di Antonio Bavusi e Vito L’Erario

* Giugno 2022 – L’articolo “Il Tratturo del Re”  è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale citando la fonte


“Mentre procediamo nello spazio e nel tempo ritorniamo, spesso inconsapevolmente, ai luoghi di origine”

“..nell’immagine esiste un lato oscuro, che ha lo stesso carattere cupo in tutte le parti di questi regni, altrimenti favoriti, e sembra destinato a controbilanciare tutto il loro fascino…” (Richard Keppel Craven, Policoro, 2 giugno 1818)

Tratturo del Re. “I Casalini”, abitazioni dei braccianti nel borgo agricolo con il “Palazzaccio” del barone (vedi la sezione il Tratturo del Re a Scanzano Jonico) – Foto: A. Bavusi (2006)

Il Castello di Policoro e il Tratturo del Re nell’immagine del 1778. Tratta dalla spedizione Saint-Non guidata da Dominique Vivant Denon in “Voyage pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et Sicile”. In primo piano un carro trainato da buoi che trasporta legname. In basso il casone dei magazzini (ancora presente) e sullo sfondo la facciata della cappella della Madonna del Ponte (ancora presente) con il secondo casone dei magazzini appena visibile (anche questo casone è ancora presente). L’alta torre merlata di guardia del castello invece non è più presente.

Tratturo del Re a Torre di Mare (già Casale Sanctae Trinitatis), oggi Metaponto, nel Comune di Bernalda (MT). Particolare tratto dal disegno di Frédéric Joseph Debacq nell’opera “Metaponte” di Honoré d’Albert di Luynes ( 1825-1828). Visibile ancora parte della torre di origine normanna e la struttura tipologica dei “casalini”, adibiti ad abitazioni dei braccianti e parte a taverna.

Cartolina postale datata 1954. La muta dei cani da caccia del barone lungo il Tratturo del Re. Sullo sfondo il castello del barone e i “casalini” a schiera dei braccianti (cartolina presso gli autori)

Cartolina postale datata 1965. Le “casedde” a schiera del Rione Dirupo di Pisticci (cartolina presso gli autori)

Cartolina postale datata 1963. Le “casedde” a schiera del Rione Dirupo di Pisticci (cartolina presso gli autori)

Il borgo Recoleta del barone Federici in una immagine del XX sec. (visibili il palazzo baronale e i casalini)

Tavola Peutingeriana. Mostra l’itinerario romano da Tarento a Regio con le località sulla costa jonica lucana di “Turiostu, Heracleum e Semnum”

Tracciato Tratturo del Re (elaborazione:V. L’Erario)

Tracciato Tratturo del Re su base I.G.M. (elaborazione:V. L’Erario)

Tracciato Tratturo del Re nei territori di Nova Siri, Rotondella Policoro (elaborazione V. L’Erario su base cartografica I.G.M.)

Tracciato Tratturo del Re nei territori Policoro e Scanzano Jonico (elaborazione V. L’Erario su base cartografica I.G.M.)

Tracciato Tratturo del Re nei territori Scanzano Jonico, Pisticci e Bernalda (elaborazione V. L’Erario su base cartografica I.G.M.)

Tracciato Tratturo del Re nei territori Pisticci, Bernalda e Ginosa (elaborazione V. L’Erario su base cartografica I.G.M.)


Da sinistra, gli eminenti archeologi Paolo Orsi (Rovereto 1859 – 1935), Quintino Quagliati (Rimini 1869 – Taranto 1932), Dinu Adamesteanu (Toporu Romania 1913 – Policoro 2004) 

SCHEDA:
Magna Grecia: la distruzione che continua ancora oggi

La distruzione delle testimonianze archeologiche ed urbanistiche della Magna Grecia è iniziata ad opera dell’uomo già nei primi anni dell’800, proseguendo purtroppo ancora oggi, nonostante le leggi di salvaguardia dei beni monumentali e del paesaggio, per interventi impattanti sull’ambiente e il territorio. Su questo delicato argomento, poco noto anche per molti “addetti ai lavori”, si esercitano oggi molti fautori ed adepti della cosidetta “archeologia preventiva”, spesso consentendo con il “marchio di compatibilità” veri e propri scempi. Costoro dimenticano o non hanno studiato l’opera e l’impegno, in difesa dei beni che appartengono alle comunità, di eminenti studiosi e archeologi quali, Paolo Orsi, Sovrintendente e collaboratore di Zanotti Bianco, Quintino Quagliati, fondatore del Museo di Taranto e Sovrintendente Archeologo della Basilicata nel 1916, nonchè fautore assieme a Ridola della salvaguardia dei beni monumentali della regione, Dinu Ademesteanu, che proseguì il loro impegno per la salvaguardia del nostro patrimonio storico-monumentale. Proprio su Orsi e Quagliati riportiamo le significative parole di Dinu Adamesteanu che nel testo Basilicata Antica, evidenzia il ruolo di alcuni magistrati allorquando “condannano” i due studiosi per aver difeso Metaponto dalla completa distruzione, graziando invece i “saccheggiatori di pietre“. Riportiamo alcuni significati brani tratti dal testo Basilicata Antica di Ademesteanu che raccontano proprio questa storia nascosta, per rendere omaggio a quanti dedicarono la propria vita alla cultura e alla storia, come Quintino Quagliati, che morì a Taranto dopo esserti ammalato di malaria durante gli scavi archeologici. Auspichiamo che i giovani studiosi intraprendano la strada da loro tracciata.

“…Nel parlare dell’urbanistica delle città greche, F. Castagnoli presentava anche la pianta di Metaponto, dedotta dallo studio di un gruppo di fotografie aeree eseguite in diverse epoche: dal 1945 fino al 1958. Nelle prime riprese aeree la città di Metaponto, nonostante i danni subiti nei primi decenni del ‘900, appariva talmente ben articolata da permettere di fissare il suo intero impianto urbano. Anche in qualche altra fotografia aerea ripresa durante l’ultima guerra si notano bene la cinta delle mura, l’impianto ortogonale e l’area sacra della colonia achea. Ma la città ha sofferto un grave colpo dopo il 1956, allorquando, con la Riforma Agraria, sono stati introdotti in agricoltura i potenti mezzi meccanici. Sulle riprese aeree effettuate dal 1964 in poi, infatti, tutte le « anomalie », che una volta indicavano anche i quartieri della città, sono sparite quasi completamente. I primi studiosi che si sono occupati dell’urbanistica metapontina sono riusciti a fissare, per esempio, anche i minimi dettagli del teatro antico della città in base alle vecchie coperture aeree; in quelle effettuate dal 1964 in poi non è possibile individuare alcuna traccia di strutture in alzato o in profondità. La tragedia di Metaponto, la distruzione sistematica ed implacabile della città antica, inizia già nei primi anni dell’800, per aggravarsi nei primi decenni del ‘900 e culminare con la Riforma Agraria. Nella seconda metà del 700, l’illuminato abate Saint-Non poteva stabilire il tracciato delle strade in base « à la croissance de bleds ». Anch’egli aveva osservato le grandi colonne ed i capitelli del tempio di Apollo giacenti al suolo e poteva facilmente tracciare il circuito delle mura. Con il 1826, iniziano gli scavi del Duca De Luynes e del suo architetto Debacq al tempio di Apollo, scavi che hanno fruttato alla Bibliothèque Nationale di Parigi una magnifica serie di terrecotte architettoniche e qualche frammento di scultura « en pierre tendre ». Prosegue gli scavi, nella stessa area, M. Lacava, che pubblica i risultati in una monografia dedicata a Metaponto. Come il Duca De Luynes, anche il Lacava dà una pianta del tempio e del suo alzato, ma appare evidente che, nel periodo intercorso tra gli scavi del De Luynes e quelli del Lacava, molti elementi architettonici erano stati utilizzati nella costruzione delle fattorie del luogo o come riempimento del terrapieno della ferrovia Taranto-Reggio Calabria. Tuttavia, il Lacava riuscì a recuperare un ingente numero di elementi della decorazione fittile del tempio, nonché una lunga serie di frammenti di scultura tanto in marmo quanto in pietra tenera. Il materiale, dapprima raccolto in un locale nei pressi della Stazione  ferroviaria di Metaponto, fu poi trasportato nel Museo Provinciale di Potenza, dove, in gran parte, andò disperso, parte durante un incendio e parte durante un bombardamento. Tranne gli elementi della decorazione fittile rinvenuta negli scavi del Lacava, quasi nulla si è conservato della ricca documentazione della scultura in marmo e pietra tenera. Si sono salvati invece un kouros in marmo, recuperato nell’agro metapontino dove fungeva da paracarro, un’iscrizione arcaica ed un numero imprecisato di terrecotte figurate, raccolte dallo stesso Lacava intorno al tempio e negli scavi condotti ovunque nella città. La seconda fase di distruzione inizia intorno al 1908, quando i proprietari dell’epoca stipularono un contratto con una ditta privata per la vendita delle pietre recuperate in una zona denominata Pezza delle Tegole, quasi al centro della città, nonché dei blocchi di un tempio, posto m. 8 a N da quello di Apollo, il cosiddetto tempio B. Condannati i Soprintendenti P. Orsi e Q. Quagliati per aver tentato di impedire lo scempio, lo sfruttamento delle « pietre » passa a Sud del tempio di Apollo, nell’area del tempio C. Nello stesso tempo, vaste zone della città vengono ripulite e dissodate, perché gli aratri non possono lavorare a causa delle pietre che spuntano dalla terra. Ma il martirio della città non finisce con questi episodi; esso continua, specialmente, durante il periodo della Riforma Agraria e subito dopo. In mezzo alla città e lungo le vie interpoderali restano ancora montagne di pietre, in gran parte elementi architettonici appartenenti ad edifici pubblici e privati, al teatro, ai templi ed alle abitazioni civili arcaiche, classiche ed ellenistiche. Diceva l’abate Saint-Non, osservando le rovine della città di Heraclea dopo i lavori di scavo fatti dai Gesuiti, che nessun’altra città della Magna Grecia aveva subito tanti danni quanto Heraclea. Noi diremmo che sorte ben peggiore è toccata a Metaponto, ed è certo che senza le vecchie fotografie aeree né il Castagnoli, né lo Schmiedt e lo Chevallier e nemmeno noi avremmo mai potuto parlare della pianta urbana di Metaponto; essa si sarebbe potuta vedere solo dopo aver messo in luce tutta la città. Gli scavi regolari sono iniziati nel 1965 ed hanno preso le mosse sempre dal tempio di Apollo. Dopo un intervento di Sestieri nel 1939, la zona era rimasta abbandonata; una conca dalla quale spuntavano i pochi elementi architettonici miracolosamente salvatisi dalla furia umana di distruzione…Le fortificazioni di Metaponto non hanno mai costituito oggetto di indagini accurate prima di questi ultimi anni. Dei saggi effettuati dal Lacava non si conserva alcuna documentazione grafica e tanto meno stratigrafica. Eppure, già all’epoca dei viaggi dans les Royaumes de Sicile et de Naples dell’abate Saint-Non (verso il 1780), e ancora, all’epoca di M. Lacava, queste erano ben visibili sul terreno, come le aveva viste, nel II secolo d.C., anche Pausania (VI, 19, 14): «nient’altro della città (di Metaponto) è rimasto —egli diceva —all’infuori del teatro e delle mura … La loro distruzione, specialmente sul lato meridionale, inizia nell’XI-XII secolo, quando comincia la costruzione e l’allargamento di quel complesso situato vicino alla Stazione di Metaponto, conosciuto sotto il nome di Torre a Mare. L’ultimo colpo, ancora visibile ai lati delle vie poderali, è arrivato con l’appoderamento della Riforma Agraria. Sulle vecchie fotografie aeree, infatti, il circuito delle mura appare evidentissimo, mentre su quelle effettuate dopo il 1955-1956, il suo percorso è appena percettibile” [ brani tratti da Basilicata Antica di D.Ademesteanu. Di Mauro Editore, Cava dei Tirreni, 1974)


Tratturo del Re nel tratto compreso tra i comuni di Bollita (Nova Siri), Rotunda Maris (Rotondella) e Policoro (stralcio da mappa Rizzi Zannoni, 1807)

Tratturo del Re nel tratto compreso tra i comuni di Policoro, Scanzana (Scanzano Jonico) e Pisticci (stralcio da mappa Rizzi Zannoni, 1807)

Tratturo del Re nel tratto compreso tra i comuni di Pisticci, Bernalda e Ginosa – Torre Mattoni (stralcio da mappa Rizzi Zannoni, 1807)

Dalle immagini, le fasi dello svolgimento della battaglia di Heraclea sul fiume Sinni, tra l’esercito romano contro la lega dei Tarantini capeggiata da Pirro, re dell’Epiro (da wikipedia da fonti storiche romane)

SCHEDA:
Il Tratturo del Re: Pirro, Annibale e la conquista romana

Nella regione dello jonio, a partire dall’VIII secolo a.C., si erano insediati nel tempo, in un equilibrio precario caratterizzato da conflitti per l’egemonia sui territori e nei traffici commerciali, diverse etnie greche ed italiche. Le tribù enotre, lucane e Brutie dovettero fronteggiare l’egemonia delle città-stato magno-greche in forte espansione e la potenza romana. Heraclea fu fondata dai nuovi coloni Tarantini e Thurioti nel 434 a.c., un tempo nemici, su un’altura tra i fiumi Agri e Sinni sui resti della città greca di Siris (situata nei pressi del fiume Sinni), aggiogata dai nuovi dominatori. Nel 374 a.c. divenne capitale della Lega Italiota al posto di Thurii caduta in mano ai Lucani che chiesero aiuto ai nemici romani. Fu questo il pretesto da parte dei romani per rompere il patto di non belligeranza stretto con Taranto nel 303 a.C., inviando proprie navi oltre Capo Colonna. Taranto, sentitasi minacciata, chiese aiuto a Pirro, re dell’Epiro, che giunse con la sua flotta a Taranto spinto da volontà di conquista e ricchezza, spostandosi con il suo esercito verso Sud alla conquista del territorio di Taranto minacciato da Lucani e Romani.

Questo episodio segnò una svolta nell’interesse espansionistico di Roma verso sud e nel Mediterraneo, spinta a fronteggiare la potenza greca che, assieme a Cartagine, minacciava la repubblica. Le sorti militari per Roma non furono all’inizio favorevoli nel conflitto contro Pirro. La battaglia di Heraclea si svolse il 1 luglio 280 a.C.  L’esercito della Repubblica romana era guidato dal console Publio Valerio Levino e quelle della coalizione greca che univa Epiro, Taras (Taranto), Thurii, Metaponto ed Eraclea, sotto il comando del re Pirro d’Epiro. Lo storico Plutarco riferisce che Pirro si accampò nella pianura tra Pandosia ed Eraclea, di fronte al fiume Siris (l’attuale Sinni). Tito Livio e Plinio il Vecchio riferiscono che Pirro era sì accampato invece vicino alla città, ma all’esterno dei suoi confini territoriali, nell’attuale territorio di Tursi (nei pressi della frazione Anglona), laddove un tempo sorgevano le antiche mura della città di Pandosia. Pirro accorse in difesa di Taranto con 25.500 uomini e 20 elefanti da guerra (i romani che non conoscevano gli elefanti li chiamarono buoi lucani). I pachidermi, animali sconosciuti ai Romani, furono determinanti ai fini della vittoria di Pirro. Alla fine della guerra tra Romani e Tarantini, Eraclea, la Lucania e l’Apulia divennero territori della Regio II e III romane.

Nel 212 a.C. Heraclea, dopo la sconfitta romana a Canne, venne conquistata da Annibale disceso in Italia dalle Alpi. Tito Livio riferisce della conquista di Annibale nel 209 a.C. di Taranto e nel Bruzio (Calabria). La discesa in Calabria di Annibale – secondo Livio – fu quando apprese che Tito Antonio Crispino si trovava alla testa di due legioni per raggiungere Locri con lo scopo di tentare di strappare la città a Magone il Sannita. Annibale al corrente che Quinzio Crispino scendeva a Locri, da Crotone si spostò rapidamente verso l’Apulia per tentare di sorprendere l’esercito di Marcello. Vista la vana possibilità di riconquistare Salapia, Annibale si diresse nuovamente nel Bruzio, alla volta di Locri, per liberarla dall’assedio. I romani furono dispersi nelle campagne Locresi. La seconda guerra punica terminò con l’attacco romano a Cartagine, che costrinse Annibale a fare ritorno in Africa nel 203 a.C., dove fu definitivamente sconfitto nella battaglia di Zama, nel 202 a.C. Nel I secolo a.C. le città della Magna Grecia andarano incontro ad un declino commerciale e demografico. Nell’89 a.C. Heraclea ottenne la cittadinanza romana. Durante l’età imperiale iniziò la sua definitiva decadenza.

Il Tratturo del Re (attuale Via Zanardelli), dopo aver costeggiato i casalini (attuale via C.Battisti) e il casone-magazzino (attuale via degli Artigiani), sottostanti il castello del barone, si dirigeva verso la “scafa” del fiume Agri

SCHEDA:
I pirati dello Jonio e le torri costiere

La guerra tra Spagna e Francia per il predominio in Europa e l’avvento del governo spagnolo al Regno di Napoli (1501) indussero il viceré de Regno delle Due Sicilie Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga ad intraprendere la fortificazione della linea di costa e del territorio immediamente a ridosso, preoccupato delle relazioni diplomatiche e alleanze della Francia con l’impero ottomano di Solimano I il Magnifico. Pietro di Toledo emanò nel 1532-33 ordinanze rivolte alle singole Università, imponendo difese costiere e terrestri lungo i confini marini e lungo le valli, a protezione dalle incursioni corsare e piratesche, con particolare attenzione al presidio delle foci fluviali dove la navi turche erano solite rifornirsi d’acqua. Tale opera venne proseguita dal viceré don Pedro Afán de Ribera duca d’Alcalà che incaricò regi ingegneri  di individuare le località adatte alla costruzione delle torri per tutto il Regno, con spese a carico delle Università in proporzione alla popolazione. I governatori delle provincie impartirono ordini di progettazione e di costruzione di numerose nuove torri anche se molte università lamentavano carichi economici troppo gravosi.

Nel 1567 quindi si decise di imporre una tassa di 22 grana per tutti i fuochi del Regno, escludendo le città distanti oltre 12 miglia dalla costa. Per gli equipaggiamenti necessari per la difesa (archibugi, bombarde, bombardelle, armi leggere, polvere da sparo, vettovagliamenti, gli stipendi per i torrieri, per la manutenzione e il restauro di torri rovinate, per le guarnigioni dei cavallari, etc) la Regia Camera impose nel 1570 una nuova imposta di 22 grana. Nel tratto lucano della costa jonica erano presenti, secondo le statistiche dell’epoca, 11 torri di difesa e avvistamento situate in gran parte lungo la costa ma integrate al sistema terrestre di castelli e torri lungo le vie di comunicazione con i centri abitati, parallelo al “Trattuto del Re” e ai principali nodi commerciali tra i magazzini/caricaturi ed i centri abitati oggetto di razzie piratesche,da est verso sud: Torre del Bradano, Torre Mattoni, Torre Mare (vincolo D.M.3/5/1979), Torre Basento o Torre Pilaccio  o Accio verso l’interno (vincolo D.M.10/9/1982), Torre Salandrella, Torre Scanzana o Saracena (vincolo D.M.27/10/80), Torre Agri, Torre San Basile, Torre del Sinni, Torre Bollita (vincolo D.M. 12/6/1979), Torre della Rocca Imperiale. Questo sistema veniva integrato da masserie fortificate e cinte murarie presso i vari comuni dell’entroterra. La minaccia ottomana continuò anche nel XVII secolo. Nel 1677 si ha notizia di un invasione lungo la costa jionica con morti e distruzioni e deportazione in schiavitù di un centinaia di uomini.

