocate dal fuoco di Sant’Antonio. Il maiale veniva associato in occidente come animale simbolo nelle rappresentazioni del Santo, proprio per la diffusione dell’allevamento di questa specie che talvolta costituiva motivo di preoccupazione per l’igiene pubblica e la pubblica incolumità, specialmente nei centri abitati, dove le macellazioni si svolgevano spesso anche attraverso rituali magici arcaici, anche cruenti, pertanto spesso vietati dalle autorità civili e religiose (Cfr sull’argomento leggasi i saggi dell’antropologo E. Spera, Inizio del Carnevale a Tricarico, in Quaderni Scienze Storico Politiche, Magistero Università degli Studi di Bari, n.2, 1982-1983; V.M. Spera, Il Gallo di Sant’Antonio, competizioni rituali di Carnevale. Rivista Appennino – Consiglio Regionale di Basilicata, n. 2 – 2016). “L’associazione di Antonio con l’animale è documentata a partire dal Trecento, in perfetta coincidenza con il momento di massima espansione dell’ordine dei canonici…con bolla di papa Leone X i maiali dell’ordine degli Antoniani potevano vagare solo se provvisti di campanella per evitare incidenti di ordine pubblico. La campanella era inoltre utilizzata dai questuanti antoniani nelle raccolte di elemosine, per annunciare il loro arrivo e sollecitare i fedeli alle donazioni” (Cfr. L.Fenelli, Op cit). A Tricarico il campanello, simbolicamente attaccato al bastone a forma di Tau di Sant’Antonio o nelle sue mani (in alcune rappresentazioni anche al collo del maialino) è per associazione sonora sostituito dal campanaccio, portato durante il carnevale dalle maschere dei Tori (più grande) e delle mucche (più piccolo o di sonorità differente) a simboleggiare la transumanza assicurata attraverso la richiesta di protezione al Santo (la benedizione degli animali di fronte la Chiesa di S. Antonio Abate o Chiesa di S.Maria dell’Olivo non si svolge più. Dagli anni Ottanta si svolge invece il rituale delle maschere durante il carnevale, che compiono i tre giri intorno alla chiesa).

Il miracoloso ritrovamento delle reliquie di S.Antonio Abate a Tricarico

Non è chiaro come siano giunte e quando a Tricarico, più precisamente presso la chiesa e grancia Trinità extramoenia, situata sull’antico tratturo che collegava Tricarico, attraverso le falde di Serra del Cedro, antico insediamento fortificato lucano, luogo della transumanza verso marine dello Jonio, verso Irsina, Gravina e la Puglia. La chiesa diruta della S.S. Trinità, ex grancia Templare transitatato alla Commenda dei Cavalieri di San Giovanni di Grassano, è descritta nel cabreo redatto nel 1737 dal Commendatore Chyurlia come “diruta” (N.Montesano, A, Pellettieri. La Commenda di Grassano attraverso un inedito cabreo del 1737. In Quaderni n. 2 del Centro Studi Melitensi – Taranto. Arti Grafiche Cressati, Taranto, 2004). L’abbandono dipese certamente dalla perdita di centralità del luogo come snodo di comunicazione, ma anche da motivi religiosi e devozionali non ancora studiati in assenza di fonti storiche e documentali.

La chiesa della Trinità, a pianta a croce latina (visibile sul foglio di mappa del quadro di unione catastale) venne forse edificata, secondo alcune fonti storiche non documentate, nel XIII secolo, pervenuta all’Ordine Gerosolomitano in seguito alla soppressione dell’Ordine dei Templari nel 1312 su decisione di Clemente V “con dappiù di 1009 tomoli in 12 appezzamenti con la distrutta chiesa omonima” (G. Gattini, in Note storiche sulla comunità di Grassano, a cura di Innocenzo Pontillo, Quaderni Grassanesi, vol.10, giugno 2000).