In alto: rappresentazione di Fregata e Galera Turca utilizzate per la pirateria (stampa del XVI secolo). In basso, cartografia della costa Jonica con il sistema delle torri di difesa e avvistamento (particolare tratto da stampa del XVII secolo)

Quadro unione catastale. Il Tratturo del Re che attraversa Scanzano Jonico, in prossimità del “Palazzaccio”, congiungendosi con la Strada per la Val d’Agri (elab. da GeoPortale RSDI Regione Basilicata)

Da sinistra i viaggiatori: J.C.Richard Saint Non (1727-1791) e Dominique Vivant Denon (1747-1825). Keppel Richard Craven (1779-1851)

Scheda
Viaggiatori stranieri lungo il Tratturo del re

Abbiamo estrapolato dai diari di alcuni viaggiatori che percorsero il Tratturo del Re tra il XVIII-XIX secolo le parti che individuano particolari punti lungo l’itinerario con lo scopo di restituire le descrizioni, omettendo gli aspetti legati ai monumenti e/o alle persone da loro incontrate. Di seguito le tappe del loro viaggio desunte dalle descrizioni che trovarono anche raffigurazioni grafiche e pittoriche come nel Voyage pittoresquedes Royames de Naples et de Sicile, pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1781 da Richard de Saint-Non (Abate di Sain Non) che, assieme al fratello Jean Baptiste Claude e a Dominique Vivant Denon, capo spedizione, e gli architetti e pittori Lous-Jean Desprez , Jean – Augustin Renard e Claude Lous Chatelet giunsero a Taranto in carrozza provenienti da Otranto il 2 Maggio 1778 percorrendo nei giorni successivi la prima parte del loro viaggio veleggiando lungo la costa fino a Torre di Mare visitando Metaponto ed inoltrandosi a cavallo nelle pianure percorse dal Tratturo del Re, di cui appresero l’itinerario “strada facendo” da informatori locali e da incerte mappe. A differenza dell’inglese Keppel Richard Craven, che il 31 Maggio 1818 giunse a Taranto accompagnato da persone assicurate da contatti con signori locali con l’incarico di scortarlo nei giorni successivi a cavallo durante le diverse tappe programmate. Un viaggio, infatti, andava preparato con largo anticipo e costituiva una difficoltà spesso imprevista se la rete di relazioni e conoscenze non fossero state meticolosamente preparate con corrispondenze che dovevano tener conto anche della difficoltà della lingua. Ma l’incertezza di avere sul luogo persone e contatti fidati che assicurassero oltre alla guida anche la sosta per il vitto e l’alloggio spesso potevano causare imprevisti e veri e propri pericoli anche per la vita dei viaggiatori e loro accompagnatori.

Reportage del viaggio di Saint-Non (Abate di Sain Non) che, assieme al fratello Jean Baptiste Claude e a Dominique Vivant Denon, capo spedizione, e gli architetti e pittori Lous-Jean Desprez , Jean – Augustin Renard e Claude Lous Chatelet:

  • partenza da Taranto in barca a vela e arrivo a Torre di Mare: …. “La notte fu splendida, non spirava che il vento necessario a farci avanzare nel modo più dolce del mondo, e la mattina dopo sul far del giorno, ci trovammo di fronte Torre di Mare, situata nelle vicinanze, o forse nello stesso luogo dove era l’antica Metaponto”.
  • Dopo aver visitato l’antica città di Metapontum e le tavole Palatine, partenza in barca a vela verso Policoro e l’antica città di Herakleia: “… fummo accompagnati da un brutto vento … Il luogo su cui oggi è ubicato il castello di Policoro è sulla parte più elevata di quest’area. Dominava una pianura immensa che giunge sino al mare. Ciò forma lo sfondo della Tavola da questo lato e l’altro è una profonda vallata da dove si scorge l’Appennino, nella sua maestosa bellezza. Vi si vedono scorrere due fiumi, l’Agri e il Sinni, che costeggiano da sinistra e da destra la cinta della celebre ed antica città, patria di Zeuxis”.
  • Dopo aver visitato il sito archeologico di Herakleia, la partenza per Anglona e l’antica Pandosia (Cfr fu realizzato una stampa che ritraeva il luogo della partenza, situato presso la fonte di Varratizzo e l’omonima valle a Policoro, luogo di sosta durante la transumanza e per l’allevamento delle bufale di proprietà del Feudo di Policoro, rappresentate nella stampa d’epoca. La fontana monumentale Varatizzo è stata dichiarata di interesse culturale e monumentale di particolare importanza e si trova limitrofa al parco archeologico di Herakleia, tutelata con con decreto n. 70 del 26/9/2011 La fonte dove ancora è presente l’acqua, risalirebbe all’epoca diella fondazione della città di Siris-Herakleia): “…a cercare le rovine di un’altra città, l’antica Pandosia, su una montagna a nove miglia nell’interno…non avemmo da rimpiangere affatto la fatica a cui ci sobbarcammo nel fare tutte queste ricerche sugli stessi luoghi, per la bellezza del panorama che si offriva ai nostri sguardi. Anglona in effetti è collocata su una collinetta elevata e quasi nell’angolo che formano i due fiumi dell’Agri e del Sirys; di modo che si possono vedere, contemporaneamente, i percorsi di questi due fiumi, o meglio torrenti che discendono dagli Appennini tra due valli il cui insieme presenta uno dei paesaggi più belli e grandiosi che si incontrano in Italia. L’Appennino, in questa parte, ha tutte le grandi forme delle Alpi, adorno di collinette e colmo di ridenti e piacevoli particolari: boschetti, città, castelli. tutto è assemblato in tale Tavola e si vede con un unico colpo d’occhio…un pittoresco di un luogo dove tutto si riunificava nella fantasia”.
  • La spedizione attraversò il Bosco Soprano di Policoro lungo il Tratturo del re che ne percorreva l’originaria larghezza fino alle sponde del fiume Sinni:“…attraversiamo il bosco soprano di Policoro, già celebre nell’antichità e onorato come foresta sacra…il silenzio, le ombre misteriose che regnano sotto le immense querce, vecchie come il mondo, sembravano ricordarci, attraversandola, l’imponente santuario dei Druidi. Questa bella foresta era abitata da una folla pacifica di animali e selvaggina di ogni specie; cinghiali, daini, cervi, caprioli, per non dire delle martore e degli scoiattoli di cui vedemmo tantissimi andare a spasso, sulle nostre teste, di albero in albero”.
  • Dopo aver attraversato a Bollita la località Cugno dei Vagni, la spedizione giunse a piedi a Rocca Imperiale, centro allora aggregato alla Basilicata nel cui territorio era il confine amministrativo con la Calabria, risalendo a Nova Siri il vecchio tracciato per Sapri.

in alto la “Fontana Varatizzo” rappresentata del “Voyage Pictoresque” e come è oggi nell’immagine allegata al decreto di salvaguardia del Ministero BB.AA.PP. della Basilicata. La fontana non è oggi visitabile ed è coperta da vegetazione. Recuperata al patrimonio pubblico, meriterebbe di essere tutelata e valorizzata. In basso, l’area dell’antico porto di Metapontum, all’epoca dei viaggiatori divenuta palude.

Di seguito alcuni brani inediti e mai tradotti del Diario di Keppel Craven lungo il “Tratturo del Re” che, provenendo da Bari in carrozza, giunge a Taranto. Il 31 maggio del 1818 prosegue a cavallo il suo viaggio…

Il 31 maggio ho lasciato Taranto, presso il ponte nord, e dopo aver seguito un sentiero rettilineo, che procedendo verso l’interno taglia il promontorio della Rondinella, l’abbiamo ripreso al guado del fiume Taras, dove sfocia nel mare… nei mesi autunnali e invernali ristagna nelle pozze, emettendo un’offensiva e malsana effluvia durante il resto dell’anno…“.

A differenza di altri viaggiatori Keppel Craven intraprese a cavallo il viaggio seguendo la linea di battigia (con i carri o in carrozza si doveva seguire il tratturo molto più lungo che da Palagiano giunge a Torre Mattoni sulle rive del fiume Bradano, oppure far ricorso alle barche commerciali che da e per Taranto veleggiavano più velocemente lungo la costa, da e per i vari attracchi).

“…La riva del mare, dove poi ci mantenemmo per il resto della giornata di viaggio, offriva ai nostri cavalli una pista liscia ma alquanto faticosa, mentre il fragore assordante della marea, che si infrangeva sotto i loro piedi per lo spazio di venti miglia, diminuiva considerevolmente il piacere che avevo anticipato da una strada così facile. Alla mia destra la sommità di un cespuglio di sabbia continuo, trapuntato di cespugli di ginepro, mi ha permesso a malapena di scorgere le cime di una foresta di pini, che costeggia l’intera parte del golfo, a completa esclusione di tutta la bellezza dell’entroterra mentre la foschia, solitamente accompagnata dallo scirocco, velava i monti della Basilicata e della Calabria antistanti…

Dopo un paio d’ore di viaggio a cavallo…

“…a quindici miglia da Taranto, passai il Lieto, o Lato, piccolo fiume, ritenuto lo stesso sulle rive del quale riposava Annibale, quando, guidato da Filomene, avanzava per farsi padrone di Taranto. …finiva come uno stagno scavato a qualche distanza nella sabbia intermedia… con il Bradano, torrente di ben più grande dimensione ed importanza, che oggi forma il confine delle province di Otranto e Basilicata, in quanto segnava anticamente la divisione tra il territorio di Taranto e Metaponto… La vasta pianura in cui entrai ora, comprendente il suddetto tratto di costa ad est della Basilicata, si estende un po’ anche nell’entroterra e forniva alla città di Metaponto la produzione di grano che formava la fonte della sua opulenza, ed era coniato sulle sue medaglie. È inoltre celebrato dalla magnifica donazione presentata dai suoi abitanti al tempio di Delfi, che, secondo alcuni, aveva la forma della stagione estiva personificata in oro massiccio, o quella di un grande covone di grano dello stesso metallo… Torre di Mare è nel preciso sito dell’antica città, che doveva estendersi tutt’intorno a questo punto. Si tratta di una torre quadrata, fatta costruire dai re angioini, ed è probabile che il mare ne lavi le fondamenta al momento della sua costruzione, per l’accumulo di terreno prodotto dal corso irregolare e variabile dei fiumi Bradano e Basiento, tra i quali è situato, ha lasciato uno spazio intermedio di quasi un miglio…”

Keppel Craven all’imbrunire, dopo un viaggio faticoso

“ …avevo portato da Taranto della carne e delle verdure, e un’osteria attigua offriva vino, pane e foraggio per i miei cavalli, così che non restava motivo di lamentela se non la scarsità di acqua buona, l’unica potabile essendo stata portata dal fiume Basiento…ho visitato le sue sponde subito dopo la mia cena, sotto la guida di un uomo della fattoria, che mi ha assicurato di conoscere bene il luogo e tutti i suoi dintorni. Sono stato molto sorpreso di apprendere che non si trovavano resti di antichità di alcun tipo sulle rive di nessuno dei due fiumi, o addirittura in nessun luogo più vicino di sette miglia a nord, dove ha permesso che c’era un vecchio edificio, detto Torre dei Paladini, e che si diceva fosse di notevole antichità…

Non avendo trovato il sito delle tavole Paladine a causa delle errate informazioni date dal suo accompagnatore che non conosceva la località e come arrivarci, duolendosi per l’ignoranza dei locali poco interessati all’oggetto delle sue ricerche, Keppel Craven ritorna presso la taverna (forse annessa alla struttura Torre di Mare). Il giorno seguente…guadato facilmente il Basente, il drappello di uomini a cavalo che accompagna Keppel Craven si dirige seguendo il “Tratturo del Re” verso la “scafa dell’Agri”, in prossimità di Policoro (è ancora presente il toponimo nelle cartografie I.G.M.):

“…Il Basiento è attraversato a circa tre miglia dal suo incrocio con il mare, in un luogo dove d’inverno è tenuto un traghetto per questo scopo, ma che la poca profondità dell’acqua rendeva attualmente superfluo. Nel corso di questa giornata (cfr 1 giugno 1818) ho attraversato alternativamente tratti di liquirizia in fiore, che sembra un pianta spontanea del suolo, e considerevoli porzioni di granoturco, il cui prodotto cadeva sotto la falce del mietitore. S. Teodoro e S. Basile, due piccolissimi paesini, a poca distanza, erano le sole abitazioni visibili, eccetto una torre detta Scanzano, occupata da pochi doganieri dall’aria malata, presso il letto asciutto del fiume Salandrella. Dopo di ciò entrammo in alcuni uliveti, che crescevano su un terreno meno pianeggiante, che escludevano la vista del mare, ma davano scorci occasionali del fiume Acri, anticamente Aciris, al quale una strada, simile a un vialetto …questo sentiero si snodava attraverso una profusione di sottobosco, popolato di lentisco, cerro, cerro spino e quercia nana, intervallati da pioppi e fittamente rivestito con drappeggi di rampicanti in fiore. L’Acri, per la lunghezza del suo corso e l’abbondanza delle sue acque, può essere considerato un fiume considerevole, e anche in questa stagione trovai qualche difficoltà ad attraversarlo; ma ciò derivava principalmente dalle strane disuguaglianze nel livello del suo letto, una metà del quale era troppo bassa per consentire al traghetto di raggiungere la riva dove mi trovavo, e l’altra metà era abbastanza profonda da coprire le spalle del cavallo: fummo perciò obbligati a smontare in mezzo al ruscello, per evitare di chinarsi e trasferirci con un movimenti tra salti e saltelli, dalle nostre selle nel pazzo vascello che là ci aspettava, mentre i nostri cavalli guadavano verso la sponda opposta… il fiume richiedeva più agilità nei cavalieri e più stabilità nei destrieri, di quanto avrebbero potuto esibire gli individui che componevano il mio piccolo drappello… ciascuno prendendo la propria parte a turno, e offrendo un ridicolo spettacolo agli astanti…

Keppel Craven giunge infine a Policoro:

“…Un quarto di miglio ancora ci portò a Policoro, grande casa e fattoria, un tempo proprietà dei Gesuiti, ma ora appartenente alla famiglia dei Grimaldi, principi di Gerace, con i quali un’intimità di tre anni mi assicurò un’ospitale ricevimento da parte dell’agente che ha curato la gestione di questo prezioso bene. La casa, un grande edificio rozzo, in nessun momento posseduto da pretese di pregio architettonico, non era stata visitata dai suoi proprietari per sedici anni, e le convulsioni politiche che avevano agitato il paese in quel lasso di tempo… vari attacchi di briganti, ne avevano ridotto l’interno a poco più che una collezione di riviste o magazzini per i prodotti della fattoria, stalle per gli animali che richiedeva, o umili abitazioni per gli operai impiegati nella proprietà. Al piano superiore alcune stanze, un po’ più grandi e più pulite, formavano gli appartamenti dell’agente e della sua famiglia, e in una di queste vi alloggi. Il carattere monastico dell’edificio è appena percettibile dopo tanti mutamenti; ma la sua situazione locale, e l’antica celebrità di Eraclea, nel luogo in cui si dice si trovi, le attribuiscono un notevole grado di interesse…. Il palazzo sorge su un poggio che si erge sopra un piano aperto, che si estende per un miglio di fronte ad esso fino al mare. I fiumi Agri e Sinno formano i confini del possedimento a destra e a sinistra; … ben boscose ed erbose, che delimitano i confini a nord, e li dividono dai monti più alti della Basilicata, sui quali si vedono i paesi di Tursi, Pisticcio e Montalbano. Da questa altura, una vista insieme ampia e pittoresca, abbracciando le sinuosità della costa calabrese fino al Capo dell’Alice, e i meandri del Sinno, che scorre attraverso una foresta di bellezza e gran crescita maggiore di qualsiasi altra avessi mai visto in Italia”.

Dopo aver annotato sul suo diario le riflessioni raccolte sui paesi e suoi luoghi nell’immediato interno della regione poco distanti da Policoro, Keppel Craven nota l’estrema povertà dei braccianti del barone indeboliti dalla fame e dalla malaria:

“…Ma nell’immagine esiste un lato oscuro, che sente lo stesso carattere cupo in tutte le parti di questi regni altrimenti favoriti, e sembra destinato a controbilanciare tutto il loro fascino. La malaria rende questo luogo inabitabile dopo la metà di giugno agli abitanti che vivono in capanne di paglia…impegnati in quei servizi richiesti dalla gestione della fattoria…con l’agente principale che per poche ore a giorni alterni passa da Montalbano, dove risiede …le case di questi miserabili abitanti furono tutte bruciate quattro anni prima che io visitassi il luogo, da una banda di banditi chiamata Buffuletti, per vendicarsi di essere stati respinti con successo… In inverno la media degli occupati nella tenuta è di 1000, ma 150 costituiscono la cifra presente costantemente. Mi è stato detto che si suppone che l’aria cattiva provenga da una piccola porzione di acqua stagnante…con pochi ducati la si porterebbe in mare…Il lettore si aspetterà naturalmente qualche resoconto di Eraclea, ma credo di aver ragione nell’affermare che nessuna traccia di questo capo delle repubbliche italo-greche è da rintracciarsi fuori terra, sebbene pietre incise, medaglie e persino frammenti menti di statue sono stati dissotterrati nel flusso. Il sito di Policoro concorda così esattamente con quello di Eraclea, come descritto dagli antichi, che la loro identità non è mai stata contestata…”

Dopo aver sostato a Policoro, Keppel Craven proseguirà verso sud lungo il “Tratturo del Re” che, all’immediata periferia di Policoro, attraversava il Bosco Soprano di Policoro, distrutto completamente dopo il secondo conflitto mondiale…

«Lo scenario del bosco è raramente osservabile in altro luogo del Sud Italia e conseguenteme te il suo fascino mi ha colpito moltissimo…Qui ho visto alberi da legname che per grandezza ed accrescimento sono paragonabili a quelli dei nostri climi più freddi… frassini, cipressi, pini, cerri, elci, abeti, faggi, olmi e vite. ..Tutto questo mi apparve a più riprese e, sotto la chioma delle piante, formata da rami che si allungavano, si trovava un fitto ed intricato sottobosco costituito da tutti i vari arbusti sempreverdi, peculiari del Sud: Lentisco, Mirto, fragrante Alloro, Corbezzolo e Lauro Timo, mescolavano le loro diverse tonalità di verde, ravvivate dai vividi fiori del Melograno selvatico, o dalla tinta…il più dolce dell’Oleandro ed avviluppati da una trama di liane fiorite, rose muschiate e viti selvatiche, la cui fragranza di gran lunga superava gli altri profumi. Molti corsi d’acqua, rami minori del Sinni, vagavano in mezzo a questa foresta e mantenevano una eterna freschezza nei prati fioriti; il gorgheggiare di una grande quantità di uccelli canori dava un tocco in più allo scenario silvano, poco conosciuto a queste latitudini: il fruscio del capriolo spaventato, o il muggito delle grandi mandrie che pascolavano nelle aperte radure, animavano questo quadro di pastorale tranquillità …sulla sponda del corso principale del Sinno mi congedai dal figlio dell’agente, e dal territorio cui presiedeva il padre, e dopo aver guadato il basso ma ampio alveo di questo fiume, entrai in un paese più aperto e ben coltivato : il sentiero correva a un miglio dal mare, e presto risaliva alcuni dolci declivi, sui quali erano visibili parecchie vestigia di costruzione romana. Il Sinno è la Siris degli antichi; sulle sue sponde sarebbe stata fondata un’omonima città, in un periodo ancora più remoto dell’assedio di Troia: varie discussioni sono nate in merito all’originaria colonia stabilita, alcuni attribuendo la sua fondazione ai loni, altri ai troiani…

Keppel Craven proseguirà alla volta di Nova Siri e Rocca Imperiale e dei paesi della costa jonica calabrese

Chora di Metaponto (Università di Austin (Texas) rif.studio prof. J.C.Carter)

La siritide in età normanna con la Via Publica

Metaponto, pietre parlanti e scena di matrimonio al tempio di Hera

La “marcatura dello spazio sacro” a Metaponto risale forse all’ XI secolo a.C, ancor prima della distruzione di Siris nel 650 a.C. e la fondazione di Metaponto nel 630 a.C. da parte dei coloni achei giunti lungo le coste del Mar Jonio a partire dall’VIII secolo a.C. Non sfugge all’eminente studioso archeologo Dinu Adamesteanu, il ruolo dei marcatori simbolici dello spazio sacro ricoperto dalle cosiddette “pietre parlanti”, gli argoi lithoi e tetrathoi lithoi o pyramides nel rito di fondazione. I greci arcaici credevano che dio potesse manifestarsi nella pietra rievocato nei simulacri (stele, erme, pietre ma anche xoanon, una rozza effige in legno di divinità femminili, come quella di Hera rappresentata nel tempio di Samo). I frammenti di “cassette” ritrovate nei pressi del tempio di Hera con le lettere iniziali della divinità, fanno ritenere che il tempio le fosse stato dedicato. Hera , figlia di Kronos e moglie di Zeus, era protettrice della fedeltà, della castità femminile e del cielo atmosferico, patrona delle spose e dei parti. Le “cassette” erano forse cofanetti femminili a forma di oikoi (casa) contenenti unguenti profumati e doni dedicati alla divinità che venivano, secondo l’usanza presso il santuario di Apollo nell’isola di Delo, offerti dalle vergini avvolti nella paglia del grano. Cofanetti decorati con pitture geometriche sono stati ritrovati, ancora intatti, nelle tombe femminili in diverse località dell’entroterra lucano popolato dagli Enotri.

Sono riconducibili alle tradizioni mitiche iperboree dei primi popoli Eubei, approdati lungo la costa Ionica nel primo millennio a.C..  spintisi fino all’interno della regione.  La bellissima rappresentazione su tavola di argilla a rilievo del corteo nuziale era forse in origine collocata sul sacello del tempio della dea (un clichè riprodotto anche in altre località, come a Francavilla marittima). Il matrimonio si svolgeva di notte. La scena rappresenta un corteo nuziale e mostra la sposa pettinata ed inghirlandata che reca il velo e tiene in mano il pancrazio marittimo o giglio di mare, fiore sacro ad Hera (due gocce dalla via lattea sarebbero cadute dal cielo mentre Giunone allattava Ercole e si sarebbero trasformate sulla terra in gigli di mare). Lo sposo guida i cavalli con la frusta e un secondo uomo apre il corteo tenendo nella mano sinistra una lanterna accesa e con la destra tiene le briglie dei cavalli.

Chiudono il corteo nuziale tre donne velate che tengono nella mano destra il giglio di mare. La prima donna reca un giglio aperto, simbolo di una donna matura, seguita da due giovani donne che recano un giglio ancora non dischiuso, simbolo di purezza e verginità.

A quanto pare, la prima fase del tempio di Hera consisteva in una rude struttura di base, mentre in un’altra fase le fondazioni erano state rialzate con blocchi regolari e rinforzate nella parte interna da una serie di colonne monolitiche, prelevate da qualche monumento non ancora ultimato oppure abbandonato. I Greci dell’Acaia e quelli di Metaponto simboleggiavano le loro divinità con gli argoi lithoi. Sotto lo strato sconvolto del lato meridionale, tra la cella e la peristasi, sono apparse diverse pietre rozze, non in situ nella parte superficiale, ma nella parte più profonda ben sistemate per lungo, in strati regolari, ricoperti da argilla ricca di frammenti di ceramica arcaica e quindi prelevata nelle vicinanze del tempio. Sono state trovate 147 pietre rozze, complete o leg- germente scheggiate, qualche volta ancora, spezzate in due. Si trattava di un vero e proprio deposito votivo in cui erano radunate e religiosamente disposte, per strati, tutte quelle pietre le quali, secondo la descrizione fattaci da Pausania (VI, 19,14), erano adorate dai primitivi Greci dell’Acaia al posto delle statue delle divinità. L’impressionante scoperta, mentre rimetteva in

discussione quella avvenuta nel santuario della Malophoros a Selinunte, ci rivelava anche un altro aspetto del culto di Apollo: molte di queste pietre rozze, infatti, recavano ancora, come si è già detto, tracce di iscrizioni incise, comprendenti il nome di Apollo con i suoi attributi; qualche volta si tratta di Apollo Lykaios, già noto da un’iscrizione conservata nel Museo Provinciale di Potenza, qualche altra di Apollo Nikaios, denominazione, questa, del tutto nuova per l’area metapontina.

Un altro attributo di Apollo, quello di Archegeta (Cfr eroi patroni di colonizzatori), può essere invece dedotto dalla presenza di due ancore di grandezza diversa, di cui una in marmo. Senza che queste rechino alcuna iscrizione, la loro presenza nel deposito sacro del santuario di Apollo, allude, con ogni probabilità, all’altro suo attributo e precisamente a quello di conduttore di spedizioni, specialmente nel momento delle fondazioni delle colonie o di missioni speciali a Delfi (Cfr sede dell’oracolo). Di fronte a questa scoperta, restava da chiarire la provenienza di questi argoi lithoi, come li chiama Pausania. Un altro problema era quello di stabilire il momento in cui questi oggetti sacri erano stati sistemati nel deposito sacro del tempio di Hera. Alla prima domanda si è avuta risposta non appena allargato lo scavo sul lato occidentale del tempio. A circa m. 7 ad occidente della peristasi del tempio, ci si è imbattuti in altri esemplari di pietre rozze infilate nel terreno, nonché in altri tipi di pietre, ben lavorate, di forma piramidale, fissate, mediante un incastro, su basi sempre in pietra. E’ da notare che quest’ultima serie di pietre, a forma di cippi, poggia su uno strato superiore a quello in cui sono infilate le vere pietre rozze. Ma queste osservazioni corrispondono esattamente a quanto descritto da Pausania alla vista del santuario di Hermes. in Acaia: le pietre rozze —argoi lithoi —erano adorate dai Greci nelle fasi della loro vita religiosa —palaiotera —mentre, in una seconda gli stessi Greci adoravano le pietre lavorate a forma di piramidi —tetrathoi o pyramides. A scavo ultimato, queste pietre davano l’impressione di una vera foresta. Al momento della costruzione del tempio di Hera…per e quarti della lunghezza di questo lato sono stati rinvenuti centinaia di frammenti —grandi e piccoli —di terrecotte rappresentanti la la cassetta della decorazione architettonica… Sul retro di molti elementi architettonici abbiamo letto il nome di Hera, come sul retro delle decorazioni del vicino tempio potevamo leggere, abbreviato, il nome di Apollo…com’è stato già detto, sul lato Ovest del tempio ci si è trovati di fronte al campo degli argoi lithoi e dei tetragonoi lithoi in situ, molti dei quali recano ancora iscrizioni in caratteri greci achei del periodo arcaico e classico, riferentisi continuamente al culto di Apollo. Ma sempre su questo lato è avvenuta un’altra scoperta della massima importanza, tanto per i culti praticati nel santuario di Apollo quanto per la capacità dei maestri della plastica metapontina. In un angolo, quello NO dell’attuale zona di scavo, è stata messa in luce una piccola casa, databile, in base alla ceramica di uso comune ed alle monete rinvenute, alla seconda metà del IV e forse anche agli inizi del III secolo a.C.. I muri di questo misero edificio erano formati, in gran parte, da grandi frammenti di pietre rozze e da frammenti di statue fittili appartenenti a due figure umane a cui mancano le teste ed i piedi. Altri frammenti fittili, riuniti, formano parte di due cavalli. Di uno di questi si conserva la testa, ravvivata da diversi colori mentre un’altra testa di cavallo, più antica della prima, è stata rinvenuta più a Sud. Allo stesso gruppo si sono aggiunti poi altri frammenti, rinvenuti sul lato ovest del tempio di Apollo, che permettono di ricostruire quasi completamente il gruppo dei Dioscuri. Dalle fonti si poteva dedurre che i Metapontini, come Taranto e Locri, avevano, tra i vari culti anche quello dei dioscuri…”.

Ricostruzione fregio del sacello C (Mertens-Horn, 1992)

Tetragonoi lithoi o pyramides e argoi lithoi (tratto da M. Lacava, Metaponto, Op. cit)

I casalini di Scanzano Jonico (Foto Bavusi – 2006) con il borgo di S.Maria della Scanzana

Il “palazzaccio” baronale (Foto A.Bavusi – 2006)

Tratto da O.Baldacci. L’ambiente geografico delle case di terra in Italia. Rivista Geografica Italiana, V.LXV, 1958

Tratto dallo studio di Paolo De Grazia, La Valle del Sinni. In L.Franciosa, la casa rurale della Lucania, Op cit.)

La struttura dei “casalini”

La definizione di “casalino” è presente nei documenti medievali (casalinum, casaleneum, casile) e si riferisce ad unità abitative presenti in atti di fondazione o di popolamento urbani e rurali (sui casalini leggasi il saggio a cura di M. Canidu, I catasti e la storia dei luoghi. I Casalini e il progetto della città medievale. Edizioni Kappa, Storia dell’Urbanistica 4/2012). Costituivano particelle con dimensioni prestabilite, strutture edilizie realizzate secondo tessere di un mosaico urbano, connesse funzionalmente al palazzo signorile, spesso limitrofo, e alla chiesa. La vita in questo monolocale era precaria. I nuclei familiari, di estrazione prevalentemente bracciantile, erano composti spesso da numerosi componenti che dormivano e mangiavano in promicuità, utilizzando le pareti come rispostiglio per alimenti, vestiti, calzature e il soffitto per appendere cesti e persino culle per neonati. Per l’uso dell’ acqua ci si serviva di quella prelevata a fontane pubbliche o pozzi, mentre per i servizi igienici si utilizzava spesso la strada o recipienti che venivano svuotati nei terreni vicini ( per le condizioni di vita leggasi: Camera dei Deputati, Atti della Commissione Parlamentare di Inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla, vol. XIV-I, Inchiesta a carattere comunitario, Relazione a cura di Gaetano Ambrico – Roma 1954). Per cucinare ci serviva del piccolo camino situato all’interno del monolocale. In Basilicata sono esempi il rione Dirupo a Pisticci. Le “casedde” vennero costruito dopo la frana del 1688, ma questa tipologia costruttiva era presente anche in periodi storici precedenti (a Pisticci sono numerose le vie che conservano ancora questa tipologia abitativa, ancora abitate). In alcune aree urbane di Montalbano Jonico (in Via G.Pepe, Via Giannone – Cappella S.Pietro,Via C. Colombo, Via G.Bechi, Via N.Macchiavelli, Via Fiorentini – ex Palazzo Federici) sono presenti solo alcune “casedde”, spesso in degrado, anche se alcuni sono abitate da anziani soli. Questa tipologia costruttiva è ancora presente anche a Grassano (vicolo I e II Madonna della Neve, Corso Garibaldi e Capogrotta). Marcello Fabbri, in merito alle “casedde” di Grassano (oggi in stato di degrado) scriveva: “la struttura urbanistica di un paese come Grassano è caratterizzata da un nucleo più antico, anteriore al XVII secolo, nella parte più alta. Lungo la strada principale si allineavano i palazzotti dei “galantuomini” mentre i braccianti costruivano le loro schiere di “casedde”, con tre muri su quattro in comune con le case vicine, lungo il pendio della collina, con un orientamento e una pendenza che permettevano a ciascuna casa di godere di una sufficiente insolazione, e nello stesso tempo favorivano lo scorrimento dell’acqua piovana lungo il pendio. La “casedda” è costituita da una stanza di circa venti metri quadrati, con quattro muri di tufo rivestiti di calce e un tetto di tegole a due falde sopra una stuoia di canne…” (Cfr. M.Fabbri, Matera dal sottosviluppo alla nuova città, Basilicata Editrice, Matera, 1971). Il casalino – casedda, allorquando inserito nel tessuto urbano, evolverà nel tempo verso il “lammione” e successivamente in “casa soprana“che, dal punto di vista architettonico ed urbanistico, segnano il passaggio dalla cultura contadina a quella commerciale. Infatti, il piano rialzato soprano, viene destinato ad abitazione, mentre il piano sottostante diviene locale per il ricovero del mulo da trasporto o per l’attività commerciale, in seguito anche cantina, bottega, etc. Le casedde , in un piccolo aggregato (detto filaro o anche filago), sono presenti ancora a Tricarico (borgo Rabatana – vicolo Mesola), a Grottole, in Via Corso Umberto e Via Mazzini; a Calciano, lungo Corso Umberto I; a Salandra (Via F.Filzi, Via San Nicola, Via Fratelli Grassano e vicolo Saponara). A Ferrandina  sono numerose le vie con le “casedde” (Via Garibaldi, Via F. Nullo, Via G.Pepe, Via Roma, Rione Purgatorio, Via Cirillo, Via Cassola, Via Cavour, Via D.Bellocchio, Via Masaniello, Via C.Beccaria, sede quest’ultima anche della Giudecca ebraica, etc). In alcune vie di Ferrandina le “casedde” sono state sostituite da case soprane o lammioni, che compongono un tessuto urbano originale formato sul lato opposto da palazzi nobiliari e residenze signorili rendendo palesi l’appartenenza alle diverse classi sociali della popolazione, secondo modelli di abitazione diversi per altezza, dimensione e differenzazione di funzioni. Tali strutture, ancora inserite nel tessuto dei centri storici, andrebbero salvaguardate per il loro valore culturale e di testimonianza sociale, antropologica ed architettonica, considerato che molti casi risultano abbandonate e rischiano di essere demolite ed alcune andrebbero recuperate.

I lotti edificabili venivano concessi con l’impegno di edificare l’abitazione in un tempo stabilito. In zone rurali, invece, i casalini erano connessi funzionalmente alla masseria. Gli spazi venivano concessi dal possidente ai sottoposti, i quali conservavano il diritto di eredità con il divieto di vendita o alienazione. La costruzione del “casalino”, per economicità e risparmio di materiali, avveniva in filari (il Filaro della Masseria S.Basilio di Pisticci ne ha conservato anche il toponimo).

Questa soluzione permetteva di condividere due o tre pareti con il casalino adiacente (nel caso del doppio filare o del sistema costruttivo a quadrato isolato, come a Scanzano Jonico, San Basilio – Filaro, Torre di Mare, oggi non più esistente).

Leandro Alberti, in viaggio in Calabria e Basilicata nella sua “Descrittione di tutta Italia” del 1525, ne testimonia la presenza, chiamandoli “casuzze” a Torre di Mare “…disabitata con alcune casuzze abitate da persone povere alla torre per tenere buone guardie nei tempi dei pirati”.

Proveniente dal feudo di San Basilio, nel corso del suo viaggio, Giuseppe Antonini, barone di San Biase nei suoi “Discorsi sulla Lucania” (1745) chiama “cassucce” le abitazioni di Pisticci. Dopo “otto miglia a dritta del Basento” l’Antonini giunge a “Pisticcio…terra ben grande, ed alloggiata su d’un alta, ma cretosissima collina, in cui cavandosi per avventura due giorni non si troverà una pietra e molti paesani fabricano le di loro casucce con pezzi quadri, e massicci di creta cotta al sole, ond’è, che talvolta per la molta pioggia si sciolgono, e le case vanno in ruina”.

Il barone di San Biase descrisse i materiali costruttivi delle case definiti oggi “terra cruda” dal tipo di impasto utilizzato, per la prima volta classificato in Italia nel 1958 dal geografo Osvaldo Baldacci (O.Baldacci. L’ambiente geografico delle case di terra in Italia. Rivista Geografica Italiana, V.LXV, 1958) che, per la Basilicata (vedi cartina tratta dallo studio), indicava la tipologia della “casedda” con l’impasto definito nella zona di Senise “ciuciule”, “un blocco di argilla sabbiosa ed azzurra sciugata al sole” (Cfr. Paolo De Grazia, La Valle del Sinni. In L.Franciosa, la casa rurale della Lucania. A Forni Editore, ristampa anastatica dello studio pubblicato nel 1942, ripubblicato nel 2010).

La “terra cruda” costituisce elemento costruttivo povero tradizionale, specialmente nelle aree geologiche argillose, studiato per l’alto grado di isolamento termico. Utilizzato ampiamente nel passato, presentava scarsa resistenza agli eventi climatici e geologici, così come lo stesso barone Giuseppe Antonini enfatizzava la “ruina” provocata dal loro uso nella fabbricazione delle “casucce” che osservò a pochi decenni dalla rovinosa frana durante il suo viaggio “…perché il luogo è tutto creta nell’anno 1688 del mese di Febrajo, essendo caduta una gran neve, sulle tre ore della notte, quella parte della Terra, ch’è volta ad occidente cominciò quasi insensibilmente a profondarsi, ed a restare ingojata. Molti col favor della neve stessa (che quasi un certo lume lor dava) si salvarono, altri al numero di seicento restarono miserabilmente sepolti; ed ora dove la cosa accadde, si vede con estremo orrore dall’alto un gran piano con una Chiesuola fabbricatavi in appresso dalla pietà degl’avanzati cittadini”.

I caratteri costruttivi della Piana di Metaponto e delle colline sovrastanti fra il Bradano e l’Agri vede forme e tipi di case rurali nella forma di “masserie a villaggio” contraddistinte da tipologie funzionali specifiche (Cfr. Paolo De Grazia, La Valle del Sinni. In L.Franciosa, la casa rurale della Lucania, Op cit.). Il curatore della ricerca, Luchino Franciosa, docente di geografia all’Università di Bari e l’autore della ricerca, Paolo De Grazia, al di là degli aspetti strutturali ed estetici,  nello studio evidenziano caratteri antropologici delle trasformazioni fondiarie e di quelle sociali, sconfinando in un vero e proprio codice interpretativo delle dinamiche insediative e culturali.

Il geografo lucano Paolo De Grazia e l’anima del casalini

Nella sua indagine demo-antropologica condotta in Lucania per conto del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche – Comitato Nazionale per la Geografia) e pubblicata nel 1942, il prof. Paolo De Grazia (1871 -1951), geografo nativo di Senise, collaboratore di un altro lucano nativo di Melfi, anch’egli geografo, il prof Luchino Franciosa, coglieva l’intima relazione tra gli uomini e le dimore, delineando la geografia dei luoghi, intrecciando sapientemente le esigenze di comprensione dell’antropologia, per la prima volta indagata con metodo scientifico in Lucania da un gruppo di geografi attivamente impegnati della Società di Geografia Italiana (il loro non era affatto solo un viaggio in questi territori). La Basilicata si rilevava essere una regione complessa, sia nei suoi caratteri geografici, sia in quelli umani e insediativi, in un periodo difficile della storia d’Italia durante il nascente fascismo in cui coabitavano ricchezza e povertà estreme con ideologie altrettanto contrastanti.

L’architettura delle dimore rurali, agli occhi dello studioso De Grazia, superficialmente definito oggi “poligrafo” da quanti ne tracciano la biografia, ma non ne conoscono le opere, mette in evidenza le caratteristiche sociali ed economiche di un territorio definito volutamente povero proprio dalle classi ricche che traevano invece vantaggio dallo sfruttamento della terra e degli uomini che lo abitavano. Le descrizioni, i disegni e le fotografie effettuate da De Grazia e dai suoi collaboratori nelle campagne del latifondo del Metapontino e della costa jonica, vanno ben oltre l’aspetto estetico sulle semplici case dei braccianti o le ricche masserie dei signori, costituendo testimonianza narrante e documentata dei luoghi e della loro identità, che meriterebbero essere culturalmente validate e riconosciute da quanti presiedono istituzioni pubbliche e enti di tutela, che relegano a marginalità questi studi e testimonianze importanti, lasciando il territorio all’iniziativa privata, spesso irrispettosa dei luoghi e dei monumenti.

Nello studio di De Grazia si definiscono persino le tipologie dei “casalini” e i loro dettagli attraverso i “fumaiuoli” presenti nelle diverse masserie-villaggio: “ …a Ricoleta due file di casette, intorno ad un vasto piazzale ondulato, salgono verso il palazzo dal lato orientale, circondandolo anche dal lato meridionale, con disposizione non lineare ma a rientranze e sporgenze. A Scanzano si hanno due file di casette ai lati del palazzo; a San Basilio queste si allineano nella stessa direzione della facciata principale. Le casette di Policoro dette anche casalini, costituite di un solo vano terraneo sono affiancate le une alle altre. Ognuna è provvista di focolare con gola del camino nel muro e fumaiolo alto di muratura sul tetto a due pioventi; coperto di embrici curvi; sul vano della porta, ad un battente e con portella, o lateralmente ad essa, si apre un finestrino con infisso di legno. Un particolare delle case di Policoro è che i due pioventi di ciascuna casetta immettono nell’intercapedine di un comune canaletto di scolo che riversa le acque nel terreno sottostante:esso non esiste a Scanzano, ove, invece, le facciate tutte uguali, con cornice, nascondono le falde retrostanti coi loro due pioventi. Queste forme edilizie elementari si riscontrano. Con piccole variazioni, nelle casette di tutte le masserie suindicate, e costituiscono la dimora permanente dei lavoratori fissi addetti alla coltura dei cereali e all’industria dell’allevamento. Altro carattere costante è l’alto fumaiolo, quadrato rettangolare, esagonale o di altra forma (ndr: inopportuni lavori recenti in alcune località hanno invece eliminato questa caratteristica) elevato sul tetto di circa m.1,50. L’altezza è dovuta alla necessità di permettere al fumo di innalzarsi nell’aria sollecitamente, data la bassa posizione altimetrica delle case e la pressione atmosferica, e per evitare che il ricorrente flusso dei venti lo ricacci nell’interno dell’abitazione. Alcuni fumaiuoli sono con una sola apertura, altri con due simmetriche, altri con quattro nelle forme quadrate o rettangolari. A Policoro predomina la forma piatta; a Ricoleta lo sfogatoio e con i pioventi opposti alle due aperture aperture laterali; a San Basilio le forme sono quadrangolari o esagonali con chiusura superiore a pioventi come a Ricoleta; talvolta abbellite da decorazioni: sono tutti in mattoni…

Tratto da P.De Grazia, Op. cit. A sinistra abaco dei “fumaiuoli” dei casalini o casette nelle varie località. A destra, disegni di E.Gualtieri sulle diverse tipologie di casalini a Policoro nel 1925 (epoca del disegno)

Borgo San Basilio (Pisticci): masseria e casoni del Filaro (pianta, prospetti e visione dall’alto). In basso la struttura dei casoni. A sinistra in basso, nel margine del fabbricato, è visibile il grande fumaiuolo del camino interno alla struttura.

Borgo San Basilio (Pisticci): il “Filaro” con i casalini a schiera, così come si presentavano con i caratteristici “fumaiuoli”, prima del loro recente rifacimento.