Le reliquie di S. Potito martire a Tricarico, assieme a quelle di Sant’Antonio Abate secondo alcune fonti locali (Cfr C.Biscaglia, in MUDIT, Museo Diocesano di Tricarico, sezione collezioni) risalirebbero al “al 22 febbraio 1588 le prime notizie sulle reliquie di S. Potito martire, allorquando il vescovo Giovan Battista Santonio – come si legge negli Atti della Santa Visita condotta in quell’anno nella diocesi di Tricarico – le esaminò assieme ad altre che erano custodite in due cassette di legno rivestite di stagno e di un panno di seta verde, chiuse a doppia chiave e riposte in un armadio a muro della cappella del SS.mo Corpo di Cristo nella cattedrale di Tricarico.Nell’una erano conservate molte ossa e frammenti di ossa del capo e delle membra di S. Potito, insieme ad una lapidetta di marmo su cui erano incise queste parole: “Reliquia sancti Potiti martiris”, e molti altri piccolissimi frammenti delle stesse ossa avvolti in un panno di cotone e riposti in un vaso antico di terracotta; sempre nella stessa cassetta furono rinvenute altre schegge di ossa e ceneri racchiuse in un panno di lino, ma senza alcuna scritta. Nell’altra cassetta erano, invece, custodite le reliquie di S. Antonio Abate, segnalate da un’identica lapidetta di marmo su cui era inciso questo testo: “reliquia sancti Antonij abbatis” e, riposte in un antico contenitore rotondo in legno, c’erano le reliquie di S. Giovanni Battista, S. Pietro apostolo, S. Proculo vescovo, S. Andrea, i Santi dodici fratelli, così come scritto su una pergamena ivi riposta. Al vescovo Santonio, che chiedeva spiegazioni sulla provenienza di tutte quelle reliquie, il canonico Marchisio Vitale di 58 anni testimoniò, a nome di tutti i canonici e presbiteri presenti, ciò che aveva appreso da suo padre Vitale de Vitalibus: quelle reliquie, contenute nelle stesse cassette e di cui fino al 1506 non si aveva notizia, erano state rinvenute nel corso della rimozione dell’antico altare maggiore della chiesa della SS.ma Trinità, che il vescovo dell’epoca [Agostino de Guarino] aveva voluto sostituire con uno più decoroso. La chiesa, sita nell’extra moenia di Tricarico, apparteneva alla Commenda dell’Ordine dei Gerosolimitani, che però non ne avevano cura e che versava perciò in uno stato di grande trascuratezza, pur essendo frequentata con grande devozione dal popolo di Tricarico, soprattutto nei singoli venerdì di marzo e nel giorno della SS.ma Trinità (30 maggio). Rinvenute le reliquie, il vescovo [Agostino de Guarino] si recò processionalmente in quella chiesa insieme al Capitolo e clero della città e alla maggior parte della popolazione, tra cui vi era uno zoppo della famiglia De Balestris, che camminava con le stampelle e con grande difficoltà. Appena questi fu davanti alle reliquie e per intercessione dei santi corrispondenti fu miracolato, tornò a casa senza stampelle e per il resto della vita camminò come se non fosse stato mai zoppo. Il vescovo, quindi, trasportò le reliquie processionalmente in cattedrale, dove le conservò e davanti alle quali venivano guariti gli invasati dal diavolo. Il canonico Vitale concluse la narrazione comunicando al vescovo Santonio (Ndr Giovanni Battista Santoni, Santoro o Santonio fu vescovo di Tricarico dal 1586 al 1592) che tali reliquie erano già state esaminate nelle precedenti visite pastorali e che vengono esposte alla venerazione solo una volta all’anno e con grande solennità portate in processione attorno alla chiesa cattedrale, le une per la festa di S. Potito, che cade il 13 gennaio, le altre per quella di S. Antonio Abate, il 17 dello stesso mese.

La venerazione per queste reliquie e per i santi Potito e Antonio Abate fu rafforzata in diocesi dal vescovo Pier Luigi Carafa jr, (ndr: fu vescovo di Tricarico dal 1646 al 1672) che nel 1668 sostituì le due cassette con altrettante preziosissime urne reliquiarie in argento, che dal Settecento ad oggi vengono custodite in appositi vani dentro l’altare maggiore della cattedrale (ndr: sulla loro parziale o totale traslazione prima a Lecce e successivamente nella Diocesi di Lecce, a Novoli, in Puglia, avvenuta nel 1924 si dirà in seguito nel presente testo); egli, inoltre, fece realizzare le grandi effigi dei due santi tra gli stucchi da lui voluti per la volta della cappella del duomo di Tricarico oggi detta del “secretarium”, che ricondurrebbe alla cinquecentesca cappella del SS.mo Corpo di Cristo.