Nella cartografia di inizio Ottocento di Rizzi Zannoni, l’itinerario utilizzato (variante al Tratturo del Re) era quello che deviava verso San Basilio, ove nella carta sono visibili il Castello e il Casone. Interessante sono le due torri (Torre dell’Aria e Torre della Salandrella) lungo il tratturo che collegava San Basilio ai Magazzini sulla costa, a protezione del commercio di prodotti alimentari ivi praticato ancora all’epoca via mare

Lungo il Tratturo del Re: Manlio Rossi Doria nelle terre della malaria e del latifondo

Tra i profondi conoscitori della regione e della costa Jonica lucana è Manlio Rossi Doria (1905 – 1988). Appena ventunenne, a cavallo, si recò diverse volte in Val d’Agri, presso l’azienda agricola Azimonti per la redazione della sua tesi di laurea in Agraria sul bestiame di razza podolica in Basilicata, visitando l’azienda Turati di Calle di Tricarico e quella di Policoro. Furono proprio questi gli anni che segnarono la formazione non solo professionale, ma anche quella dell’intellettuale e del politico, padre della Riforma Fondiaria, che lo riportarono più tardi da “confinato” politico a San Fele e Melfi, dove ebbe modo di intrecciare la propria esistenza confrontando la propria esperienza con quella di altri intellettuali inviati in Lucania, come lui, dal regime fascista. E più tardi ancora, allorquando fu chiamato, lui comunista, come ebbe a scrivere, da De Gasperi ad ipotizzare gli scenari della Riforma Fondiaria nel sud Italia che aveva conosciuto e conosceva.

Nel suo “La gioia tranquilla del ricordo. Memorie 1905 – 1934”, Manlio Rossi Doria ripercorreva, non solo idealmente, la propria vita ed in particolare il proprio cammino “nella vasta e vuota pianura” della costa dello Jonio lungo il Tratturo del Re, dove giunse a Policoro “… Dove oggi corre la superstrada costiera correva allora qualcosa di mezzo fra una strada campestre in terra ed un tratturo: fummo, perciò, costretti, almeno per alcuni di quei corsi d’acqua, ad attraversarli rizzati su di un carro dalle alte ruote trainato non ricordo se da buoi o da bufali…. i pochi uomini che incontrammo lungo la strada, intabarrati nel loro nero mantello, tremavano dalla febbre nel sole d’aprile; i bambini, fuori dalle piccole case dei salariati fissi ai piedi del castello di Policoro, emaciati e col ventre rigonfio, e dovunque la vana difesa dalla anofele con le fitte retine a porte e finestre…”. Immagini rimaste indelebili non solo nella memoria di Rossi Doria, che lo convinsero ad intraprendere una battaglia per un popolo costretto a resistere contro le intemperie umane e quelle della natura, mentre le potenzialità della “polpa” dello Jonio contrastavano con l’asperità dell’osso dell’interno di una regione rimasta pastorale e sottosviluppata.

Ma la sua visione profetica di questi luoghi lo condusse a riconsiderare nel 1992 che in Basilicata “…la dove ancora oggi c’è solo un’agricoltura estensiva assai poco progredita rispetto a quella di venti o quarant’anni fa, possono crearsi centri di intensa produzione agricola, di intensa vita civile, tali da poter rappresentare un polmone di vita per tutta la regione…gli unici processi validi sono quelli che corrispondono alle tradizionali caratteristiche dei luoghi e degli uomini…”.

Latifondo Recoleta (cartografie tratte dal quadro di unione catastale Scanzano Jonico, cartografia Rizzi Zannoni, 1807 e foto d’epoca)

Palazzo e Borgo Andriace. Collage cartografia e immagini (il disegno del palazzo in basso è tratto dalla pubblicazione Benvenuti a Borgo Andriace, Op. cit.)

Il borgo-villaggio del latifondo Andriace

Il borgo agricolo, attestato in prossimità del palazzo del XVIII secolo, E’ ubicato attualmente nel comune di Scanzano Jonico, lungo il basso corso della Salandrella o Cavone, Akalàndros, Ακαλάνδρος in greco antico, le cui vallate vennero popolate dai nuclei greci già a partire dal X secolo a.C.

Anche nel territorio limitrofo al bosco di Andriace sorsero fattorie greche. in località Vaccariccio è presente una grande fattoria nella quale era praticata l’agricoltura (cereali e olivi) con forme di allevamento transumante. Un intervento progettuale ha ricostruito nel 2010 poco distante l’antica fattoria che avrebbe dovuto funzionare come attrattore dell’area. Aperta fino al 2015, attualmente versa in stato di abbandono (Cfr articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno. Da fattoria magno-greca a stalla, 3 luglio 2022). Su un pianoro vicino a Termitito è stata rinvenuta una villa rustica con torculario e lacus, pars fructuaria e parte servile e il settore termale con un cortile porticato.

L’indagine archeologica ha inoltre individuato una frequentazione anteriore alla villa di età arcaica e micenee e un villaggio dell’età del bronzo. I risultati sono stati presentati da A. Bottini al XXXIV Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 1994) e pubblicati da L. Giardino in lavori del 1994. Secondo il Racioppi l’etimologia della parola Andriace significherebbe carbonaia, da ἀντράκια, ας, che è congerie o confezione di carboni (G. Racioppi. Origini storiche basilicatesi investigate nei nomi geografici, 1876). Nelle cartografie del XIX secolo (Rizzi Zannoni, 1807) la denominazione utilizzata è “Intriace”.

Gli estesi boschi compresi tra Pisticci e la costa vennero distrutti dall’uomo e dagli incendi, che ne ridussero drasticamente l’originaria estensione, causando il degrado del suolo argilloso che erosa dalle acque divenne franoso, lasciando solo la macchia mediterranea. In epoca normanna, il conte Ubaldo, signore di Petrolla, donò il feudo al monastero di Banzi. Nel 1151, re Ruggiero ne confermò il possesso. Le condizioni insalubri che riguardavano l’intera fascia Jonica, costrinsero la popolazione ad abbandonare l’area. Nel cedolario angioino, infatti, risultano 24 fuochi che corrispondevano a circa 160 abitanti tenuti alla manuntenzione del “castrum Petrulli apud Pisticii”.

Il saccheggio piratesco nel 1307 costrinse gli abitanti ad emigrare verso l’interno ed i beni dell’Abbazia di Banzi transitarono alla Mensa Vescovile di Tricarico (MT) nel 1354. Nel 1723 il geometra Giovanni Antonio Santodonato descrisse Il feudo di Andriace con un’estensione di 5.875 tomoli con le tenute circostanti in località la Manca, Piano dell’Uscio, vallone di Ferrarulo e le proprietà dell’Arcivescovo di Taranto, dei Donnaperna e del Comune di di Montalbano Jonico. La controversia legale tra Montalbano Jonico e la mensa vescovile di Tricarico costrinse il vescovo Antonio Del Plato ad affittare il fondo di Andriace per sedici anni a Francesco Loffredo, Principe di Migliano e conte di Potenza che fu eletto dal sovrano Ferdinando IV primo cavallerizzo e consigliere nel Supremo Consiglio delle Finanze. Sposò Francesca De Sangro, figlia del Principe di Viggiano, moltiplicando il numero dei feudi in suo possesso fino allo Jonio.

Il vescovo chiese al principe Migliano di proibire gli usi civici. Si deve forse a Francesco Loffredo la realizzazione del palazzo e del borgo con i casalini e le unità produttive del borgo. Si ha infatti notizia che padre Nicola Colummella Onorati autore ”Delle cose rustiche” pubblicato nel 1791 a Napoli, nel descrivere i progressi in agricoltura nel Regno di Napoli accennava alla “…vigilanza del Sig. Principe di Migliano, uomo versatissimo alle scienze economiche, il quale nel fondo rustico dell’Intriace, composto di moggia 4000 in circa, potrebbe far rinascere l’antica floridezza dè Metapontini, e di tutti gli altri popoli, che abitarono un tempo quell’amenissima contrada della Lucania”. Nel 1804, nel suo “Trattato di principi di chimica”, Padre Nicola Colummella Onorati, nel ricordare “il feudo rustico dell’Intriace” annotava le proprietà del lentisco che ivi vegetava dal quale “si potrebbe avere anche il mastice per incisione…” (si riferiva alla resina nota come mastice di Chios, dall’isola greca in cui si produceva, utilizzato anticamente come farmaco per curare i disturbi dell’apparato gastrointestinale tra cui bruciori di stomaco, reflusso, infezioni, ulcere gastriche e diarrea ma anche come dolcificante aromatico, alternativo al miele d’api).

Nel 1813, il feudo venne diviso con Montalbano che ne chiedeva il possesso in base alle leggi eversive della feudalità. Dalla pianta eseguita dall’agrimensore Felice Russo nel 1813 venivano indicati confini della “Difesa di Andriace” in controversia con il comune di Montalbano Jonico, che riuscì ad ottenere una parte consistente dell’antico fondo agricolo. La parte di proprietà ecclesiastica con i fabbricati nel 1869 pervennero al Demanio dello Stato in vitù della legge 15 agosto 1867, n. 3848 che sopprimeva gli enti ecclesiastici, sia quelli morali sia quelli per scopo di culto: diocesi e istituti di vita consacrata, ed anche i capitoli delle chiese cattedrali e di quelle collegiate. Diviso in lotti, il fondo agricolo e gli immobili vennero acquistato in parte dal cavaliere Filippo Serio e dall’ ingegnere Gaspare Legnazzi che tra il 1870 e il 1877 procedettero a dissodare parte del fondo (Cfr Fondo Archivio dello Stato, Ministero Agricoltura, fascicolo 0950, busta 407). Legnazzi comprò anche la parte del Serio. La tenuta passò in eredità a Filippo, che sposò la signora Faraldo (Cfr Benvenuti a Borgo Andriace, Op.cit). Nella prima metà del XX secolo la signora Faraldo ebbe in eredità le terre dal defunto marito i cui eredi furono oggetto degli espropri disposti dalla Legge di Riforma Fondiaria vendendo parte dei terreni in proprietà. Gli atti di espropri della Riforma alla famiglia Faraldo riguardarono 21 ettari circa di seminativi e 8 ettari di frutteto in località Andriace su un totale espropriato alla stessa famiglia pari a 247 ettari incamerati dall’Ente Riforma e riassegnatii a compratori (Fonte: S.O. Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.162 del 15 luglio 1952).

Il fondo agricolo di Andriace, che già era stato diviso in due parti nel 1813, venne definitivamente smembrato ad opera questa volta della Riforma Fondiaria che non garantì la continuità produttiva auspicata, frammentando ulteriormente le proprietà che finirono per essere oggetto di speculazione fondiaria.

Oggi “la superficie agraria di Andriace costituisce un’area florida di circa 100 ettari intorno ad un bellissimo casolare storico, divisa tra il territorio dell’agro di Montalbano Jonico e quello di Scanzano Jonico” ( Cfr Benvenuti a borgo Andriace. Pubblicazione a cura dell’Agricola Immobiliare Andriace). Il progetto redatto dalla società fa riferimento ad un pool di produttori agricoli operanti nel sud Italia ed a Scanzano Jonico, proprietaria dei 45.263 mq degli immobili e terreni adiacenti sui quali è previsto – secondo il progetto – il recupero produttivo e un progetto di riqualificazione teso alla riorganizzazione degli spazi esterni, al recupero degli edifici attraverso interventi di restauro conservativo e/o di ricostruzione tipologica secondo la tipologia originaria con un uso di materiali originari anche se realizzati in epoca successiva, con destinazione d’uso di tipo culturale e sviluppo di turismo culturale e ricettività di qualità“.

Il Tratturo del Re

Il nostro studio intende offrire spunti culturali e di riflessione sulla cosiddetta regione dello Jonio, non solo per gli addetti ai lavori. Il Tratturo del Re, attraversava territori di tre regioni (Puglia, Basilicata e Calabria jonica) corrispondente a ciò che è stata definita dal punto di vista archeologico “Magna Grecia”.  Sia negli studi archeologici e sia in quelli sociali è stato però quasi del tutto ignorato il ruolo delle reti di comunicazione del passato, che hanno condizionato anche l’evoluzione delle strade e dei collegamenti moderni, tralasciando così aspetti identitari e culturali importanti. Ai tentativi di ridefinire gli assetti dei territori è venuto meno anche il fattore sociale ed antropologico, con progetti di pianificazione territoriali rimasti incompiuti o addirittura dimenticati (si pensi ad esempio al progetto Jonio-Europa svilito dall’industrializzazione forzata per poli di sviluppo costieri divenuti negli anni Ottanta del secolo scorso “cattedrali nel deserto”). Il luoghi costieri dello Jonio, dalle profonde radici storiche comuni, rappresentano invece uno straordinario territorio non solo da conoscere e riscoprire. Il Tratturo del Re, riportato ancora con questa denominazione nei quadri di unione catastali dei singoli comuni costieri lucani (non abbiamo potuto consultare purtroppo i catasti delle regioni Puglia e Calabria a causa del Covid19 e per l’indisponibilità di queste mappe su internet), è stato relegato ad una toponomastica in via di dismissione. Abbiamo ripercorso il suo sviluppo, riscoprendo invece una storia millenaria che può costituire la memoria comune futura, necessaria per ricomporre l’identità di una delle aree più importanti e ricche del sud Italia e del Mediterraneo, situata alle radici dei processi di civilizzazione tra oriente ed occidente e il nord Africa. 

La storia

Il “Tratturo del Re” è così denominato nelle mappe catastali (quadri di unione catastali comunali della costa jonica lucana) e nella cartografia storica del XVI – XIX secolo indicato come Strada Regia Calabria-Puglie. Costituiva un importante itinerario terrestre, probabilmente già presente dalla media Età del Bronzo (1.500 a.C.) come prolungamento del sistema commerciale navale in epoca magno-greca, con porti e attracchi per imbarcazioni (caricaturi) presso le foci dei fiumi esistenti fino al XVIII secolo, dove erano localizzati i magazzini (magazeni) per le merci (in epoca magno-greca, erano scavati nel suolo ed erano chiamati siroi). Nel XVI secolo, per arginare le piraterie, vennero realizzate torri costiere, difese da guarnigioni armate denominate “Cavallari”, così come mostra la mappa del cartografo Rizzi Zannoni (il toponimo cavallari è presente in diverse località costiere). Da XIV secolo, come conseguenza della cosiddetta “piccola era glaciale”, si verificò un abbassamento del livello del mar Jonio con un conseguente aumento dei livelli delle precipitazioni che, dal XVII secolo, consentì ai fiumi lucani di portare dalle montagne verso la pianura alluvionale una grande quantità di sedimenti, con conseguenti impaludamenti. Le torri costiere risultano attualmente posizionate nell’interno rispetto all’originaria ubicazione.
Il Tratturo del Re si sviluppava a monte delle aree paludose e malsane lungo la costa. La Tabula Peutingeriana, ricostruzione risalente al XII-XIII secolo della più antica rappresentazione stradale romana, mostra le statio e le località dello Jonio, da “Tarento” fino a “Regio”. Le Tav. 71v e 72r della Tavola Sesta d’Europa che raffigura l’Italia, contenuta nel Codice “Urbinas Graecus 82” (Urb. gr. 82), mostra l’itinerario del “Tratturo del Re”. E’ il più antico codice greco conosciuto della ‘Geographia’ di Tolomeo ricomposto da Federico III da Montefeltro su edizioni ricopiate nell’XI secolo dalle carte di Tolomeo originali. Esso mostra l’itinerario costiero con i toponimi delle località partendo da Taranto (Taras – Τάρας) fino a Reggio Calabria. L’immagine è consultabile presso l’archivio on line della Biblioteca Apostolica Vaticana. La via romana era ubicata lomitrofa alla linea di costa, ma con uno sviluppo che attualmente risulta più arretrato rispetto al periodo romano. L’itinerario del Tratturo del Re è rimasto invariato fino al XX secolo, allorquando si completò nel 1869, fino a Taranto, la Ferrovia dello Jonio. Nel 1928 fu completato il tratto Lucano della Strada Nazionale Jonica fino a Taranto, a seguito dell’istituzione dell’Azienda Autonoma Statale Strada (AASS).
Il Tratturo del Re, di cui oggi è possibile ricostruire l’originario percorso solo attraverso le carte catastali per gli stravolgimenti intervenuti a seguito della Riforma Fondiaria degli anni 50-60 seguita da interventi antropici, insediativi e turistici, attraversava i territori della Magna Grecia, collegando Reggio Calabria a Taranto e le “marine” dello Jonio ai centri situati nell’interno della regione. Era utilizzato durante la transumanza da e per le montagne del Pollino, del Sirino e le Valli del Sinni. Solo piccoli tratti sono rimasti inalterati su sterrato.
La distruzione delle testimonianze archeologiche ed urbanistiche della Magna Grecia, iniziata ad opera dell’uomo già nei primi anni dell’800, proseguono purtroppo ancora oggi, a causa degli interventi impattanti sull’ambiente e il territorio di tipo industriale, turistico ed agricolo (sull’argomento leggasi la scheda “Magna Grecia: la distruzione che continua ancora oggi” – nella colonna a sinistra in basso).
Gli studi più recenti, salvo rare eccezioni, non hanno ancora inquadrato le necropoli, le polis e le fattorie magno-greche e romane, gli insediamenti medievali nell’ambito della rete stradale antica. Il Tratturo del Re testimonia, nelle varie epoche storiche, la presenza di un intenso scambio commerciale e culturale che intersecava i porti e gli attracchi costieri, terminali delle rotte navigabili lungo la costa e per l’intero bacino del Mediterraneo, descritte nel XVIII secolo da viaggiatori e studiosi giunti in Italia e sulla Costa Jonica.

La geografia antica dello Jonio

Il Mar Jonio, costituisce in Italia un mare delimitato dall’attuale Golfo di Taranto (Sinus Tarentinus), tra S.Maria di Leuca (Puglia) e Reggio Calabria (Calabria). Il mar Ionio o Mar Jonio (in albanese: Deti Jon, in greco: Ιόνιο Πέλαγoς) è invece un bacino del mar Mediterraneo orientale più vasto, situato tra la Sicilia, l’Italia meridionale (Puglia, Basilicata e Calabria), l’Albania (prefettura di Valona) e la Grecia (Isole Ionie). La leggenda vuole che questo mare si chiami così dal greco antico  Ἰώ, Iṓ (Io), figlia di Inaco, signore di Argo, che fu amata da Zeus in forma di giovenca, e quindi perseguitata da Era; per sfuggire alla dea avrebbe attraversato a nuoto il Mediterraneo. Secondo un’altra leggenda, prende il nome dal personaggio della mitologia greca, Ionio, figlio di Durazzo, nipote a sua volta di Epidamno figlio di Poseidone, dio del mare e dei terremoti. Ma l’attuale denominazione risale al IV secolo a.C. e designava il tratto di mare che separava l’Illiria (Albania) dall’Italia. Significherebbe “Mare Nostro” da “Joni” che significa “Nostro”. ll mar Ionio è il bacino più profondo del Mediterraneo. Raggiunge in più punti la profondità di 4000 m e tocca i 5 270 m nell’abisso Calipso, a sud ovest del Peloponneso. Rappresenta il prolungamento terrestre della Fossa Bradanica, alla quale era collegato all’Adriatico fino all’isola del Gargano, delimitato ad est dalle Murge Pugliesi ed a ovest dalla catena degli Appennini.

La Tabula Peutingeriana da Regio a Tarento

Con la fine dell’Impero Romano e le incursioni barbariche, in Italia iniziava nel IV sec. d.C. la lunga decadenza. La regione dello Jonio venne investita da una crisi politica, religiosa e militare. Già con le guerre romane contro Annibale, quelle di Pirro e contro Taranto, per la Magna Grecia era iniziata una lunga fase di spopolamento, dopo secoli di floridezza ed espansione commerciale. Questi territori, dal XVI secolo in poi, vennero abbandonati a causa della pirateria costiera e per la malaria, derivante dall’impaludamento dovuto ad un cambiamento climatico che causò una maggiore piovosità. La Tabula Peutingeriana, redatta nel XIII secolo su precedenti documenti di epoca tardo imperiale, indicava il Brittius partendo da “Tarento” fino a “Regio”con la denominazione lungo l’itinerario di “Toriostu (Torremare, per alcuni autori identificabile con Metaponto e per altri ancora ubicata nei pressi della contrada Marinella nel Comune di Ginosa) Heracleum ( per alcuni autori l’attuale Policoro, per altri ancora l’attuale sito del parco archeologico di Metaponto), Semnum (secondo alcuni autori la statio si indentifica con la contrada Trisaia, nel Comune di Rotondella, per altri era ubicata in località San Pietro, nei pressi della sponda destra della foce del Sinni ove era il porto di Siris), Turis, Petelia, Coutona, Lacenium, Annibali, Caulon, Skyle, Leucopetra e Regio nella Bruttia (Cfr Rassegna Top. Regio III v.3, tra Punta Pellaro e Capo dell’Armi – loc.Lazzaro)”.

L’itinerario terrestre della Tabula Peutingeriana attraversava la porzione di territorio compreso tra il cosiddetto “saltus metapontinus”, tra le foci fluviali del Bradano e dell’Agri, sino al territorio della Siritide compreso tra il fiume Agri e il Sinni, inglobato in seguito nel territorio di Taranto e Metaponto che s’impossessarono del fertile territorio dopo la scomparsa di Siris (la popolazione della Siritide fu costretta dai nuovi coloni greci ad insediarsi in montagna o nella nuova città di Herakleia in ruolo subalterno alle nuove elitès politico-militari achee).

Già nel periodo greco, all’itinerario terrestre praticato solo in inverno, identificabile dal Tratturo del Re, si alternava quello marittimo, con una navigazione effettuata con imbarcazioni commerciali a vela, quali l’olkas, un vascello ad un albero provvisto di remi, la cui navigazione si svolgeva sotto costa, verso gli attracchi situati alle foci fluviali. Questo sistema di trasporto, sicuramente più veloce ed efficiente, in uso per alcuni tratti fino al XIX secolo, doveva però segnare il passo durante la stagione fredda, allorquando il mare era agitato o con venti sfavorevoli, preferendo spostarsi via terra. Nel territorio della Siritide il toponimo S.Pietro segnava nel Medioevo la statio romana di “Semnum”, situata 4 miglia prima di Herakleia romana. Ricorda la cappella edificata in onore al santo ed innalzata a protezione dei viaggiatori che giungevano al guado del Sinni (Siris) dove, cioè, il Tratturo Regio ricalcava la strada ionica con il Varco di San Pietro. In località Fosso Carpati è stata rinvenuta una vasta necropoli poco distante da Piano del Forno dove sono stati rinvenuti i Siroi (studiati dall’archeologo Quilici nel 1961 – 1962, in occasione della costruzione del centro nucleare della Trisaia di Rotondella (Cfr Quilici, le colline di Trisaia e i versanti tra Rocca Imperiale e Rotondella. In Carta Archeologia della Valle del Sinni).

I siritidi utilizzavano silos sotterranei, profondi 5-6 metri di forma ad imbuto rovesciato, presenti anche in località Masseria del Concio (Policoro), per lo stoccaggio e il commercio dei cereali verso altre città, in connessione con lo scalo portuale greco ubicato lungo il fiume Sinni, nei pressi della Località “La Torre”, che fungeva da attracco per piccole imbarcazioni che portavano il carico alle navi ancorate alla fonda della foce. E’ interessante notare come l’ipotesi di ubicazione del porto di Siris situata verso l’interno, lungo l’attuale corso del Sinni (Siris) un tempo era sicuramente collocata alla sua foce (uno studio storico batimetrico mostra l’avanzamento nei secoli della linea di costa).

Le tavole bronzee di Eraclea: ambiente, religione e viabilità nel periodo magnogreco-romano

Le tavole di Eraclea, rinvenute nel 1732, sul greto del torrente Salandrella-Cavone presso Pisticci (località Acinapura o Luce – Uscio, nei pressi di Masseria Andriace). SAono state datate al III sec a.C.  L’importante testimonianza è conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Lo storico Rondinelli affermava che le tavole furono portate a Napoli per essere interpretate dall’archeologo del tempo, il canonico Alessio Simmaco Mazzocchi, amico di Nicola Maria Troyli  e riferisce come “un frammento della prima lamina, rinvenuto da qualche tempo e da persona ignota, era stato venduto per avidità dall’antiquario Francesco De Ficoroni e da questi vendute ad un certo Lord Brian Fairfax alla cui morte nel 1749, acquistate da Philip Carteret Webb e poi restituite a Napoli nel 1752“.
Sulle tavole di Eraclea, in età cesariana, fu inciso il testo in latino (Corpus Inscriptionum Latinarum, numeri C.I.L.,I), 593 (I.L.S., 6085) della lex Iulia Municipalis promulgata da Gaio Giulio Cesare nel 45 a.C. Essa riguarda la riorganizzazione amministrativa delle città con norme di carattere sociale. Per evitare le usurpazioni dei territori agricoli stabiliva canoni di fitto in base all’utilizzo del suolo. Con essa molte città e colonie assunsero il rango di municipio. Fornivano un quadro delle strutture economiche politico sociali, e persino dell’ambiente ecologico del territorio di Eraclea, fornendo le misurazioni nel terreno. Dal santuario di Athena, caratterizzato da un’area presumibilmente di pianura, indicavano le terre di Dionisio ubicate in una fascia collinare coltivata, comprendente ambienti diversi, quali il bosco di querce, la macchia, il pascolo, intervallati alla olivo-viticoltura.
Ai terreni indicati con i termini schiros (macchia mediterranea), arrectos (incolto), drumos (bosco di clima caldo con associazione floristica alle specie quercine, si contrapponeva lo psilos (terra nuda o seminativo – arativo) ed erregheia (terra coltivata). Ci informano che vetavano all’epoca i papiri (bublìa) nelle zone umide, lungo le aree paludose dell’Agri (Akiris). In passato la speci era endemica (cfr Stabone), forse sfruttata per la produzione della carta (in Sicilia si hanno testimonianze dell’uso produttivo della pianta). Il culto di di Eracle non si riferisce solo alla pastorizia praticata lungo le vie tra le marine Joniche e le Polis con il Monte Pollino e il territorio collinare circostante, ma anche all’eroe delle acque torrentizie simboleggiate da Acheloo. Ercole nelle fatiche sconfigge il toro (violenza delle alluvioni) e il serpente (i meandri dei corsi d’acqua). L’oggetto della contesa tra Eracle ed Acheloo era la bella Dejanira, cioè la terra fertile. “Ecco quindi che la fondazione di città dedicate ad Eracle, l’emissione di monete con i simboli di Acheloo e della cornucopia: il corno strappatogli da Eracle, traboccante di messi, documentano l’opera di bonifica e la sua fecondità produttiva”. (G. Forni, La produttività agraria della Magna Grecia desunta dalle Tavole di Eraclea di Lucania – IV sec. a.C.). Le tavole di Eraclea, oltre a proibire di modificare fossati e canali, faceva obbligo agli affittuari delle terre sacre, indicando il periodo di affitto, di garantire che non venissero fatti danni alle strade o modifiche al loro tracciato; che si consentisse il transito a tutti, evitando di abbattere alberi se non per la costruzione delle abitazioni. Per il fuoco bisognava utilizzare solo legna secca prelevata dal suolo.

La cartografia

Il tracciato del Tratturo del Re è mirabilmente illustrato dal cartografo Antonio Rizzi Zannoni (Atlante Geografico del Regno di Napoli). Attraverso i simboli navali il cartografo del regno di Napoli illustrava anche il tipo di imbarcazione da utilizzare rispetto alle linee di fonda, definendo la tipologia nella navigazione commerciale prevalente (di altura o di costa). La strada di fine Settecento rappresentata da Rizzi Zannoni, mostra la strada Calabria – Puglie e il Tratturo del Re catastalmente denominato nei quadri di unione catastali risalenti agli anni del secondo dopoguerra nei comuni di Policoro, Scanzano Jonico, Pisticci e Bernalda e tracciato nelle mappe 21 e 25 dell’Atlante riferite alla Terra d’Otranto e Calabria Citra. I dettagli e la precisione della carta costituiscono una fonte importante di notizie toponomastiche. Il nostro studio intende stimolare una ricerca più approfondita che possa inquadrare la dimensione storica e archeologica nell’ambito delle reti stradali esistenti nei vari periodi storici.

Ricostruzione del tracciato del Tratturo del Re

“…la via che Annibale fece da Metaponto, per andare nel Bruzio, ossia nella moderna Calabria, fu lungo la spiaggia del Mar Jonio, per ove esistere doveva essere una strada, che accavalcava i nostri fiumi il Basento, la Salandrella, l’Agri, il Sinni ed il Crati; vale a dire una via che approsimativamente batteva il corso dell’attuale strada ferrata, che da Metaponto va a Crotone ed indi a Reggio; e chi sa se il tratturo così detto regio che va dalla Puglia in Calabria non ne sia un avanzo?”.
Era questo l’interrogativo che Michele Lacava, (Corleto Perticara, 17 agosto 1840 – Torre del Greco, 27 luglio 1896) chirurgo, archeologo e patriota italiano, nel testo “Topografia e Storia di Metaponto, edizioni Morano, Napoli, 1891” si poneva nel ricostruire le vicende della Magna Grecia e della colonia achea di Metaponto. Interrogativi non di poco conto, oggetto di indagini archeologiche riassunte nel testo ”Via di Magna Grecia, Atti del Convegno di Studi, Taranto 14-18 ottobre 1962, Arte Tipografica, Napoli, 1963” nel quale tuttavia le conoscenze sulla rete viaria, salvo pochi riferimenti, rimasero confinati nelle citazioni documentarie, tra le quali quella del viaggio compiuto da Cicerone da Taranto a Metaponto, ipotizzandosi che l’itinerario Antonini potesse far riferimento al traffico marittimo, preferito a quello terrestre dai romani. Per Taranto tra il Settecento e Ottocento si preferiva la via marittima, approfittando di barche commerciali che facevano scalo a Metaponto, accorciando così il viaggio nel tratto terrestre compreso tra Torre di Mare e Metaponto.
L’esistenza di strade terrestri è comunque comprovata da ipotesi e da alcune fonti documentarie solo a partire dal X secolo, allorquando si citano i collegamenti delle transumanze dalla Valle dell’Agri verso la marina di Policoro, passando per Anglona, o dalla Valle del Sinni verso lo Jonio, lungo un itinerario istmico che collegava tra loro i possedimenti dell’Abbazia cistercense del Sagittario di Chiaromonte da Rotunda Maris (Rotondella) a Policoro e da quest’ultima località, verso sud, verso i possedimenti cistercensi di Rocca Imperiale, Nocara, Oriolo fino a Roseto. Interessi fiorenti sul Mar Jonio fino al XV secolo con collegamenti orizzontali lungo tutto l’arco jonico calabro-lucano.

Il Tratturo del Re nel territorio di Nova Siri (Bollita)

Il Tratturo del Re nel Territorio del Comune Nova Siri, anticamente denominato “Bollita” (MT) è denominato “Regio Tratturo Calabria Puglie”. Le particelle interessate nel territorio comunale sono catastalmente contrassegnate dai numeri 49, 50, 45,48,47,46. Attraversava, da sud verso est il Torrente San Nicola, il Torrente Toccaculo (attualmente denominato Toccacielo)  A presidiare l’antico itinerario verso il mare e lo snodo verso il tirreno, venne costruita Torre Bollita, una costruzione cilindrica eretta nel 1520 per volere del vicerè di Napoli De Toledo a salvaguardia delle invasioni di pirati turchi. Era una torre “cavallara“, cioè che ospitava guardie regie a cavallo. Torre Bollita, detta anche Torre di Ferro per lo spessore dei suoi muri e per le difese (è oggi sede dell’antica azienda  agricola Battifarano). In questa località era presente una taverna ( lo attesterebbe un toponimo), forse anticamente costituente la stazione di posta Semnum indicata nella Tabula Peutingeriana. Poco distante era ubicata la fattoria romana di Ciglio o Cugno dei Vagni. L’insediamento tardoromano è stato indagato all’inizio dell’Ottocento da Michele Lacava e Pietro Battifarano, che lo identificarono come impianto termale, appartenente ad una grande villa di età imperiale che si sarebbe sviluppata in gran parte sulla sommità del pianoro. Indagini della Soprintendenza Archeologica della Basilicata con il ritrovamento di una estesa necropoli (I-II sec. d.C.) fanno ritenere che si tratti di un villaggio (pagus). Il complesso termale corrisponde pertanto a un edificio pubblico, isolato e ubicato alla periferia dell’abitato, funzionalmente collegato all’approdo della vicina foce del fiume Sinni e alla grande viabilità pubblica.

L’impianto termale era fornito di acqua da una sorgente. L’edificio risale al periodo imperiale (I-III sec. d.C.) ed era dotato di pavimenti a mosaico, rivestimenti parietali in marmo e cornici in stucco. Poco distante sono ubicate le Vasche di Sant’Alessio, di origine romana, che si trovano nell’omonima contrada, frazione di Nova Siri. Erano alimentate da un sistema di sifoni. L’acqua della vasca centrale, veniva considerata dagli abitanti curativa.
Dall’attuale Nova Siri aveva inizio il territorio della “Siritide”. In una località denominata Acinapura, in provincia di Matera (località con questo stesso nome sono presenti nel territorio di Nova Siri e anche Policoro e Pisticci). In questo territorio era presente il sistema di agrimensura greco. Con i termini ἔφορος Ἀρίσταρχος … καὶ τοὶ ὀρισταί …ἐν κατακλήτωι ἀλίαι si menziona l’eforato, una magistratura dorica, e gli oristài, ovvero esecutori della messa  a coltura attraverso l’apposizione di cippi (òroi). Tale compito era teso a ristabilire i confini violati assegnando le terre ai coloni. I nomi degli oristài nella Tavola di Eraclea sono preceduti ciascuno da una sigla (del tipo ϝε + nome). La decisione di effettuare la divisione in lotti  dei terreni sacri a Dioniso e Atena era scaturita forse dall’assemblea popolare, chiamata alìa (corrispondente al terrmine dorico ekklesia). L’area sacra di Dioniso al tempo della divisione era piena di sterpaglia, arbusti con la presenza dei papiri (βυβλία). Le tavole di Heraclea riportano l’unica importante menzione di un papireto autoctono-spontaneo che probasbilmente venne estirpato per effettuare la bonifica dell’area. Il terreno di Dioniso veniva dato in enfiteusi (affitto a tempo indeterminato) a soggetti ritenuti degni chiamati ad obblighi volti a migliorare la qualità del luogo. I terreni sacri ad Atena erano già dissodati con vigneti e oliveti e veniva invece fittato per periodi di cinque anni.
Il Tratturo del Re conserva la denominazione “Regio Tratturo Calabria Puglie” nella cartografia Rizzi Zannoni del 1806 la quale mostra lungo il corso del Torrente Rucolo (attuale Torrente denominato Toccacielo) la Torre di Bollita e, poco distante, la Masseria dell’Ospedale (nelle carte IGM è segnato nello stesso luogo il toponimo Taverna).

Quadro di unione catastale – Nova Siri. Il Tratturo del Re è denominato “Regio Tratturo Calabria Puglia” (elab. da GeoPortale RSDI Regione Basilicata)

Il Tratturo del Re nel territorio di Rotondella (Rotunda Maris)

Il Tratturo del Re conserva la denominazione “Regio Tratturo Calabria Puglie” anche nel territorio comunale di Rotondella, attraversando la particella 62 il fiume Sinni in prossimità del Bosco Rivolta e Magazzini Federici (il toponimo Magazeno  assieme a Torre del Sinno sono riportati anche nella mappa Rizzi Zannoni). Lungo il torrente Ruggero, a nord della linea delle FF.SS. Reggio Calabria- Taranto, il tratturo intersecava l’ex strada nazionale per Sapri sulla costa Tirrenica istituita nel 1923 su un antico collegamento istmico tra i mari Jonio e Tirreno, attraversando il Massiccio del Sirino dal quale scaturiscono le sorgenti del Sinni – Siris lungo il quale si insediarono popolazioni Enotre. Nel 1928, in seguito all’istituzione dell’Azienda Autonoma Statale Strade (AASS) e alla contemporanea ridefinizione della rete stradale nazionale, la strada per Sapri fu chiamata “Strada Statale 104”. Dalla frazione di Rivello “Medichetta”, la strada continuava fino a Rivello proseguendo per Lauria per poi seguire lungo la valle del Sinni attraversando i comuni di Latronico, Episcopia, Fardella, Chiaromonte, Senise, Noepoli, San Giorgio Lucano, Valsinni, Rotondella fino ad innestarsi sulla SS 106 Taranto Reggio Calabria. Federico II, nel 1231 riconobbe alla Diocesi di Anglona i possedimenti di “Rotunda Maris” e Trisaia. La presenza dei toponimi San Pietro (varco di San Pietro) sul Sinni e S.Maria delle Lauree, attestano la presenza basiliana nel territorio. Nel 1269 Rotunda Maris ed Intrisagia (Trisaia) furono concessi a Riccardo di Chiaromonte, assieme al Bosco di Policoro, un tempo molto esteso lungo il corso del fiume Sinni (Siris), Bosco Rivolta, oggi non più esistente, (il toponimo Rivolta riporta alla natura delle sponde del fiume dalla ripa-alta)  alla cui foce erano presenti magazzini per l’ammasso del grano imbarcato presso il porto di Siris. Nel XV secolo, Rotunda Maris era posseduta dalla famiglia Del Balzo-Orsini, ceduta ai Sanseverino nel 1463 dal Re Ferdinando I d’Aragona.  Dal XVI secolo i terreni della Trisaia erano di proprietà della famiglia genovese Doria, che amministrava il passo della transumanza verso i pascoli dei bovini e giumente, esigendo i dazii per l’imbarco dei grani presso il caricaturo del Sinni, che la famiglia Donnaperna dopo il 1731, prese in affitto dai duchi di Tursi. Nel 1855 i beni furono venduti, assieme a quelli in Rotondella, al barone Federici di Montalbano.  I Doria introdussero la coltivazione della “bambagia” (cotone) incrementando la popolazione del Casale S.Laura e Trisaia. il toponimo “Torre del Sinno” (rappresentata sulla cartografia Rizzi Zannoni) mostra  un sistema costiero realizzato nel XVI secolo lungo la costa, in difesa delle popolazioni dalle incursioni piratesche. L’area attraversata dal Tratturo del Re ha subito profonde trasformazioni antropiche, con la messa a coltura di grandi estensioni di terreno, un tempo ricoperte da boschi. Nella parte del fiume Sinni compresa tra l’attuale S.S. 107 Jonica e la ferrovia, si ritiene fosse stato realizzato il porto di Siris, ove erano presenti vari villaggi abitati in capanna, secondo l’uso dei Choni ed primi popoli  di stirpe Troiana. Sulle mappe catastali viene indicata la presenza del mulino Granata e, poco distante, lungo il Fosso della Torre, l’archeologo Quilici (Cfr Quilici, Op cit) riteneva fosse ubicato uno degli insediamenti che si ritiene potesse proseguire anche in località Fosso Carpati. Il Tratturo del Re in questo tratto ricalcalcherebbe la strada preistorica. In località S.Pietro è stata rinvenuta una necropoli, in uso sino al periodo romano (III sec. d.C.). In località Piano del Forno, furono realizzati i siroi di cui si è già detto, utilizzati per la conservazione e lo stoccaggio dei cereali.

Quadro di unione catastale comune di Rotondella. Regio Tratturo Calabria Puglie (elab. da GeoPortale RSDI Regione Basilicata)

 Il Tratturo del Re nel territorio di Policoro

Nel comune di Policoro il “Regio Tratturo Calabria Puglie assume la denominazione di “Tratturo del Re” . Dopo il guado del fiume Sinni (Siris) forse  limitrofo ai villaggi omonimi appartenuti a Choni e popoli di stirpe troiana, attraversava a nord il bosco di Policoro (Bosco Pantano Soprano), nell’Ottocento ancora di notevole estensione, distrutto completamente per scopi industriali negli anni 60 (leggi scheda dei viaggiatori) e la Masseria del Concio della liquirizia, con la località Casino del Guardacaccia. Il Tratturo del Re attraversava l’attuale centro abitato di Policoro (nello stradario attuale il Tratturo del Re assume la denominazione di “Via Puglie”). Dopo l’attuale sede del Municipio, il Tratturo del Re raggiungeva la zona dei “Casoni” (impropriamente denominati casalini) dove incrociava il Tratturo per Tursi (attuale Via Cristoforo Colombo). In prossimità del Castello Baronale, posseduto sino al XX secolo dal Barone Berlingieri, dopo  aver superato la zona dei “casalini” (attuale Via Cesare Battisti) e il casone- magazzini (attuale via degli Artigiani) si dirigeva verso il fiume Agri, ove era presente la “scafa“, una zattera che serviva fino al XIX secolo a traghettare i viaggiatori e le mercanzie, collegandosi a valle con il caricaturo a mare (attracco per le imbarcazioni). Non più esisistenti i casoni esistenti fino agli anni 50 lungo l’attuale via Fratelli Bandiera (visibili in un immagine aerea del periodo della Riforma – vedi in basso). Il nome “Policoro” deriva dal greco antico Polychoron (Πολύχωρον). Sorge a poca distanza dalle rovine dell’antica città di Eraclea, importante centro della Magna Grecia sorto nel VI secolo a.C., dove nel 280 a.C. i Romani combatterono contro Pirro e la lega Tarantina, perdendo la battaglia. Heraclea faceva parte della regione della Siritide, e sorse in prossimità di Siris, dopo la deduzione ad opera di Taranto, Metaponto e Thurii. Dal Medioevo si sviluppò un piccolo centro urbano nelle vicinanze del Castello Baronale, passaggio obbligato verso le valli del medio Sinni- Agri- Basento.