Data la particolare venerazione tributata a S. Potito martire dalla città di Ascoli Satriano (Foggia), che lo vanta come suo protettore, il vescovo di Cerignola e Ascoli Satriano, Mons. Antonio Sena, desiderando arricchire la città di una insigne reliquia del martire, fece domanda al vescovo di Tricarico, Simone Spilotros, il quale il 24 dicembre 1873 concesse una parte di avambraccio, ricavandola dalle reliquie conservate in cattedrale. Collocata in un’apposita teca, questa reliquia è oggi custodita nella cappella a lui dedicata nell’antico duomo di Ascoli Satriano, ove è venerato anche un dito del santo all’interno di un busto reliquiario d’argento che ne raffigura l’effigie (M. Santucci e P. Bonaventura di Camillo, Ofm, S. Potito Martire, Roma [1969], p. 58; L. B. Alberti, Vita di S. Potito, traduzione dal latino di Mons. Antonio Silba, s.l., 2008, p. 31).

La devozione delle reliquie di S. Potito martire a Tricarico è sempre stata connessa alla devozione per questo santo, che è patrono principale della città e della diocesi di Tricarico, come attestano anche gli scritti devozionali del vescovo Pietro Paolo Presicce (Sagra Novena S. Potito Martire, principale padrone della città di Tricarico, che comincia a’ 7 di luglio, data in luce da Mons. F. Pietro Paolo Presicce, agostiniano scalzo, vescovo della stessa città, e per sua divozione verso il medesimo S. Martire, Napoli, dalla Tipografia De Dominicis, 1822.) e del canonico Tommaso Aragiusto (S. Potito Martire, patrono della città e diocesi di Tricarico, per devozione di Tommaso can. Aragiusto, Napoli, R. Tipografia Francesco Giannini & figli, 1928).

L’attenzione è stata quindi particolarmente intensa da parte del vescovo Raffaello Delle Nocche, Servo di Dio, che nel 1950 pubblicò l’Officium Sancti Potiti Martyris e promosse una vasta ricerca su questo santo, collaborandovi personalmente (come attestano alcune sue lettere) ed impegnando il prof. Domenico Mallardo, suo grande amico ed illustre studioso. Questi ne pubblicò i risultati nel saggio, S. Potito, un martire dell’Apulia (Napoli, 1957), ipotizzando come la presenza delle reliquie in una chiesa dei Cavalieri di Malta, qual era stata quella della Trinità a Tricarico, fosse connessa ai legami tra questi cavalieri, le crociate e i Normanni, che nel sec. XII avevano promosso anche a Tricarico il passaggio dal rito greco a quello latino, ricostruito la cattedrale ed elevato la città a sede di un’importante contea. Le ricerche promosse dal vescovo Delle Nocche confermarono il forte legame della Chiesa tricaricese con le prime testimonianze del cristianesimo in terra lucana, ampliarono la conoscenza del santo martire e ne rafforzarono il culto anche in vista dell’erezione della nuova chiesa parrocchiale istituita a Tricarico da questo vescovo e dedicata proprio a S. Potito martire (decreto del 1 sett. 1958). In occasione della solenne consacrazione della chiesa il 21 marzo 1966, il vescovo Bruno Maria Pelaia, secondo il desiderio del Servo di Dio Raffaello Delle Nocche, donò una reliquia del santo, prelevata – secondo la testimonianza dei più anziani sacerdoti di Tricarico – da quelle custodite in cattedrale, che fu inserita nell’altare maggiore ed un’altra che fu esposta alla venerazione dei fedeli in un reliquiario collocato sotto lo stesso altare. Il 19 giugno 2010, nell’Anno dedicato al Servo di Dio Raffaello Delle Nocche, per la riapertura al culto della stessa chiesa dopo i lavori di restauro e della sostituzione dell’altare maggiore, tali reliquie sono state ricollocate in una nuova e più preziosa urna reliquiaria e, dopo l’apposizione del sigillo da parte del vescovo Vincenzo Carmine Orofino, poste al di sotto dello stesso altare.

Fin qui il testo integrale sulle reliquie di Sant’Antonio Abate e San Potito, riportato dalla studiosa di storia locale, Carmela Biscaglia.

La diffusione dei monaci antoniani nel sud Italia, in Basilicata ed a Tricarico

I Canonici Regolari di Sant’Antonio di Vienne erano un ordine ospedaliero e monastico militare. Venivano chiamati cavalieri del “fuoco sacro o del Tau” (il loro abito era di colore nero con una croce a forma di Tau di colore azzurro sul petto in corrispondenza del cuore). Si dedicavano agli inizi della loro missione alla cura degli ammalati (fuoco di Sant’Antonio, ergotismo e indemoniati). Nati dapprima come confraternita laica per custodire le sacre reliquie di Sant’Antonio Abate approvata da Papa Urbano II nel 1095, confermata da papa Onorio III nel 1218, nel 1297 con papa Bonifacio VIII divennero ordine monastico di canonici regolari sotto la Regola di S.Agostino con il titolo di “Antoniani Viennois o di Vienne”.