Già possedimento di Federico II e in seguito di Angioini ed Aragonesi, dal 1300 al 1600, il feudo di Policoro,assieme al castello, in piena decadenza divenne proprietà della famiglia Sanseverino, con passaggi tra i vari discendenti. Un principe di quella famiglia, nel 1600, per ottenere la guarigione di un figlio da una grave malattia, donò il feudo ai Gesuiti, che lo tennero per lungo tempo, trasformando il castello in monastero. Il 21 novembre 1772 i Gesuiti furono espulsi dal Regno delle due Sicilie. Tutti i loro beni, compreso il feudo “disabitato” di Policoro, furono incamerati dal Regio Fisco e venduti all’asta. Acquistato dalla nobildonna Maria Grimaldi, principessa di Gerace, alla fine di aprile del 1799, nei giorni 29 e 30, nell’ex monastero di Policoro, trasformato in masseria, soggiornò il cardinale Ruffo, ospite della principessa di Gerace, che intraprese la repressione della rivolta contro il governo borbonico; nel maggio del 1806 pernottò nel castello il re Giuseppe Bonaparte durante il suo viaggio da Reggio Calabria a Napoli ospite del principe di Gerace, proprietario del feudo per essere acquistato da Berlingieri di Crotone, assieme al feudo nel 1893. Dopo la Riforma Fondiaria, i beni del barone Berlingieri furono esproriati e dati in fitto all’ex conduttore del fondo , l’impresa Padula di Moliterno, e successivamente messi all’asta.

Il castello divenne proprietà di autotrasportatori ed imprenditori edili locali, ingranditisi tramite commesse dello Stato, e da questi ceduto a privati e/o sd immobiliari i quali hanno provveduto a dividere in lotti la proprietà in appartamenti venduti o affittati al suo interno per finalità private. L’intero villaggio del latifondo di Policoro, con il castello, la chiesa, i casoni per gli stagionali e i casalini per i braccianti, le stalle, le fontane i magazzini meriterebbero una salvaguardia per il loro valore storico-monumentale, a prescindere dalle proprietà, con il rischio che testimonianze storico rurali del territorio vengano cancellate.

Nel 1959, Policoro cessò di essere frazione di Montalbano Jonico e divenne comune autonomo. A partire dagli anni ’60 vi è stato un notevole incremento demografico, grazie alla popolazione proveniente dall’entroterra lucano stabilitasi nel comune, che ha portato Policoro ad essere il terzo centro della regione per numero di abitanti, oltre che uno dei più importanti a livello economico essendo posto al centro della piana del Metapontino (vedi scheda descrittiva del borgo del latifondo).

Quadro di unione catastale. Tratturo del Re nel territorio comunale di Policoro (elab. da GeoPortale RSDI Regione Basilicata)

 Il Tratturo del Re nel territorio di Scanzano Jonico

Il Tratturo del Re, dopo aver attraversato con la “scafa” del fiume Agri, incrociava la Via per Montalbano Jonico, di cui era casale ubicato sulla costa jonica, divenuto comune autonomo nel 1974. In località Scanzano attraversava il borgo agricolo al centro della tenuta del barone Giuseppe Federici con  i “casalini”, il “palazzaccio” del barone e i magazzini (il Tratturo del Re attraversava le attuali vie Monviso e Pietro Nenni). Dopo il Mille, Scanzano e Policoro, costituivano un unico grande latifondo agricolo e per la transumanza mare-valli fluviali – monti. In un atto del 1095, il duca Ruggiero di Pomereda e sua moglie Alberada, donarono la chiesa di Santa Maria Genitrice di Scanzano all’abate Giovanni nell’Abbazia Santa Maria del Casale di Pisticci. Nel 1100-1104, Scanzano divenne proprietà della badia di S. Elia di Carbone donata nel 1125 da Boemondo, figlio di Roberto il Guiscardo. Nel 1132 la donazione fu riconfermata da re Ruggiero e nel 1154 da re Guglielmo e nel 1191 da re Tancredi, ed infine, nel 1232, da Federico II di Svevia. Esistevano vaste tenute agricole amministrate dagli ordini religiosi  a Casale Andriace e Casale Sancti Nicolai de Sylva (Recoleta), con diritti di passo da parte dei monaci alla scafa sul fiume Agri. Successivamente il territorio di Scanzano fu occupato con la forza dal principe Ruggero Sanseverino che usurpò il feudo all’Abbazia di Carbone; morto il principe, nel 1430, la regina Giovanna di Napoli, investì il figlio Antonio, del possesso del feudo di Policoro e Scanzano. A questi seguì Luca Sanseverino, che in seguito alla morte di suo padre vendette il feudo e per concessione del re Ferdinando d’Aragona, passò a Roberto Sanseverino nel 1473. Il casale Ischinzana (il termine deriva da Isca – isola, luogo situato nei pressi di acque popolato da giuncheti), nel periodo aragonese, passò al dominio Pedro Álvarez de Toledo y Colonna, grande di Spagna, generale della flotta delle galee a Napoli, che annoverava tra i suoi numerosi titoli nobiliari anche quello principe di Montalbano e duca di Ferrandina con possedimenti tenuti intorno al “Palazzaccio”, ubicato lungo il Tratturo del Re . Il Palazzo e le abitazioni dei coloni erano sede della masseria a pianta quadrata con torre merlata con all’interno una cappella che appare in un atto di Ruggero di Pomareda del 1095 e di sua moglie Alberada, che reca la donazione della chiesa S.Maria di Scanzano a Giovanni, abate di S.Maria del Casale di Pisticci, confermata nel 1104 da un diploma del Duca Ruggiero e da Riccardo Siniscalco nel 1113 (gli immobili privati sono vincolati con D.M. 27/10/1980). Nelle vicinanze, verso il mare, erano ubicati i magazzini con caricaturo a mare verso il porto di Taranto e la Torre Scanzana, costruita nel periodo aragonese, mentre un’altra torre cilindrica era presente in località “Terzo Madonna” a guardia della costa jonica, realizzate con due ordinanze emesse da Pietro di Toledo (1532) e Pedro Afan De Ribera (1563) per difendere il regno aragonese d’Italia da incursioni saracene e piratesche con le pressioni Turche che riguardavano l’intero Mediterraneo. A “Recoleta” è presente una masseria fortificata risalente al XVII-XVIII sec., caratterizzata da un ampio portale, da una torre quadrata e da due torri situate agli angoli della facciata divenuta possedimento della ricca famiglia Federici, signori di Abriola e Montalbano Jonico. Nel territorio di Scanzano i siti archeologici di Termitito e Bosco Andriace rappresentano antichi insediamenti che testimoniano scambi commerciali con Micene, occupato in seguito da coloni greci di Metaponto e della distrutta Siris. In località Andriace, nel Medioevo, sorse il Casal San Pietro, aggregato agricolo citato in un documento di Roberto, Conte di Montescaglioso del 1070. Con i Romani, i Longobardi ed i Saraceni, Scanzano, come gli altri centri della costa ionica, subirono un lungo degrado a causa delle invasioni piratesche e la malaria.

Nel 1741 il feudo di Scanzano passò a Mattia Alessandro Mirabile d’Aragona, che era succeduto al padre Cesare Francesco. In seguito, fu venduta al marchese Donnaperna di Colobraro che la tenne per molti anni fino al 1809, allorquando, a seguito dell’eversione della feudalità il comune di Montalbano Jonico pretese gli usi civici, mentre una parte del feudo venne venduto nel 1816 al barone Gennaro Ferrara, favorito dal governo borbonico, fino all’epoca degli espropri della Riforma Fondiaria (vedi scheda “dal Latifondo alla Riforma Fondiaria”). Dopo aver attraversato l’attuale centro abitato di Scanzano Jonico, il Tratturo del Re proseguiva sulla  strada vecchia per Pisticci  fino al guado del Torrente Cavone.

Quadro di unione catastale. Tratturo del Re nel territorio comunale di Scanzano Jonico (elab. da GeoPortale RSDI Regione Basilicata)

Il Tratturo del Re nel territorio di Pisticci

Il Tratturo del Re, dopo aver attraversato il fiume Cavone (Akalàndros, Ακαλάνδρος) che sfocia nel Mar Jonio, intersecava le vie per Torretta San Basilio e la Via della Marina che, dalla Grancia San Basilio, lungo il Cavone e il fosso Salandrella raggiungevano il Mar Jonio. Nei pressi del guado del Basento, intersecava la Via per la località S.Teodoro. Lungo il tratturo, oltre all’attività agricola prevalente nel periodo Magno-Greco, era praticata la transumanza verso le marine dalle valli fluviali situate nell’interno della regione. In agro Torretta era attiva una fornace in una cavità artificiale e venne ritrovata una sepoltura femminile nota come la tomba “dell’uovo di Elena”, testimonianza della presenza di una elitès dove il mito omerico riconduceva a Leda, sedotta da Zeus che, trasformata in cigno che genera l’uovo da cui ebbero origine i divini Elena, Castore e Polluce. La tradizione ceramica greca seppe trasferirsi nelle opere del “pittore di Pisticci ” che riprodusse mirabilmente la tradizione attica su vasi finemente decorati, oggi purtroppo presso collezioni del British Museum, Louvre, Boston, Metropolitan Museum, Napoli e Musei vaticani. La toponomastica del territorio di Pisticci testimonia la presenza basiliana. Dal Tratturo del Re attraverso, le località San Basilio e Incoronata e Andriace e Recoleta (località queste ultime oggi nel territorio di Scanzano Jonico) i popoli di origine Eubea (isola del mar Egeo dalla quale provenivano) colonizzarono, dopo l’arrivo di coloni achei a Metaponto e la distruzione di Siris, le valli del Cavone e del Basento, aprendo il varco che dallo Jonio giungeva al Mar Tirreno (Poseidonia) attraverso l’itinerario del Tratturo degli Stranieri. L’area di San Teodoro – località Incoronata – situata sulla riva destra del fiume Basento,  risale al IX secolo a.C., allorquando costituiva un emporio della vicina Siris, distrutta dagli achei di Metaponto nel 640 a.C.. Nell’area ha condotto le ricerche negli anni 70 l’archeologo Dinu Ademesteanu, con spedizioni scientifiche dell’Università di Austin (Texas) diretta dal prof. J.C.Carter. L’area dell’Incoronata ha fornito importanti testimonianze sulla ritualità dei popoli ioni insediatisi nel IX sec. a.C. nel territorio costiero e nell’antica Lucania: un Perirrhanterion (bacile lustrale finemente decorato) ha mostrato come questo popolo fosse dedito a riti di purificazione attraverso l’acqua, su modelli analoghi a quelli cretesi.

Da feudo religioso benedettino, di proprietà dell’Abbazia S.Maria del Casale, contesa in passato con i basiliani Monastero di S.Elia di Carbone, San Basilio divenne successivamente di proprietà dei monaci certosini di Padula nel 1451, che vi impiantarono una grancia intorno alla torre quadrata di origine Normanna che sarebbe stata realizzata per volontà di Re Ruggero I di Sicilia. I feudi religiosi dello Jonio divennero successivamente feudi nobiliari: dai Ferrante di Ruffano passarono in parte al Comune di Pisticci, e alla alla famiglia nobiliare dei Berlingieri, oggi proprietari della masseria fortificata di San Basilio (vincolata con D.M.14/4/1989) e dell’annesso borgo agricolo “Il Filago” con i “casalini” (sul quale non esiste un vincolo monumentale), la masseria e annessi agricoli (in parte ancora in stato di degrado), divenuti sale ricevimento e case vacanze (ex casalini). Sulla destinazione dei beni di valore storico – architettonico è mancata (e manca tutt’ora) l’attenzione degli enti pubblici e delle comunità, tali da scongiurare manomissioni sull’assetto originario, a prescondere dalla loro proprietà. Nel 1565, in località Scannaturchi, poco distante dal Tratturo del Re, si combatté una battaglia tra pirati e popolazione (leggasi la scheda sulle torri costiere dello Jonio).

Quadro di unione catastale. Il Tratturo del Re nel territorio di Pisticci (elab. da GeoPortale RSDI Regione Basilicata)

Foglio di mappa dal q.u.c.. Masseria fortificata San Basilio e Tratturo del Re (indicato in basso). Elab. da GeoPortale RSDI Regione Basilicata.

Il Tratturo del Re nel territorio di Bernalda

Dopo il guado del fiume Basento attraverso “scafa” (zattera tirata dalle due rive con funi), il Tratturo del Re proseguiva in direzione Torre di Mare, forse in origine avamposto della città di Metaponto. Nel periodo normanno Turris Maris (1119) divenne residenza della contessa Emma e di suo figlio Ruggiero Maccabeo, signori di Montescaglioso, che l’elessero loro residenza e per amministrare i vasti territori situati tra il Basento e il Bradano, tra l’ex “saltus” greco-romano, donando al monastero di San Michele Arcangelo di Montescaglioso “dimidiam placzam et dimidium portaticum et medietatem legum civitatis Sancte Trinitatis. Medietatem etiam portus Basenti et Bradani fluminis, et dimidiam partem de terratico terrarum adiacentis inter Bradanum, Basentum et Salandram” (metà piazza e metà portico e metà delle leggi dello stato della Santissima Trinità. Metà del porto del Basento e del fiume Bradano, e metà del territorio confinante tra Bradano, Basento e Salandrella…”.

Il duca Guglielmo assieme a Costanza e Tancredi assediò il castellum Sancte Trinitatis nella domenica delle palme nel mese di aprile 1121. Federico II confermò nel 1222 i privilegi agli abitanti di Montescaglioso, e tra questi il possesso del casale Sancte Trinitatis raggiungibile da Gravina attraverso strade e passi amministrati dai giudici Ruggero e Leone. Venne denominato nuovamente Turris Maris solo nel 1459 allorquando divenne proprietà di Giovanni Antonio Orsini Del Balzo, principe di Taranto, mentre nel 1497 Re Federico ne rivendicò il possesso. Scomparso il porto di Metaponto, interratosi a causa di grandi apporti alluvionali, il casale venne abbandonato a causa della malaria.

Immagini di Turris Maris nelle varie epoche si trovano riprodotte nel salone della Curia Vescovile di Matera risalente agli inizi del XVIII secolo che mostra la possente torre centrale, circondata da una cinta di mura merlate intervallate da torri, con il mare sullo sfondo, mentre due immagini sono state realizzate dal disegnatore Frédéric Joseph Debacq nell’opera “Metaponte” pubblicata dal Duca De Luynes, archeologo e uomo di cultura. Furono a Metaponto nel 1825 e nel 1828. La prima stampa mostra profonde trasformazioni nell’originaria struttura fortificata normanna con l’aggiunta di caseggiati (la tipologia della struttura è quella tipica dei casalini, già presenti all’epoca) e di una taverna, con il Tratturo del Re in primo piano, mentre una carta illustra, con dovizia di particolari, lo snodo viario di Torre di Mare, con la rete dei tratturi verso Miglionico, Matera, Bernalda e Montescaglioso.

Il Tratturo del Re attraversava l’area archeologica di Metaponto con le più importanti vestigia, il Lago S. Pelagine ormai ridotto a palude, e più distanti le cosiddette Tavole Paladine (tempio di Hera). Interessante è notare come questa cartografia mostra il Tratturo del Re con un tracciato differente rispetto all’itinerario riportato dal più recente quadro di unione catastale, risultato dello spostamento alla foce dell’alveo del Bradano intervenuto dopo il 1828.

L’archeologo Michele Lacava, nel descrivere le vie di comunicazione nella sua opera su Metaponto, ne traccia la topografia, descriveva il tratturo del Re “…a breve distanza dalla stazione, s’incontra col Tratturo di Torre di mare, (ndr Tratturo del Re). Dopo un tratto comune, o propriamente alla distanza di 850 metri dalla stazione, questo tratturo si distacca quasi perpendicolarmente dalla via delle colonne Paladine, ed in direzione d’oriente va fino al Bradano. E’ lunga circa tre chilometri, traversa interamente l’area della città (cfr Metapontum) , passando per l’agorà e per l’antico teatro; esce dalla città nel punto che accavalca la merasciola delle Fornaci, e raggiunge il Bradano presso l’attuale ponte della ferrata. Lungo il suo corso non si ritrovano tombe, ma in diversi luoghi chiaramente si scorgono tufi di fondazioni di case e rottami in terra cotta”.

Metaponto (Μεταπόντιον, Metapóntion; in latino: Metapontum) fu fondata intorno alla seconda metà del VII secolo a.C. tra le foci dei fiumi Bradano e Basento, da gruppi achei che occuparono anche l’insediamento di Incoronata di Pisticci disperdendo le più antiche popolazioni Ioniche. L’area sacra della città è delimiata da strade ortogonali chiuse ad est dall’agorà. I due maggiori templi (Heraion ed Apollonion) vennero realizzati in stile dorico intorno alla metà del VI secolo assieme al tempio di Hera e il sacello dedicato ad Atena. Nel sito sono stati rinvenuti altri edifici pubblici quali il teatro, il castro romano, l’agorà cittadina, la necropoli, i templi di Apollo Licio, Demetra, Afrodite, Hera e le Tavole Palatine, quest’ultimo, dedicato ad Hera, delimitava i confini dell’antica polis con la chora che proseguiva tra i due fiumi Basento e Bradano. Ad est della polis si sviluppava il muro di protezione dell’area sacra che separava l’agorà, dove è situato il teatro. Nel VII secolo, questa zona era occupata da un ekklesiastèrion (resti visibili), costituito da un terrapieno senza gradini e trasformato almeno per due volte nel corso del V secolo.

La forma definitiva messa in luce dagli scavi sarà acquisita solo nella seconda metà del IV secolo. Alle spalle di quest’area si ergeva un altare della fine del VI secolo recante l’iscrizione “Diòs Agorà” dedicato a Zeus. A sud, invece, era forse e un recinto destinato alla predizione e alla religiosità misterica che sarebbe stato visitato anche dal poeta-sciamano Aristea di Proconneso, taumaturgo e visionario, che ivi sarebbe apparso ai cittadini di Metaponto dopo la sua morte per invitarli a costruire il tempio dedicato ad Apollo. La città ospitò Pitagora dopo la sua fuga da Crotone. Giunto in nave in città, venne accolto con grandi onori dagli esponenti della scuola ubicata presso la casa delle muse del tempio extraurbano di Hera.

Lungo il tratturo Torre Mare – Bernalda è situata la Masseria Sant’Angelo realizzata su una precedente fattoria ellenistica. Faceva parte del Feudo omonimo citato come Masseria S. Michele Arcangelo d’Avena (o feudo San Angelo di Bernalda) e Casale. Già degli ordini religiosi Benedettini e Certosini, faceva parte dell’Abbazia benedettina di S. Michele Arcangelo in Montescaglioso. Rodolfo Macabeo ed Emma D’Altavilla donarono nel 1451 il Feudo di S.Angelo di Bernalda all’Abbazia Santa Maria Vergine del Casa di Pisticci e Papa Nicolò V l’affidò alla Certosa della Padula. La masseria fortificata si articola intorno alla chiesa al cui interno un affresco di S.Michele Arcangelo, un cortile con gli appartamenti del massaro (piano superiore) e dei braccianti (al piano inferiore) un tempo abitato dai monaci che presenta volte a crociera, con stalle ed i magazzini per le derrate alimentari ai livelli inferiori.

Interessante è tra Metaponto e Bernalda la ricostruzione della polis – chora agricola metapontina con i koinè – chora, ovvero le aree boschive e quelle non coltivate (Avinella, Sant’Angelo, Bufalara) e le aree coltivate idìa-chora (individuabili nelle località Avinella, Sant’Angelo, Scorzone, Scarciullo, Pizzica, Campagnolo, Saldone, Lago del Lupo). Le aree coltivate dai coloni greci, erano di 210 metri di larghezza, lunghe anche diversi chilometri. Gli studi condotti dal prof. Carter dell’Università Austin del Texas negli anni 70-80 hanno individuato numerose fattorie ellenistiche che producevano cereali, vino, ortaggi e frutti. Carne e latte venivano forniti da popoli indigeni ed Enotri in pacifica convivenza con i greci della costa, almeno fino all’arrivo dei romani. Nella chora i greci realizzarono gli assi stradali recuperando i più antichi tratturi della transumanza verso le marine (erano considerati sacri), realizzando canali di bonifica e di irrigazione sul territorio circostante.

Dalle Tavole di Eraclea  si apprende che: “l’avvio all’insediamento era caratterizzato dalla misurazione e ripartizione del territorio (in greco chora) in lotti (kleroi), per la loro successiva assegnazione mediante sorteggio (infatti kleros letteralmente significa sorte) alle singole unità familiari (in greco oikoi). Ove vigevano le tendenze eunomiche, la lottizzazione era egualitaria (isomoiria) e quindi i lotti erano uguali o corrispondenti (isokleroi). La misurazione era effettuata dai tecnici (geo- metrai o oristai), ma la distribuzione era opera dei magistrati (geonomoi e agronomoi, ad Eraclea chiamati polianomoi), a seconda che si trattasse di lotti per costruire (oikopeda), dell’orto (meros) o di terre coltivabili (arourai), quelle che costituiranno poi i campi (agroi). I magistrati erano accompagnati dagli oristai, incaricati di fissare le pietre terminali… ogni kleroi (lotto) era tra 6-12 ha attuali, a seconda del tipo di coltivazione praticata” (con i i romani il lotto era compreso tra 1,2 – 2 ettari). La ricerca archeologica nel metapontino, invece, ha reperito i resti di 70 fattorie su un territorio di circa 6.500 ha, con una dimensione media degli appezzamenti più piccola di quella di Heraclea, pari a circa 9 ha (Adamesteanu e Vatin, 1975).