Si diffusero lungo la Via Francigena che collegava il Delfinato all’Italia, fino A Napoli e nel Sud Italia. Con Innocenzo IV gli “Antoniani di Vienne” divennero un potente e diffuso ordine monastico che nel 1253 raggiunse le più lontane ed isolate campagne rurali, gli snodi commerciali e dei tratturi,  forti della “protezione di Sant’Antonio Abate”. Questo successo procurò invidia e accese contese con gli altri ordini monastici (Dante li nomina in uno degli ultimi canti della Divina Commedia: il porco di Sant’Antonio/e altri assai son ancor più porci/pagando di moneta senza conio – Paradiso, canto XXIX, vv.124-126), fino al XVII secolo, allorquando, diminuite le grandi epidemie, indeboliti dalle rivalità, furono uniti nel 1774 all’Ordine di Malta con bolla di papa Pio VI “Rerum humanorum conditio” che sancì definitivamente l’abolizione dell’ordine Antoniano e dei loro beni, che passarono all’Ordine Costantiniano (nel Regno di Napoli i Cavalieri di Malta assunsero inizialmente questa denominazione).

In Basilicata sono numerose le testimonianze della presenza  dell’ordine degli Antoniani di Vienne.  A Tricarico la chiesa e convento di S.Antonio di Viena è rappresentata sulla cartografia  edita del 1618 (il rilievo sarebbe stato eseguito nel 1605). La cartografia mostra nel vallone del Torrente Milo la Chiesa o Convento S.Antonio di Viena limitrofa alla “coseria  de corami” e l’edificio poco distante delle “Consarie del Corami“, industria per la fabbricazione del “corame“, ovvero il “corium“, o cuoio lavorato e stampato sotto forma di stuoie destinato all’arredamento delle corti, dei palazzi signorili e delle chiese, oltre che per rilegature dei libri (Tricarico ebbe anche una stamperia), cofani e vari oggetti, secondo una tecnica araba importata in Spagna a Cordova e diffusasi anche in Italia (famosi i cuoridoro di Venezia o i “cordovani”, delle industrie di “coserie” importanti a Napoli ed a Tricarico, forse di origine araba detentori della conoscenza del muhtasib, e del tasfir al – kutub).

Altre presenze dei monaci Antoniani sono testimoniate a Venosa (affresco di Sant’Antonio Abate nella cripta della S.S. Trinità risalente al XIII sec.), ad Oppido Lucano (Chiesa dell’Annunziata con la vicina chiesa rupestre di Sant’Antuono del XIII sec. con un importante ciclo di affreschi), a Grottole (Chiesa e annessi  locali per l’ospitalità dei pellegrini lungo il tratturo per  Timmari e Matera), a Trivigno (rione Casale), a Genzano di Lucania (di cui S. Antonio Abate è il conpatrono), a Lagonegro, a Potenza (chiesa ed ex convento S.Antonio La Macchia).

A Tricarico, da notizie raccolte dal canonico tricaricese Giovanni Daraio agli inizi del XX secolo (1873 – 1959), si apprende che nella chiesa di Santa Maria dell’Olivo, sarebbe presente una lapide proveniente dalla Chiesa del convento dei Cappuccini che negli anni 50, versando l’edificio in abbandono, venne rimossa e consegnata al canonico Giuseppe Tolve che la murò nella Chiesa di S.Maria dell’Olivo. L’epigrafe ricorda come il 28 Agosto 1588 il vescovo di Tricarico, Giovanni Battista Santonio, consacrò e dedicò a Santa Maria della Grazia e a S.Agostino quella chiesa cappuccina e il suo altare, collocandovi le reliquie di Antonio da Vienna, Potito ed Abbondio e concedendo un indulgenza di 4o giorni a quanti avrebbero visitato la chiesa nell’anniversario della sua consacrazione.

Considerata l’impossibilità di accedere da tempo all’interno della chiesa di S. Maria dell’Olivo, nota anche come di Sant’Antonio Abate (nel 2022 ancora in restauro a causa dei danni provocati dal terremoto del 23 novembre 1980) non abbiamo potuto constatare  l’effettiva allocazione di quanto sopra scritto dal canonico Giovanni Daraio (Cfr La Storia del Vescovato di Tricarico. Editore Lacaita, 1910), emigrato e morto a New York, ove si era recato allorquando il fratello divenne sacerdote. Daraio ricoprì l’incarico di cappellano militare delle truppe americane durante la prima guerra mondiale. Non più presente e di collocazione attualmente incerta, è la statua della Madonna dell’Olivo, in passato presente nella nicchia sull’ingresso principale della Chiesa (forse in restauro, così come mostra una vecchia foto ove è invece visibile) con le lesene rimosse non più presenti a decorazione della facciata (forse anch’esse in restauro). La chiesa dal “doppio nome” sembra essere stata destinata all’oblio, nonostante invece permanga forte la devozione, pur se manifestata, apparentemente in un sol giorno, il 17 Gennaio, durante il carnevale.

La veridicità delle reliquie in Francia

Secondo alcuni studiosi della vita di Sant’Antonio Abate e delle sue reliquie (Cfr Laura Fenelli, Dall’eremo alla stalla. Storia di Sant’atonio Abate e del suo culto, Edizioni Laterza, Bari, 2011)  chi ebbe la possibilità di visionare le reliquie per constatarne la loro autenticità in Francia fu il “discusso” Cardinale Luigi d’Aragona (1474-1519) che nel 1517, durante un lungo viaggio in Europa e nei Paesi Bassi per rendere omaggio a Carlo d’Asbrurgo, salito al trono di Spagna, ne aprì la cassa presso l’abbazia di Sant’Antoine verificando “osso per osso” il suo contenuto e descrivendo in un diario lo scandalo del commercio fatto intorno al culto delle reliquie, tollerato dalla Chiesa, non esprimendo però alcun giudizio sull’autenticità delle reliquie che con la Riforma si tentò di marginalizzare nella professione della fede. Il cardinale d’Aragona fu sospettato di aver cospirato contro papa Leone X (tra le altre accuse mosse vi furono la mondanità ostentata in sfarzose feste e il sospetto di aver fatto assassinare sua sorella e i tre figli di lei a causa di un matrimonio da lui osteggiato). Il Cardinale d’Aragona, dal 1498 al 1502, era stato tra l’altro Amministratore apostolico di Lecce.

La traslazione nel 1924 delle reliquie (o parte di esse) da Tricarico a Lecce e a Novoli (LE)

Con Pier Luigi Carafa Jr. vescovo di Tricarico (1646 – 1672), le reliquie di San Potito (patrono di Tricarico) e di Sant’Antonio Abate furono venerate al di sotto dell’altare maggiore della cattedrale di Tricarico. Il vescovo dotò la diocesi di statue di S.Oronzo e Sant’Antonio Abate, ravvivando la devozione alla Croce ed ai Santi Antonio da Vienna e Potito, che avevano protetto Tricarico durante la peste che colpi la Diocesi e Tricarico dal 1656 al novembre del 1657 (vi furono in alcuni comuni come Corleto, Stigliano, Albano e Guardia settemila vittime dovuti alla peste, con la popolazione che passò da 50mila abitanti a poco più di 28 mila). Il vescovo Carafa Jr., oltre ad aprire lazzaretti per gli appestati e sfamare i poveri, commissionò due nuovi reliquiari in argento ove fece riporre nel 1668 le reliquie di S.Antonio Abate e San Potito, precedentemente risposte in contenitori di legno (Cfr C.Biscaglia, Op.cit).

Nel 1924 le reliquie di Sant’Antonio Abate presenti fino al 1924 a Tricarico (nella loro interezza o parte di esse) furono donate a Novoli. Portate dapprima presso il Vescovado di Lecce, il 27 Luglio 1924 giunsero a Novoli. Di seguito si riporta integralmente quanto riportato da Salvatore Epifani (S.Epifani, dalla Tebaide a Novoli, passando per Tricarico, Youcanprint, Tricase, 2015):