Superato il Bradano, era possibile proseguire per Taranto seguendo una doppia direzione: lungo la spiaggia (praticabile solo a piedi e con cavalli o muli) oppure proseguendo lungo il tratturello Bradano-Palagiano (con carrozze e carri). In alternativa da Taranto a Torre Mare e viceversa potevano essere utilizzate imbarcazioni leggere a vela.

A sinistra, particolare del quadro di unione catastale di Bernalda con il tracciato del tratturo. A destra la rete dei tratturi (il Tratturo del Re in rosso). Elaborazioni su basi cartografiche da GeoPortale RSDI Regione Basilicata e cartografia del disegnatore Frédéric Joseph Debacq

Quadro di unione catastale – Bernalda. Particolare dello snodo di Turris Maris con il Tratturo del Re (Elaborazione su basi cartografiche da GeoPortale RSDI Regione Basilicata)

Turris Maris. Rappresentazione pittorica presso la sala del Vescovado di Matera

Riforma fondiaria: trasformazioni, identità del paesaggio e centri abitati della costa Jonica lucana tra il XIX e XXI secolo

Tra le aree maggiormente interessate dalla trasformazione territoriale con effetti sul paesaggio originario c’è la costa jonica compresa tra Taranto e Nova Siri. Sin dall’antichità, la pianura alluvionale tra il mare e le valli fluviali lucane e calabresi è stata interessata da eventi naturali, quali alluvioni ed incendi. Durante il periodo della Magna Grecia si cercò di ridisegnare il territorio della polis-chora operando le prime bonifiche e le divisioni fondiarie tutt’uno con le città, che dovettero però segnare il passo a causa delle ricorrenti piene dei fiumi e conseguenti impaludamenti con l’avanzamento della linea di costa. Questi eventi naturali condizionarono anche gli insediamenti umani.

Ma è solo a partire dal XIX secolo, con la creazione del latifondo, che il paesaggio dello Jonio subì radicali trasformazioni, con la pratica agricola a scapito dei luoghi naturali quali la macchia mediterranea, la duna e il bosco planiziario (il bosco di Policoro, sacro a Dioniso ed Atena, venne quasi completamente distrutto da un incendio e dal taglio dopo la Riforma Fondiaria sino agli anni Sessanta, con altri boschi lungo il corso delle valli fluviali interessati da taglio raso). Nel 1842 l’intendente di Basilicata, Duca della Verdura, per l’entità della spesa non attuò la bonifica dell’area metapontina, mentre il Real Corpo degli ingegneri dei ponti e strade redasse una relazione sulle condizioni paludose e la necessità della bonifica.

Nel 1908, con l’ufficio del Genio Civile diretto dall’ing. Maglietta di Corleto Perticara (successivamente direttore del Consorzio di Bonifica di Metaponto), venne realizzato l’iniziale opera di spianamento della duna sabbiosa lungo il litorale con l’obiettivo di consentire il deflusso dei ristagni d’acqua: iniziò così la distruzione della duna fossile che, invece, assolveva all’importante ruolo di stabilizzazione dei suoli e per l’equilibrio idrico tra le falde dolci e quelle salate marine. Non si comprese che gli stagni retrodunali assolvevano alla funzione di casse di espansione per le acque dolci.

Si intraprese inoltre il completamento delle arginature della sponda destra del fiume Basento e di quella sinistra del fiume Bradano, con lo scopo di evitare gli straripamenti ricorrenti;, si aggravò così la situazione incrementando la velocità e la forza distruttrice delle acque.

Nell’ area di S.Basilio di Pisticci venne realizzata la parziale di bonifica, dalla quale restavano esclusi i territori di Scanzano e Policoro. A Nova Siri Scalo venne arginato il Torrente Toccaculo realizzando briglie soprattutto nei tratti più a monte.

Ma è solo a partire dal secondo dopoguerra che le bonifiche ripresero con intensità a Policoro, dove la malaria continuava a mietere vittime tra i braccianti provenienti stagionalmente dai centri del Pollino e dalla Puglia, realizzando i primi collettori di acque alte situate in prossimità della ferrovia, intercettando le acque risorgive che alimentavano stagni litoranei in prossimità soprattutto della foce del fiume Agri che costituiva il fiume maggiormente ricco di acque. L’opera di trasformazione proseguì con il prosciugamento del Lago Prete e di Orto di Muscio e la costruzione di idrovore nelle zone di Metaponto, Policoro, S. Basilio, Scanzano a Nova Siri.

A causa delle tensioni sociali e l’occupazione delle terre, con il Piano Marshall, gli aiuti americani per la ricostruzione post bellica vennero utilizzati per progettare sbarramenti a monte sui fiumi Agri, Bradano e Sinni per scopi irrigui e potabili, prevedendo la costruzione della diga di San Giuliano sul fiume Bradano e due traverse di adduzione sui fiumi Agri e Sinni, che nel tempo avrebbero causato l’arretramento della linea di costa, per il mancato apporto solido da parte dei fiumi e il conseguente effetto erosivo dovuto alle correnti e al moto ondoso.

Un fenomeno che continua ancora oggi, accelerato dalla realizzazione di porti turistici e trasformazioni alle foci fluviali che hanno determinato effetti negativi sulle stesse infrastrutture turistiche e civili con inevitabile intrusione nella falda di acqua salata marina.

In tale contesto la salvaguardia del paesaggio non può essere ancora intesa come un aspetto estetico, ma è essa stessa elemento indispensabile per la tutela del territorio. L’agricoltura estensiva, iniziata con la Riforma Fondiaria del 1950, portò a grandi trasformazioni non solo ambientali ma anche economiche e sociali.

La fase di “colonizzazione” ad opera della Riforma venne realizzata attraverso l’assegnazione di nuove terre affidate agli ex braccianti ed espropriate in parte ai latifondisti, quali i Berlingieri, a Policoro e San Basilio di Pisticci, gli Scafarelli e conti Nugent ad Irsina, al duca dei Visconti di Modrone a San Teodoro di Pisticci ed altri ancora. Nei “bacini costieri” di Metaponto, San Basilio, Scanzano, Policoro e Nova Siri gli espropri riguardarono, nei primi anni del 1950, 17.769 ettari su un totale di 31.836 ettari. Le assegnazioni continuarono per quasi un decennio fino a raggiungere circa 47 mila ettari. In quegli anni si verificò l’ascesa di nuove classi sociali, commerciali, partiti politici, in un clima di aumentato benessere; tutti insieme furono fautori di radicali trasformazioni alle quali parteciparono anche i notabili locali.

Le strutture del Comprensorio di Riforma Apulo Lucano e del Molise erano costituite da case coloniche, centri aziendali e borgate rurali. Vennero realizzate strade rurali, acquedotti, fognature, scuole, servizi sanitari, chiese strutture sportive e ricreative, il cui effetto fu quello di incrementare, dopo l’iniziale scetticismo dei contadini e l’opera di dissuazione dei latifondisti a presentare domanda per le terre, un benessere generale e diffuso, consentendo un incremento di popolazione residente ed infrastrutture, amministrative e civili.

Alla “colonizzazione” aderirono famiglie vicine ai fondi e provenienti dai comuni della collina materana e da alcuni paesi del Pollino Lucano e Calabrese, gli abitanti dei comuni delle vali del Sinni, Agri e Basento (molti dei quali già impegnati nella pastorizia transumante o nell’allevamento presso i latifondi) ma anche da località lontane, da Avigliano, in provincia di Potenza, fino al Leccese. Furono assegnati fondi agricoli ad ex braccianti impegnati nella coltivazione stagionale del tabacco e del cotone; alcuni fondi vennero affidati ad ex confinati politici internati durate il periodo fascista nelle campagne di Pisticci ed a profughi provenienti dalle ex colonie italiane di Somalia e di Libia.

Gli “assegnatari” divennero il nuovo corpo sociale.Inizialmente eterogeneo, avrebbe ritrovato nei nuovi paesi della costa la propria unità amministrativa di riferimento. Policoro divenne il primo comune autonomo, distaccato da Montalbano Jonico del quale era in precedenza frazione, con Decreto del Presidente della Repubblica n. 24 del 26 Febbraio 1959. L’autonomia si era resa necessaria per lo sviluppo demografico concentrato intorno alla “terza città” (il nuovo borgo della Riforma) sorto dopo l’antica distruzione di Siris- Polieion – Herakleia, e il più recente borgo agricolo aggregato intorno al castello baronale.

Dal 1951 al 1957, la popolazione a Policoro passò da 816 abitanti ad oltre 4.000 abitanti fino a raggiungere negli anni 90 i 12mila abitanti, per lo più residenti anche nella città. Nel 1955 era sorto lo zuccherificio nella zona Quattro Quadroni (il toponimo rimanda all’uso antico del “quadrone di posta”, ovvero il ricovero in pianura delle greggi) che occupava quasi 500 operai a pieno regime con la produzione annua di 180mila tonnellate di zucchero da barbabietola, che divenne il prodotto principale delle coltivazioni della piana metapontina con l’acquisto da parte di Giovanni Ferrero del pacchetto di maggioranza dell’industria di trasformazione, già di proprietà della società Zuccherifici Meridionali SpA.

Ma la monocultura saccarifera era però destinata a fallire a causa delle scelte di politica agricola nazionale che seguirono, che favorirono altre aree italiane, nonostante si cercò negli anni seguenti di incrementare il settore ortofrutticolo (fragole, albicocche, pesche e kiwi) che però non ricevettero l’attenzione necessaria, nonostante la creazione del Consorzio ortofrutticolo COMETA, fallito dopo soli tre anni dalla sua costituzione (1958).

La rivista “Basilicata”, fondata e diretta dal giornalista e studioso Leonardo Sacco, testimoniò gli errori e le scelte delle istituzioni regionali e nazionali, un “cahiers de doléances” sulle storie e gli eventi che determinarono i fallimenti, tra i quali la scelta del nucleare presso il Centro CNEN della Trisaia di Rotondella e la messa e coltura del bosco di Policoro, rilevatesi scelte fatali che aggravarono la fragilità del territorio e il dissesto idrogeologico, reso precario dall’intensa messa a coltura e dalle arature profonde, abbinato all’uso della chimica, su grandi estensioni agricole e la distruzione dei boschi ripariali e delle dune costiere, ma anche il fallimento dell’industria in Val Basento..

L’alluvione verificatasi nell’area della costa Jonica lucana nel mese di Novembre 1959 (in un solo giorno, il 25 novembre, caddero in alcune aree ben 500 mm di pioggia) richiese l’intervento dell’esercito, con morti e feriti. I campi agricoli vennero allagati dalle acque giunte copiose dai fiumi. Le famiglie restarono isolate dei loro fondi allagati, costrette a riparare sui tetti delle abitazioni (le comunicazioni ferroviarie e stradali restarono bloccate per diverse settimane, con duemila sfollati e molti danni alle infrastrutture).

Il modello della “città lineare” della costa Jonica ipotizzato dallo studio TEKNE, mutuato da realtà europee, alla quale gli amministratori dell’epoca avevano affidato la programmazione per questa parte del territorio nel 1967, si rilevò un vano tentativo di programmare uno sviluppo ormai non governabile. Esso prevedeva l’integrazione di tutti i fattori produttivi endogeni, considerando gli effetti positivi della Riforma, ipotizzando una “città-comprensorio” che doveva nascere lungo l’asse della ferrovia Reggio-Taranto e la strada Statale 107 Jonica, tra Policoro e Scanzano Jonico, quest’ultimo divenuto comune solo più tardi, nel 1974, con identica evoluzione da borgo agricolo aggregato al cosiddetto “Palazzaccio” baronale, a Comune autonomo, ma con il borgo di Metaponto, più distante, che non incrementò mai la propria popolazione a causa di errori e ritardi da parte della Riforma.

La programmazione regionale, a partire dagli anni Settanta, non analizzò e non previde gli effetti negativi di scelte territoriali e ambientali rilevatisi sbagliate, non riconoscendo realtà antropologiche e urbanistiche preesistenti, postulando un modello urbanistico solo su carta, annullato dalle scelte dei municipi che spingevano il loro sviluppo verso la costa con interventi urbanistici e turistico-alberghiero.

Un gap di conoscenze che, ancora oggi, costituiscono il limite culturale per chi voglia approfondire la conoscenza dell’area dai grandi valori ambientali e storici-archeologici-monumentali, ancora poco conosciuti, da salvaguardare e successivamente da valorizzare. Questo nostro studio sul “Tratturo del Re” intende far riscoprire un percorso culturale dimenticato, per comprendere il futuro, partendo dall’evidenza di valori invisibili e nascosti della nostra realtà.

Dall’alto in basso e da sinistra a destra: a) case coloniche lungo la Strada Statale Jonica; b) borgo della Riforma di Policoro (in rosso il tracciato del Tratturo del Re) con sullo sfondo il borgo del castello baronale con i “casalini”;c) Casa colonica;d) Zuccherificio di Policoro (foto Riforma Fondiaria – ESAB)

Architettura dei borghi agricoli nel latifondo

Intorno alle case baronali e al latifondo sulla costa jonica lucana, erano sorti tra il XVIII e XIX secolo i borghi -villaggio formati da caseggiati aventi diverse dimensioni e funzioni. Alla casa palazzata o masseria (castello, masseria fortificata, palazzo), in posizione dominante rispetto al borgo ed aperta sull’aia abitata dal padrone, furono realizzate intorno sulla corte interna altre strutture edilizie che assolvevano alle funzioni produttive dei fondi agricoli (Policoro, Scanzano Jonico, Recoleta, San Basilio, Andriace) con stalle, magazzini, ed abitazioni per i salariati, denominati “casalini”, “casedde” e “casoni”.

Il borgo del latifondo fu un tentativo di ricreare le funzioni del “casale medievale” con lo scopo di aggregare, attraverso strutture leggere semi-stabili, le “braccia” necessarie per la gestione della masseria popolando le aree rurali. La masseria era organizzata gerarchicamente e funzionalmente per massimizzare produzione delle derrate alimentari e i profitti dei possidenti. I casalini, riprodotti anche in alcune stampe già all’inizio dell’Ottocento a Torre di Mare, sorsero intorno all’insediamento fortificato di Metaponto, per ricreare le “unità di vicinato” simili a quelle dei vicoli dei paesi. Le “unità di vicinato” erano caratterizzate da relazioni comunitarie improntate su frugalità, condivisione, sussidiarietà e solidarietà. Valori ritenuti utili per sostenere la “fatica” nei campi e la condizione di estrema povertà in cui erano tenute specialmente le maestranze non specializzate.

La tipologia costruttiva spontanea dei “casalini o casedde” risalirebbe al XVI secolo. A Pisticci, infatti, nello storico Rione Dirupo, sorto dopo la frana del 9 Febbraio 1688, le “casedde” e le “lamie” vennero realizzate a seguito della distruzione del borgo “Casalnuovo”. Dopo il terremoto che portò a valle, distruggendole, le vecchie abitazioni che erano addossate alla casa del feudatario, vennero realizzate nel corso degli anni circa 600 casette a schiera con tetto a doppia falda (casedde) e lamie (su due livelli e volta a botte), provviste di infissi in legno e prospetti bianchi bianchi in calce viva. Nonostante il feudatario Don Carlo de Cardenas, barone di Pisticci, avesse imposto ai cittadini pisticcesi di ricostruire le loro case su terreni in contrada Caporotondo, essi rifiutarono l’offerta decidendo di non abbandonare il paese.

Spesso la vita nei casalini e nei casoni mancava di igienicità e decoro, con acqua corrente e servizi igienici assenti, indegni per esseri umani. Da alcuni racconti di braccianti del secolo scorso, emergono povertà e precarietà nel borgo del latifondo. La Riforma fondiaria fu un tentativo per creare un nuovo sistema agricolo, economicamente e socialmente più equo, fondato su aziende industriali e sulla piccola proprietà agricola diffusa, quest’ultima creata attraverso gli espropri delle terre del latifondo, molti dei quali riconvertirono il loro status di possidenti in quello di industriali, affidandosi a imprese commerciali. La Riforma creò i cosiddetti “coloni”, ovvero gli affidatari delle nuove terre della Riforma. L’architettura dei borghi del latifondo che precedettero analoghi realizzazioni della Riforma, costituiscono testimonianze urbanistiche, sociali ed economiche da preservare come valori della storia territoriale ed antropologica, spesso dimenticata o volutamente cancellata da parte di chi vive in questi luoghi oggi raggiunti dal consumismo e dalla globalizzazione.

Il borgo agricolo e il fenomeno del “patronage”

Il borgo agricolo del latifondo si lega al  fenomeno del “patronage” antropologico ottocentesco, che trae antiche origini dai sistemi di oppressione attraverso la fatica. Un fenomeno culturale e ideologico, studiato dagli antropologi contemporanei anche in Basilicata, che maschera la natura profonda dello sfruttamento di braccia in agricoltura esercitata dalla classe dei “possidenti” sui “braccianti” stagionali, costretti a vivere e a “faticare”, nella provvisorietà stagionale, nei borghi del latifondo. La Riforma Fondiaria, in questa chiave fu, dopo il secondo conflitto mondiale, il tentativo di trasformare i “braccianti” in contadini, attribuendo loro un diritto di proprietà sulla terra, riscattabile dallo Stato attraverso il “lavoro” e il dignitoso sostentamento familiare, auspicando che il nuovo status economico si traducesse anche in riscatto culturale e sociale delle classi povere dall’antica oppressione.

Ma il patronage, consolidatosi nel tempo come modello di dipendenza e sfruttamento non solo di tipo economico (il fenomeno è noto anche nel sistema finanziario e bancario), avrebbe continuato anche dopo la Riforma Fondiaria a collocare i contadini in posizione difensiva, funzionale al dominio dei possidenti e dei npotenti. Nel suo studio in una piccola comunità di Pisticci, nella località Caporotondo, l’antropologo  americano John Davis (J. A. Davis, Land and Family in Pisticci. Athlone Press, 1973) scriveva: “…è nella città che l’onore è riconosciuto… chi vive in campagna, oltre che meno civile, è moralmente considerato sospetto”. Coloro che prestavano le proprie braccia da lavoro nel borgo del latifondo abitando i “casinelli” malsani, “ghetti” dove prevalevano mancanza di acqua potabile, malaria, insicurezza, venivano ingaggiati nei paesi di origine dai caporali, intermediari del latifondista, che continuava a vivere agiatamente nei propri palazzi nelle città o nella capitale del Regno di Napoli, ove era possibile amministrare le terre attraverso “capitani” e “amministratori” dei fondi, seguendo l’istruzione e l’ascesa sociale dei propri rampolli.

E’ questa l’eredità del caporalato anche nella moderna agricoltura industriale delle macchine agricole e dell’irrigazione, che associa spesso queste forme antiche di sfruttamento delle braccia  in una dimensione sociale ed economica indissolubilmente legata alla storia delle campagne del sud. E’ dalla struttura del latifondo ottocentesco che possono essere comprese alcune delle dinamiche attuali che permettono alle mafie di nascere e radicalizzarsi, consentendo alla figura del caporale di esistere e prosperare anche ai giorni nostri.

Emilio Sereni, nell’opera sul “capitalismo delle campagne” descriveva i privilegi feudali dei possidenti anche su questi “eredi” delle figure medievali quali il “…gabellotto, il campiere, gli jurnatari (lavoratori alla giornata)”, ovvero gli ultimi nella struttura gerarchica del latifondo sui quali veniva esercitata la violenza dei controllori della loro “fatica” da parte dei caporali.

I braccianti nel latifondo ottocentesco erano costretti ad essere pagati in natura integrando, negli altri periodi dell’anno, il poco guadagno con quello che ricavavano dalla coltivazione del piccolo pezzo di terra dato in fitto dal notabile del paese, senza nutrire speranza alcuna di miglioramento della propria condizione personale e familiare attraverso le doti matrimoniali, che costituivano (e costituiscono) invece il mezzo naturale per i possidenti di riperpetuare ed ingrandire le proprie ricchezze nel sud Italia.

Dopo la parentesi “sociale” della Riforma Fondiaria e del lavoro dignitoso, nuovi gruppi emergenti di facoltosi giunti in questi territori sono impegnati oggi nella riconquista dello spazio del “patronage” nelle terre del sud, acquistando i vecchi feudi e le masserie da adibire a residenze di lusso per un turismo di elitès, mentre i caporali organizzano lo sfruttamento delle nuove braccia dell’agricoltura dell’opulenza e le case della Riforma diventano i nuovi ghetti e vengono occupate dagli immigrati stagionali extracomunitari.