“Sulla reliquia a tutti nota che giunse a Novoli da Tricarico (Matera) la quarta domenica di luglio 1924 (il 27), dopo accordi intercorsi tra i vescovi di Tricarico e Lecce, Mons. Raffaello Delle Nocche e Mons. Gennaro Trama (ndr Mons. Raffaello delle Nocche è stato primo della sua elezione a vescovo fu segretario del Vescovo di Lecce, Mons Gennaro Trama), abbiamo un articolo del sacerdote O. Madaro (fu Salvatore) apparso nel 1949 sul Bollettino del Santuario di S. Antonio Abate in occasione della ricorrenza del venticinquennale della traslazione. Alla fine del suo articolo, nel quale sono riportati i protagonisti dell’evento, ovvero i sacerdoti novolesi don Carlo Pellegrino e don Giovanni Madaro (allora Rettore della chiesa, doc. 13), l’arciprete Mons. Francesco Greco, il Sindaco Pietro Tarantini, don. Oronzo Madaro lamentava ohe una lastra di marmo rievocativa dell’evento con incisi i nomi dei Vescovi succitati fosse stata tolta dalla chiesa: Dopo tanto splendore di feste, la S. Reliquia fu custodita nel cappellone del Santo, nella bella nicchia di marmo che tuttora si ammira e nella chiesa fu una lapide marmorea con parole dettate da chi scrive questa rievocazione essa si ricordava teri l’avvenimento e il nome del Vescovo di Tricarico che aveva donato la Reliquia con quello di Mons. Trama che fu attivissimo per onenere il dono e per decorate di presenza la solenne celebrazione. Oggi la lapide non c’è più, ma sarebbe tempo che rivedesse la luce in questa ricorrenza venticinqueuiale. La lapide con epigrafe di don Oronzo non è stata mai rimessa al suo posto, sicché non possiamo sapere che cosa il sacerdote novolese effettivamente avesse scritto. Allo stato della ricerca, non si conoscono i motivi della rimozione. Importante è quello che il sacerdote novolesi scrisse in merito alla reliquia del santo della Tebaide, che, cioè, allorché, verso la fine di febbraio 1924, don Giovanni Madaro e don Carlo Pellegrino si recarono a Tricarico per prelevarla: L’urna preziosa fu immediatamente prelevata dal tesoro della Cattedrale per essere esposta nella cappella privata del Vescovo che disuggellò l’urna, ne trasse la reliquia, la collocò in un cofanetto di cristallo con il documento di autenticità firmato e suggellato”. 

Fin qui il documentato ed interessante testo di Salvatore Epifani, che offre ulteriori elementi non solo sulle reliquie di Sant’Antonio Abate giunte a Novoli il 27 luglio 1924, come mostra la data sulla nicchia ove è custodita la reliquia (vedi foto a lato tratta dal testo di Epifani), ma anche sui beni monumentali di Tricarico (chiesa S.Maria dell’Olivo o Sant’Antonio Abate oggi in restauro, Sant’Antonio de Viena non più esistente, e chiesa e grancia della Trinità extra moenia, già dell’Ordine Templare e successivamente dell’Opera dell’Ordine Melitense di Grassano, purtroppo oggi divenuta rudere cadente, nonostante l’importanza. E’ auspicabili che gli enti di salvaguardia si prodighino per un restauro conservativo, approfondendo ricerche, studi e scavi sul sito). Lo studio di Epifani pone anche alcuni interrogativi su una seconda reliquia a Novoli denominata “polvere del santo”, sulla scomparsa della lastra di marmo rievocativa dell’evento di traslaziazione della reliquia da Tricarico a Lecce e a Novoli, già notata da don Oronzo Madaro e “sulla circostanza paradossale che per non essere accusati di blasfemia, non osiamo definire buffa, ma che dovrebbe far riflettere“, cioè sulla sosta, organizzata sempre a Novoli, dal 6 al 13 gennaio 2006, sia delle spoglie del Santo giunte dalla Francia (quelle provenienti da Arles e quella di Sant-Antoine) e sia di quelle di Novoli, giunte da Tricarico il 27 luglio 1924.

A questi interrogativi gli studiosi di fatti ecclesiastici locali che hanno accesso a documenti, a noi sicuramente non accessibili o non noti, potrebbero cercare di fornire chiarimenti circa il motivo della traslazione delle reliquie di Sant’Antonio Abate da Tricarico a Novoli nel 1924, nonostante le stesse fossero state di grande devozione a Tricarico, e se le stesse siano state traslate solo parzialmente o totalmente (dai documenti e dalle testimonienze non è chiaramente desumibile tale circostanza). Aspetti forse considerati di scarsa importanza storica, ma sicuramente non trascurabili dal punto di vista devozionale per le comunità.

Foto tratte dal volume di S. Epifani (Op. cit.)