Le testimonianze monumentali dei borghi -villaggio del latifondo, in base al redigendo Piano Paesistico Regionale (Web GIS Piano Paesistico Regionale), sono compiutamente tutelate con vincolo solo a Scanzano Jonico dove, assieme al “Palazzaccio” è vincolato dalla Sovrintendenza anche il borgo con i casalini. Per gli altri borghi-villaggio presenti ad Andriace, Recoleta e San Basilio (Filaro e Casone), sono attualmente vincolati i soli edifici principali ma non le altre strutture abitative e produttive (vedi di seguito cartine tratte dal web GIS Piano Pesistico Regionale).

(nostre elaborazioni da Web GIS redigendo Piano Paesistico Regione Basilicata)

I “casalini” a Policoro in una rara immagine degli Trenta del secolo scorso

I “casalini” del latifondo di Policoro

Intorno al castello di Policoro, sorsero edifici per i magazzini per le derrate alimentari, stalle ed anche edifici di culto, quale la cappella della Madonna del Ponte, situata di fronte al castello baronale (nel suo interno una statua in legno della Madonna col Bambino del XIII-XIV sec. secondo la tradizione ritrovata sul fiume Agri). La struttura del borgo agricolo, derivante dalle preesistenze monumentali dei possedimenti ecclesiastici e signorili, in parte stravolta, conserva tuttavia ancora oggi i caratteri originari. Lungo l’attuale Via Cesare Battisti sono diverse le unità abitative denominate ancora oggi “casalini”, in parte modificate nella loro struttura originaria. I prospetti dei casalini sono caratterizzati da una porta e da una piccola finestra rialzata, da un alto camino che sovrasta di alcuni metri le due falde del tetto, e terminante con coppi appoggiati a “V” rovesciata o file di mattoni forati (per disperdere il fumo e consentire un tiraggio sufficiente all’interno dell’abitazione dove era presente il “fuoco” per cucinare e per riscaldare l’ambiente che identificava anche il nucleo familiare dal medioevo fino agli inizi dell’Ottocento).

La geometria delle facciate riproduce un architettura povera e semplice, ma allo stesso tempo esempio efficace estetico e visivo di elevato valore storico e monumentale. Valori, questi, che andrebbero salvaguardati attraverso opportune azioni di miglioramento abitativo per restituire ai “casalini” l’architettura unitaria originaria caratterizzata dalla sequenza delle facciate (se ne contano 20 in Via Cesare Battisti di proprietà di singole famiglie). Analogamente lungo l’attuale Via degli Artigiani-Via Nizza, sono invece presenti i “casoni” che mostrano forma e dimensioni maggiori su due livelli, con ingressi posti a livello terra e finestre con grate, concepiti e realizzati per offrire un tetto ad un numero maggiore di braccianti agricoli stagionali, ma anche come magazzini situati al piano ribassato sulla via opposta.

I casoni sono presenti anche nell’isolato abitativo delimitato lungo le attuali Via Salerno, Via Palermo, Via Napoli, Via Cristofaro Colombo, dove l’amministrazione ha in parte affidato locali per uso turistico e commerciale. All’epoca dei Principi di Gerace, proprietari del feudo di Policoro acquistato nel 1792 e proprietari fino al 1892 dell’esteso latifondo, fu affidata all’impresa Francesco Padula di Moliterno e Soci, divenuti durante il XIX secolo, importanti commercianti di prodotti caseari e agricoli (oltre a Policoro Francesco Padula era amministratore delle proprietà dei Fortunato a Gaudiano di Lavello). Francesco Padula, che pagava al barone un canone annuo in natura pari a 7.400 quintali di grano asciutto, metà duro e metà tenero, commerciava i prodotti non solo nelle regioni confinanti di Calabria, Puglia e Campania, ma persino in America. Dal libro dell’impresa si apprende che presso l’azienda lavoravano 210 salariati fissi, di cui 80 foresi, 30 pastori, 14 porcari, 12 vaccari, 9 bovari, 9 bufalari, un capo stalla, 15 carrettieri, 5 stallieri, 6 falegnami, un carpentiere, 4 muratori, 1 sellaio, 10 guardie campestri, 6 guardiacaccia e 8 salariati addetti al castello (Cfr N.Buccolo, Policoro, Ed. Grafica Sud, Policoro, 1989).

L’autore descrive i particolari dell’organizzazione del lavoro nel latifondo. Era presente un medico. un infermiere, l’ufficiale postale, il gestore della rivendita Sali e Tabacchi, che gestiva anche un negozio di alimentari e la taverna. In complesso la popolazione residente era di circa 1.000 persone, che nei periodi stagionali poteva arrivare ad oltre 1.800. Per la raccolta delle olive e la sarchiatura si reclutavano,attraverso i “caporali”,circa 400 donne da Castelsaraceno, San Severino Lucano e Latronico (da ottobre a maggio). Il caporalato è una forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera già presente all’epoca. Altrettante donne giungevano dalle Puglie per la raccolta del grano.

ll «casone» di Acinapura (attale via Diaz) con le casette adiacenti, era riservato alle raccoglitrici di olive; l’altro «casone», sito nelle vicinanze del Castello (si tratta probabilmente del casone ancora presente sul pianoro del castello), era invece occupato dalle raccoglitrici dei covoni di grano. Un intero casone era destinato al “massaro di campo” ed alla sua famiglia. In un casone venivano ospitate “ 4-5 famiglie che coabitavano dividendo gli spazi interni divisi da pezzi di stoffa a mò di tenda con un grande camino aperto da tutti i lati sorretto da colonne” (cfr di Biagio Propato, un blog sul Pollino, “la gente del Pollino a Policoro nel I Cinquantennio del 1900, articolo pubblicato sul blog, anno 2020) Da Casarano arrivavano 30 frantoiani ed una squadra di taglialegna, mentre dalla Calabria giungevano gli operai per la pulizia dei canali di scolo (Cfr D.Micucci, Moliterno, Book Sprinti edizioni, 2013).

A Pilicore chi ci va, ci more”. A Policoro chi ci va ci muore. Il “detto popolare” al tempo del barone sintetizzava le condizioni a Policoro dove se non si moriva di malaria, di perniciosa, o annegati nei guadi infidi del Sinni e soprattutto dell’Agri, si moriva di stenti (Cfr N. Buccolo, Op cit). Anche l’archeologo Michele Lacava nel suo libro su Metaponto fece voti agli amministratori e al governo di risolvere la grave situazione dei lavoratori impegnati lungo il tratto lucano per la costruzione della ferrovia, pagati poco e costretti a vivere, lavorare e morire in luoghi infestati dalla zanzara portatrice della malaria.

Il Palazzaccio e il borgo del casalini di S.Maria della Scansana

Il feudo normanno «Ischinzana» viene menzionato in un atto notarile del 1095 con il quale Ruggiero di Pomareda donava all’abate di Santa Maria del Casale di Pisticci la chiesa di Santa Maria di Scansana. Nel 1100 Riccardo Siniscalco donava al monastero basiliano di S. Elia in Carbone il feudo della Scansana insieme al territorio confinante con il feudo di San Basilio appartenente all’Abbazia benedettina di Pisticci. Nel 1125 Alessandro e Riccardo, conti di Chiaromonte, confermavano al Priore di Carbone i privilegi sul feudo di Scanzano al Monastero di S. Elia e in seguito il territorio veniva ampliato dal principe Boemondo. Il confine incerto tra i feudi contigui di San Basilio e della Scanzana furono oggetto di contenzioso tra l’Abbazia benedettina di Santa Maria del Casale di Pisticci e il Monastero greco di S. Elia in Carbone. Nel 1132 Federico II ampliava ulteriormente il feudo della Scansana, includendovi anche le terre demaniali di Policoro stabilento che gli abitanti dovessere contribuire alle spese di mantenimento per il castello di Policoro.

Roberto Sanseverino, principe di Bisignano, pretese il possesso della Scansana per diritto di discendenza e nel 1551. Con Pietrantonio Sanseverino fu sciolta la contesa con il Monastero greco di S. Elia ottenendo il feudo per la sua famiglia. Durante il periodo del viceregno di Pedro de Toledo fu eretta nel feudo, in prossimità del mare, una torre costiera secondo il piano di difesa delle coste dell’Italia meridionale approntato per difendere il territorio dalle incursioni barbaresche ove, con decreto regio nel 1568 venne istituito il corpo armato dei cavallari con tre cavallari “habbiano a guardare e discorrere da detto loco et Pantano S.Basile infino alla bocca del fiume Acri…”. Altri due cavallari “…dalla bocca di detto fiume fino alla torre della Scanzana et caricaturo di S.Stefano” con altri “dui da Torre della Scanzana insino alla bocca del fiume Basento…” .

Nello stesso periodo, sulle prime alture che si innalzano nella pianura metapontina, sorse il palazzo baronale con il villaggio formato da casette unifamiliari a schiera. Nel 1745 il feudo passò al marchese Bracigliano e successivamente al demanio regio. Nel 1795 fu acquistato da Giuseppe Paolo Donnaperna che, nel 1816, lo vendette al barone Gaetano Ferrara. Il fondo, in parte smembrato, fu inserito nel territorio del comune di Montalbano Jonico. Nel 1952 con gli espropri della riforma fondiaria il «Palazzaccio», come comunemente denominato, perdette il proprio ruolo nel grande latifondo. In seguito, nel 1809, il comune di Montalbano, pretese gli usi civici sulle terre espropriate al feudatario dal governo napoleonico a Napoli. Il palazzo baronale è attualmente di proprietà di una importante società agricola a livello nazionale che l’ha acquistata dagli ex proprietari nel 1979 (Fonte: Ministro BB.AA.CC. – decreto di vincolo del 18/7/1980) che possiede anche l’annessa cappella.

L’edificio, di origine feudale, presenta pianta quadrata rimaneggiata nei secoli, con una corte interna dominata da una torre merlata. La cappella della “Théotokos” (Madre di Dio) al suo interno custodisce un antico Crocifisso ligneo e una preziosa corona d’argento risalente al Settecento. Un bassorilievo rappresenta l’Annunciazione e sarebbe risalente all’anno Mille. I casalini, smembrati dal palazzo baronale, appartengono a privati cittadini e vari esercizi commerciali che si affacciano su Via Cardinale Scalesi, limitrofa al tracciato del Tratturo del Re.

Il Filaro e la masseria del latifondo San Basilio di Pisticci

Già possedimento basiliano e successivamente benedettino, durante il medioevo, il feudo San Basilio, unitamente alle proprietà di S.Maria del Casale di Pisticci divennero, con bolla papale del 1451, beni della Certosa San Lorenzo di Padula. Con le leggi napoleoniche eversive della feudalità, i beni transitarono al demanio e alla Real Cassa di Ammortizzazione. Il feudo San Basilio venne venduto al marchese Angelo Matteo Ferrante di Rufrano.

L’esteso latifondo, compreso tra i fiumi Cavone e Basento, giungeva dalla valli fluviali, seguendo i corsi d’acqua fino al mare. Secondo Costantino Gatta (cfr Lucania illustrata, 1723) potrebbe aver dato origine al toponimo di Basilicata. Dopo l’esecuzione di un pignoramento disposto nei confronti del marchese il 4 dicembre 1830 per insolvenza di un debito di 18.668 ducati (rif Giornale del Regno delle Due Sicilie, supplemento n.279), San Basilio fu rivenduto nel 1831 alla famiglia Berlingieri che, tramite una società, è attualmente proprietaria sia del castello e sia del Filaro (attualmente divenuti rispettivamente sala ricevimento e residenze turistiche).

Nel borgo agricolo, oltre al castello, sono presenti alcune strutture settecentesche, tra le quali il casone (oggi in stato di degrado) destinato in passato alle attività agricole ed alle trasformazioni casearie. Di forma quadrata, il casone presenta vani adibiti in passato a dormitorio nei diversi periodi dell’anno, per i transumanti e per i braccianti. Le stanze sono accessibili dall’esterno e sono comunicanti ad un ampio locale centrale destinato alla lavorazione del latte e per la produzione del formaggio (Cfr P. De Grazia, Op.cit.).

La particolare struttura modulare del casone si compone di una doppia fila di quattro casalini disposti a schiera sui due lati opposti (complessivamente otto casalini). Racchiudono al centro un grande locale (vedi immagine dall’alto) che mostra il doppio piovente più alto rispetto a quello dei casalini. Questa struttura potrebbe essere restaurata e salvaguardata e mostrata come esempio di unità produttiva agricola e zootecnica del passato o anche, preservandone la struttura architettonica originaria, destinata ad altri usi. Assieme alla masseria, al “Filaro” con i casalini a schiera disposti paralleli in doppia fila (le strutture sono state purtroppo modificate recentemente in modo sensibile, eliminando il fumaiuolo che li caratterizzava) e al castello, costituivano il cuore produttivo del latifondo.

L’allevamento, già praticato durante il periodo ellenico, divenne nel medioevo attività prevalente, assieme all’agricoltura. I vari ordini monastici ricavavano ricchezze attraverso il commercio alimentare dei cereali, del formaggio e della carne. L’abate cistercense nativo di Montalbano Jonico, Placido Troyli (1688-1757) durante la sua permanenza presso S.Maria del Sagittario, scrisse la “Istoria Generale del Reame di Napoli” in 10 tomi. Essa fornisce importanti notizie sull’allevamento praticato nel XVIII secolo a San Basilio dove era presente un importante allevamento stanziale di bufali (così come a Policoro, dove sono ancora presenti i toponimi legati a questo tipo di allevamento). I bufali venivano utilizzati per la carne ed in misura maggiore per produrre formaggi freschi filati o burro conservato nei “butirri”, ovvero all’interno di una pasta di formaggio dura che lo preservava dal contatto con l’aria (la mozzarella veniva invece consumata sul posto, poiché soggetta ad inacidire rapidamente).

I bufali maschi venivano utilizzati per l’aratura o per produrre cuoio, oppure per trainare, così come mostrano le stampe settecentesche, i carri per il trasporto. Dall’allevamento bovino – riferisce l’abate Troyli – veniva prodotto nei vacchericci o vaccarizzi il “rasco”, un formaggio salato premuto dal siero in fascine di giunco lasciato in seguito asciugare lavorandolo con salamoia, con la produzione di caciocavalli, meno pregiati, invece consumati in loco.

I famosi “casci” (caci) di Pisticci, erano invece prodotti da ovini portati durante la transumanza alle marine, tenute al caldo in inverno fino all’inizio della primavera. Questi formaggi in forme di alcuni chilogrammi erano rinomati nel regno per il loro sapore piccante, salato ed amaro, secondo Troyli dovuto dall’erba “salsugina” di cui si nutrivano gli animali, forse la salicornia o asparago di mare, i cui germogli risultano commestibili. Oltre a costituire un integratore alimentare per la dieta umana, la salicornia veniva brucata da ovini e caprini che producevano – scriveva Troyli – un formaggio con la tipica “lacrima cristi”. Presso le porcherecce veniva allevato il maiale o “nero di Lucania”, incrocio selezionato con il cinghiale selvatico. Troyli definisce la parte di carne più apprezzata per il gusto del maiale “verrinia”, ossia la parte inferiore della scrofa lattante, chiamata da Marziale “sumen”, mentre la salciccia (lucanica) ivi prodotta era già nota al tempo dei romani si prestava per essere conservata per lungo tempo essiccata o in recipienti di coccio sotto “sugna” o grasso fuso di maiale.

Masseria palazzo Federici – borgo Recoleta (foto A.Bavusi 2006). A destra la piantina del borgo agricolo disegnata da P. De Grazia (Op.cit)

Il borgo agricolo del latifondo Recoleta a Scanzano Jonico

La denominazione “Recoleta” risalirebbe al XVII secolo, allorquando sarebbe stato indicato in un documento ecclesiastico datato 1699. Ma la denominazione Recoleta, Ricoleta (De Grazia, Op.cit. e Quadro di unione catastale), La Rucoletta (cartografia Rizzi Zannoni, a.1807) secondo lo storico Rondinelli (cfr Montalbano Jonico ed i suoi dintorni, memorie storiche e topografiche. Taranto, 1913) si riferirebbe ad un luogo attinente la religione. In realtà, il termine è stato utilizzato dall’ordine monastico agostiniano dei Recolleti riconosciuto in Italia nel XVI secolo. Il termine latino antico recollectus significa “uomini radunati insieme” (cfr L.A.Muratori, Dissertazioni sopra le antichità italiane, Milano, MDCCCXVII) a testimoniare la presenza di un monastero di frati o un casale.

Nell’area esisteva l’antico cenobio San Nicola in Sylva di cui sono presenti i ruderi, citato in un diploma datato 1070 di Roberto conte di Montescaglioso e in una bolla del 1123 di Papa Callisto II che donava a Pietro, vescovo di Tricarico, le proprietà del convento definito priorato di San Nicola in Sylva conteso dall’abate della Trinità di Venosa nel 1162, secondo una successiva bolla di Papa Lucio II.

Intorno al cenobio si ha notizia, nel cedolario angioino del 1277, vi erano sei fuochi corrispondenti a 36 abitanti. Anche il territorio di Recoleta, così come quella della Piana della costa jonica, risultava disabitato a causa di paludi e luoghi malsani che rendevano impossibile ogni forma di permanenza e sussistenza.

Nel 1744, il barone Francesco Federici acquistò, al prezzo di 2000 ducati, il fondo esteso su 350 tomoli da Pietrantonio Rapone (quest’ultimo aveva sposato discendenti della famiglia Panevino di Tursi, imparentati con la potente famiglia Donnaperna, proprietari anche della masseria di Scanzano). I Federici realizzarono una masseria fortificata (sul lato sud sono visibili le torrette e le feritoie di difesa) e cominciarono a costruire le varie pertinenze agricole. Una lapide datata 1744 all’interno della cappella è dedicata alla Vergine, con lo stemma della famiglia Federici visibile sul ballatoio del palazzo. La mappa disegnata da De Grazia (P.De Grazia, Op. cit) nel 1925 descriveva le “ …due file di casette, intorno ad un vasto piazzale ondulato, salgono verso il palazzo dal lato orientale, circondandolo anche dal lato meridionale, con disposizione non lineare ma a rientranze e sporgenze”.

Nella planimetria in scala 1:500 disegnata dal geografo senisese, sono riportati, numerandoli, il deposito delle macchine, l’aia, la villa, il frantoio, le stalle, i magazzini, gli uffici e le cantine (a pianterreno), l’alloggio del proprietario (al piano superiore), le abitazioni dei subalterni, la bufoleria. Il latifondo, negli anni compresi tra il 1930 e il 1933, venne affidato in gestione alla ditta Durante – Montesano e Panetta e soci. Pasquale Panetta (1877 – ?), figlio di Francesco e Brigida Durante di Pisticci, aveva costituito una società prendendo in gestione diversi fondi nell’agro di Pisticci compresi i tremila ettari di Recoleta, ove introdusse la concimazione, migliorando la produzione agricola del fondo.

Dal 1933 al 1944, con D. Gallotta di Bernalda, L. Fortunato di Montalbano Jonico, e L. Pinto di Corleto Perticara subentrò nella gestione di Recoleta, Pasquale Michele Lunati (1879-1979). Egli prese in fitto dal barone Federici i tremila ettari di Recoleta, incrementando la cerealicoltura, l’olivicoltura supportata da due frantoi, dando impulso all’industria ovina presso la Posta delle Pecore (struttura purtroppo oggi distrutta e visibile solo in cartografia) introducendo tremila pecore delle razze merinos e gentile di Puglia, con la produzione di formaggi ai quali si aggiunsero 120 buoi da campo. Il borgo venne popolato con salariati fissi, avventizi e stagionali quali mietitori, zappatori, tosatori, raccoglitrici di olive, spigolatrici organizzati da caporali. Dopo il secondo conflitto bellico e gli espropri dell’Ente Riforma, Lunati proseguì nella gestione del fondo prendendo in gestione anche gli ex fondi Toscani-Gallo a Rocca Imperiale e Taverna a Nova Siri, quest’ultimo di proprietà del barone Mazzario. A Recoleta Lunati attuò il piano d’irrigazione della Riforma Fondiaria con l’introduzione di agrumeti, pescheti, vigneti e fragoleti con l’introduzione delle razze bovine bruno alpina e frisona, oltre alla podolica e conferendo il latte presso i nuovi caseifici di Policoro e Gioia del Colle.

Vennero per la prima volta sperimentate anche le colture in serra, introducendo sperimentalmente le arachidi, il pomodoro da tavola e l’actinidia, tra le produzioni con il marchio Taverna-Vigna Alta, furono commercializzati i vini Greco di Basilicata e Lagarino di Dioniso. Nel 1977 giunse in azienda il primo frigorifero per la conservazione della frutta, poco prima della scomparsa di colui che seppe cogliere le potenzialità dell’area attraverso l’innovazione e la sperimentazione.

Attualmente il borgo Recoleta, forse di proprietà Alsia (Agenzia Lucana Sviluppo e Innovazione in Agricoltura), versa in stato di degrado. Il fondo, smembrato e frazionato, è stato rivenduto a vari proprietari, mentre il villaggio dei casalini versa in stato di abbandono. Auspichiamo possa essere recuperato come importante testimonianza storico-architettonica-produttiva del territorio.